IL TUBINO NERO


Clifford Thurlow



Vicky cammina lungo una stradina con case ricavate da antiche scuderie che ha imboccato quasi per caso. È a pochi minuti di distanza dalla palestra, ma si sente perduta, lontana mille miglia da tutto. Si ferma fuori da un negozio e osserva un abitino nero corto, senza maniche, senza pretese. Proprio come me, pensa. Il pensiero si dissolve mentre la curiosità si sposta dall'abito al manichino che lo indossa. Ha lunghi capelli e occhi castani e labbra imbronciate, come se stesse aspettando il suo fidanzato e fosse arrivato il momento in cui ormai è sicura che non verrà più. Il manichino ha la testa girata da un lato e una gamba leggermente sollevata, come se avesse qualcosa di meglio da fare che starsene ferma lì.
Mentre Vicky dà uno sguardo all'orologio, nel riflesso della vetrina vede qualcuno che non conosce e si avvicina per accertarsi che si tratti di lei. Si controlla le mani, conta le dita, poi guarda di nuovo il manichino: sguardo perso, è terribilmente reale, si domanda come facciano a modellare la plastica e a renderla così umana.
La stradina non è illuminata e deve dribblare una serie di paletti messi ad angoli impensati lungo il cammino. La pioggia ha lucidato i vecchi ciottoli, che ora la fissano come un mare di occhi. Attraversare Sloane Square è una prova di volontà. Il traffico ti viene incontro come un branco di topi in fuga e le ragazze albanesi, con i foulard e i bambini addormentati, quando le passano accanto la fanno pensare alla storia del buon samaritano. La metro odora di negozio di robe usate. Vicky trova strano che le persone che possiedono la macchina usino i trasporti pubblici. In macchina puoi ascoltare la musica che vuoi, pensare a quello che vuoi. Non c'è nessuno che ti dica cosa fare. Si dondola aggrappata alla barra superiore come una scimmia, un libro le ballonzola davanti agli occhi, lo zaino di qualcuno le sfiora l'orecchio. Appartiene ad una ragazza pienotta con capelli biondi, un accento che ha il ritmo come le ruote del treno, da-da da-da dum, Norvegia o Finlandia, uno di quei posti da cui fai fagotto per andare a scoprire nuovi mondi.
Smette di leggere e sta lì a guardarsi nel finestrino. Indossa una giacca a vento su una tuta gialla, il nome della palestra a lettere verdi sul petto. Gli occhi sono spenti, i capelli legati con l'elastico che il postino ha usato per fermare uno dei fasci di lettere di Fergus.
Quando Vicky arriva casa, Fergus sta dorando degli spicchi d'aglio; alla radio danno un concertino irlandese. La bacia all'angolo della bocca e i peli ispidi della barba le sfiorano il naso, facendola starnutire.
"La piccola é raffreddata, e un buon brodo caldo è quello che ci vuole".
"Un bicchiere di vino gelato è quello che mi ci vuole", ribatte lei. Si guarda il volto riflesso nei suoi occhi azzurri finché lui non li chiude.
"Apro io una bottiglia. Tu va' a riposarti": Si gira per aggiungere un pizzico di timo alla pietanza. "Come è stata la tua giornata?"
"Da infarto," gli dice lei. Questa espressione le piace e la usa ogni volta che può.
"Povera piccola".
Passa un sacco di tempo seduta sul gabinetto. Sarebbe bello trovare qualcosa che non va in Fergus, fare una bella litigata, rompere qualcosa, ma Vicky non ne ha l'energia. Si guarda intorno. Vede una ciotola piena di pot-pourri e una fila di piccoli Buddha che Fergus ha portato dall'Estremo Oriente. Hanno tutti lo stesso sorriso intenso e sembrano voler controllare se lei usi davvero solo un quadratino di carta per asciugarsi.
Si alza in piedi e si gira verso lo specchio. Guardarsi negli occhi è come aprire un cassetto pieno di cose dimenticate che sarebbe stato meglio gettare via. Il futuro è una giornata uggiosa a Londra, imperscrutabile come il sorriso dei Buddha di plastica. Ho ventitre anni, una zitella, pensa, poi le viene in mente che ha sposato Fergus durante l'ultimo anno di college. È un insegnante di educazione fisica, insegna a donne già magre come tenersi i mariti diventando davvero da infarto. "Non si può essere troppo magra o troppo ricca," sibilano, come se fosse una cosa originale, odiandola perché é giovane.
Il suo diploma è appeso a una parete della palestra. Fergus ha lauree di ogni sorta e ne stava collezionando un'altra in Studi sulla Pace quando si erano incontrati. È uno di quegli uomini che vedi al telegiornale delle sei con una camicia sbiadita e seri occhi azzurri circondati da uomini di colore, in occasione di carestie o alluvioni. Fergus è la voce della calma, mani ferme, una fronte arata e seminata da un'angoscia millenaria. Nei primi tempi della loro relazione Vicky si accucciava contro il suo petto, si sentiva protetta, come se la sua barba fosse un ombrello in un giorno di pioggia, un parasole in una giornata serena, e la sua spalla un rifugio nella tempesta. Le era piaciuto il suo naso lungo, il fatto che avesse pochi dubbi, ed era concorde con la sua massima secondo cui se tu possiedi più di due paia di scarpe qualcuno nel Terzo Mondo è a piedi nudi - ed è solo colpa tua.
Arriva fino all'armadio e conta tre paia di scarpe da ginnastica, dei sandali ancora con le tracce di sabbia della scorsa estate e un paio di scarponcini da montagna che si ripromette di lucidare da una vita. Fanno parte dell'Associazione Escursionisti e quando Fergus non è impegnato a salvare il mondo vanno insieme a salvare un sentiero pubblico dalle grinfie di qualche rapace proprietario terriero. La vita è un'interminabile battaglia per le Piccole Cose. Se ognuno facesse la sua parte di Piccole Cose, le Grandi Cose si aggiusterebbero da sole.
Sta passando in rassegna i suoi vecchi abiti quando il suo nome la raggiunge su per le scale come un canto. Per un attimo immagina che sia sua madre a chiamarla e deve fare uno sforzo per non versare una lacrima.
"Vicky. Vicky. V-i-c-t-o-r-i-a. La cena é pronta".
"Arrivo."
"Non far raffreddare tutto."
Ah, arrosto di noci, purée di pastinache, pomodori biologici con salsa ai semi di sesamo. Frutta fresca. E un documentario sulla vita in una piantagione di caffé in Guatemala. Come noi del Mondo Sviluppato possiamo torturare le sofferenti moltitudini del Centroamerica semplicemente bevendo quella roba è un mistero che induce Fergus a scrocchiare le dita e a tirarsi la barba. Si sporge in avanti, sbatte le palpebre guardando lo schermo, sempre osservandola con la coda dell'occhio mentre lei, tranquilla, si riempie il bicchiere.
"Monella. Due unità. Quello è il limite massimo," dice.
"È solo il secondo che bevo," sussurra. Naturalmente è una bugia, e Vicky è sollevata dal fatto che lui non tiri fuori una qualche circolare dell'Organizzazione Mondiale per la Sanità. Fergus è così attento a ciò che lei mangia e beve, che Vicky si è convinta che vivrà per sempre e qualche volta teme di non stare vivendo per niente.
Sta giocando con la candela e lascia che la cera le bruci le dita.
"Ahi."
"Adesso sai cosa succede se ti metti a giocare col fuoco."
I suoi occhi scintillano, diventano più grandi mentre si avvicina per baciarla. "Su per il bosco della collina", dice, e lei ascolta mentre lui riporta il vino in cucina, toglie il tappo dal cavatappi, lo rinfila nel collo della bottiglia e rimette la bottiglia in frigo.
Il mattino seguente Fergus ha un volo di buon'ora per Ginevra e due giorni di trattative molto importanti. La vasca che si sta riempiendo è un promemoria. Si toglie con foga la camicia da notte, fa un posticino caldo al centro del letto e nelle crepe del soffitto scopre il volto della sorella. Fergus odora di shampoo alla banana quando si sistema accanto a lei. Resta in equilibrio su un gomito per spegnere la lampada, sfilandosi intanto il pigiama. La distende, come se lei fosse un rotolo di stoffa, le sue ginocchia come forbici tra le sue gambe e si muove avanti e indietro come una macchina da cucire, modellandola perché corrisponda ad un'immagine che lui solo ha negli occhi. Lei tiene gli occhi chiusi e immagina di essere alle giostre, sulle montagne russe, su e giù, sempre più veloce. Aria tiepida si muove rapida su braccia e gambe. Un braccio forte le circonda le spalle. In questa immagine lei indossa il tubino nero e scarpe nuove. Si meraviglia per il pensiero. Grida con tutta la voce che ha e Fergus si raggela come un uccello ucciso in volo.
"Shh," dice. "I vicini".

Quella mattina il tubino è ancora lì quando passa per andare al lavoro; ritorna all'ora di pranzo. Una donna è seduta ad una scrivania e scrive in un librone; ha lo stesso accento delle signore al club ma non é magra ed è visibilmente riluttante a prendere l'abito dalla vetrina.
"Sa, costa duecento sterline".
"Duecento sterline? Per un abito di seconda mano?"
La donna arriccia il naso, come se stesse bevendo un tè con troppo zucchero. "Non é di seconda mano. È un classico".
"Vorrei comunque indossarlo". Vicky attende ostinata mentre Miss Snobismo legge la scritta verde sulla tuta da ginnastica. "Se non le spiace," aggiunge.
Fanno lavoro di squadra, mentre maneggiano il manichino per trarlo dalla vetrina, e Vicky si trova faccia a faccia con la ragazza di plastica. Si osservano come due gatti mentre la donna fa scorrere la lampo del tubino.
"È uno Chanel del 1968 circa," dice.
Le parole sono confuse, come se raggiungessero Vicky da un'altra stanza, Mentre si sposta gli occhi del manichino la seguono, e lei ricorda di aver visto un dipinto alla Tate Gallery che faceva lo stesso. Hanno la stessa altezza, Vicky e il manichino, poco più di un metro e sessantasette. Per un momento a Vicky sembra stranissimo, di norma le modelle non sono più alte?
"Sul retro c'è un camerino".
"Grazie."
Vicky si sfila i vestiti. La pelle le pizzica mentre si infila il tubino. Fa scorrere le mani sulle braccia, sui seni. Tutto inizia a girare intorno a lei. Ha difficoltà a respirare, e per un istante sente che le dita di uno sconosciuto le stanno serrando la gola. Scalza e malferma esce dal camerino, le manca l'aria.
La donna le piroetta intorno come una ballerina, e tirando su la lampo le sfiora la schiena, poi la mette davanti allo specchio. Gli occhi di Vicky sono vitrei, le labbra pallide, senza ombra di sorriso. Sembra un'altra.
"Delizioso", dice la donna. Ha denti grandi e il naso lungo come Fergus.
Vicky toglie l'elastico dai capelli, li scuote, facendo ondeggiare i pensieri come sabbia in un setaccio alla ricerca dell'oro. Si gira da una parte e poi dall'altra. La donna le è dietro e regge un altro specchio e Vicky vede la sua immagine rimbalzare da uno specchio all'altro, sempre più velocemente.
"Lo sa, pare proprio che Chanel l'abbia creato per lei", dice la donna.
"Lo prendo," replica, anche se era decisa a non farlo. Duecento sterline sono più dello stipendio di un anno di lavoro in Guatemala. Miss Snobismo è diventata Miss Amicizia adesso che sta scrivendo la ricevuta. Scrive qualcosa nel librone, poi tira fuori una borsetta nera.
"Va col vestito". Vicky sta per dire qualcosa, ma la donna la ferma. "È un regalo," aggiunge.
"Grazie".
La donna mette l'abito in una busta, la borsetta in un'altra e Vicky si incammina verso King's Road sentendosi leggera, tanto che le buste potrebbero essere ali che la portano via. Ricorda la visione della notte precedente, le luci del luna park, lo schiaffo del vento mentre era sulle montagne russe, e le viene in mente che i sogni scompaiono sempre al risveglio. La vita è così: sogni, ti svegli, e poi non c'è più nulla.
Entra in un negozio di scarpe e vede un mare di scarpe ai suoi piedi mentre cerca il paio giusto. La ragazza che l'aiuta ha un'aria preoccupata, come se si stesse decidendo un affare di stato. La musica viene giù da prese d'aria nel soffitto e, mentre prova una scarpa dopo l'altra, a Vicky viene voglia di ballare. Deve chiudere gli occhi per poter prendere una decisione e infine indica le dècolleté di capretto nero con fiocchi di satin. "Queste", dice, e la ragazza annuisce in approvazione.
Fuori, il cielo è diventato azzurro. Le nuvole sono sparite. Vicky si accorge che diverse persone sorridono, e non sono nemmeno idioti. Lo sguardo di speranza che vede negli occhi dei giovani diventa disperato nei vecchi. Quand'è che si trasforma? A trent'anni? A quaranta? Spaventoso. Si trasforma sempre. Neppure i ricchi sono felici. Le donne sono da infarto. I loro uomini sono palestrati e scontenti. Ci doveva essere una risposta, una risposta per qualcosa, per un mistero che nessuno risolve mai.
I suoi pensieri si dissolvono entrando in una boutique le cui pareti sono affollate di televisori che mostrano modelle in passerella. Nel momento in cui si era provata il tubino nero sui suoi soliti slip lava-e-metti, aveva capito che avrebbe dovuto continuare a dar fondo ai suoi risparmi per comprarsi della nuova lingerie. Scova due completini, uno bianco, uno nero, e sono entrambi così carini che è difficile decidersi. Una ragazza con le sopracciglia arcuate fa la sua comparsa con aria di sufficienza; è francese o italiana e indossa una sciarpa di chiffon grigio che le ondeggia intorno al lungo collo come una ragnatela.
"Perché non li prende tutti e due?" dice. "In fondo sono solo soldi".
"Quanto è vero," dice Vicky e li compra.
Una busta da lettere sarebbe più che sufficiente a contenere i quattro pezzettini di seta, ma dopo essere stati avvolti nella carta e infilati in un tubo di cartoncino, le occorre un altro sacchetto, rosa con delle chiazze a formare un sole arancione. Mentre percorre a ritroso King's Road, Vicky si accorge che sta andando di fretta; la colpisce il pensiero che le signore magre portano sempre un sacco di buste e che vanno sempre di fretta. Ci deve essere qualcosa nelle cose nuove in buste fiammanti che rende la vita urgente. Tutti si muovono rapidamente, tutti tranne i mendicanti, e più si caricano di pacchetti, meno li noti.
Quando Vicky arriva in palestra, lo sguardo di Amanda si posa sui sacchetti.
"Sai che ore sono?" dice, respirando profondamente per sottolineare l'esasperazione.
Le lancette dell'orologio sono fisse sulle due e dieci, e Vicky si è dimenticata di pranzare.
"Mrs Scott-English detesta aspettare."
Amanda tamburella unghie vermiglie sul banco della reception mentre Vicky si precipita in palestra. Le tapparelle sono abbassate a metà. Le lame scendono verticali dalle alte finestre, e Mrs Scott-English, attraversando la palestra con il suo body argentato sembra oscillare fra l'esserci e il non esserci, un ago che cuce insieme strisce di luce.


Vicky adora avere la casa tutta per sé. Tazze sparse sui tavoli e sulle mensole che lasciano macchie che lei pulirà prima che Fergus torni dal salvataggio del mondo. Si ricorda dei poveri in Guatemala mentre prepara dell'arrosto keniota e pensa alle Piccole Cose. E quello che succede con le Piccole Cose è che tu non puoi pensarci per tutto il tempo. Dovresti, ma proprio non puoi.
Lo sguardo cade sul porta CD: Mozart, canti tibetani, inni africani; la musica classica le piace, tollera una tantum i canti tibetani, ma quando Fergus è via lei si abbandona alla nostalgia, alla musica che ascoltava da bambina, che le riporta ricordi dolci e amari dei suoi genitori. La musica le riporta anche il calore del fuoco che aveva distrutto il loro cottage e l'immagine di sua sorella Rachel seduta la suo fianco nella camera ardente, con una gonna così corta che il sacerdote non riusciva a staccarle gi occhi dalle gambe. Rachel ora viveva a Barcellona con un'artista di nome Begonia. Erano venute al funerale insieme, tutte e due con capelli alla maschietto e orecchini uguali, ed erano tornate in Spagna subito dopo la funzione. Le chiedono continuamente di andare a trovarle ma Fergus, figuriamoci, non approva quel genere di cose!
Passa in rapida rassegna le cassette, Police, Bob Marley, Bob Dylan a passeggio per Greenwich Village, una ragazza al braccio, una sigaretta in bocca. Non ha visto i dati dell'Organizzazione Mondiale per la Sanità? Si sorprende a ridere e vorrebbe tanto avere ancora il sacchetto con l'erba nascosto nell'orologio rotto che teneva su una mensola al college. Non fuma una canna da quando ha conosciuto Fergus.
L'odore del caffè la riporta al presente. Mette su la cassetta e si meraviglia di conoscere così bene i testi. Non ricorda di aver prestato molta attenzione alle parole, ma eccole qui, le vengono fuori dalla bocca come se fosse la ragazza attaccata al braccio di Bob a New York, nel 1968 circa.
Il tubino nero è appeso dietro la porta. Le scarpe sono nella loro scatola. La nuova lingerie è ancora avvolta nella carta, un regalo solo per lei. Balla nella stanza improvvisando uno spogliarello e si ferma paralizzata davanti al telefono. Fergus chiamerà alle dieci e mezza per accertarsi che sia sotto le coperte con una tazza di camomilla e un romanzo che ha scelto per lei. Il mondo sarebbe un posto migliore se tutti leggessero almeno venti pagine di un libro al giorno. Vicky si fa una doccia e si lava i capelli. Usa l'asciugacapelli per farli venire lisci e si rende conto che si sta tagliando la frangia quando è ormai a metà dell'operazione. Si trucca gli occhi, si dipinge le labbra di rosa, poi toglie tutto e sceglie il rosso. Le piace andare in giro senza vestiti; si chiede se ci sia qualcuno con un binocolo dall'altro lato della strada, e cammina avanti e indietro vicino alla finestra, nel caso in cui.
Si veste lentamente, indugiando su ogni singolo movimento; apre il primo pacchetto, gli slip di seta bianca le scorrono tra le dita liberando un profumo di pelle tiepida su spiagge assolate. Il reggiseno è stato progettato da un ingegnere che ha pratica di aeroplani, e sa come si fa a slegare dalla legge di gravità gli oggetti più pesanti dell'aria. I suoi seni nelle piccole coppe hanno un aspetto adorabile. Come premi. Il primo premio va a....Miss Page. E il secondo premio a....Miss Page. Vicky Greenham? Mai sentita.
Dopo vengono le scarpe. Infilandole, le spalle si raddrizzano, la schiena si incurva, spingendole fuori i fianchi il torace, i seni. Si scopre un sorriso sulle labbra. Se Fergus la vedesse ora diventerebbe più zen che mai e le reciterebbe un koan.
Passando davanti al telefono, questo le si avventa addosso come un gatto. Lo calma con mano ferma, poi stacca la spina dal muro. "Eccoti servito. Ora sta' buono."
È giunto il momento del tubino nero. Le scivola sul corpo come una pellicola, fermandosi in posizione, come il petrolio scivola sul mare. Chiude gli occhi e li riapre davanti allo specchio.
"Wow. Uno schianto," dice a se stessa e raggiunge le tazze di caffè ballando e cantando "The times they are a' changing". Si getta sulle spalle una vecchia giacca di velluto che aveva comprato quando era ancora Victoria Page e che non indossa da quando è diventata Vicky Greenham. Mette le sue cose nella borsetta nera e svolazza per la stanza in un alone di profumo spagnolo. Ho ventitre anni. Sono viva. Clic-clic. Clic-clac. Sente il suono delle scarpe nuove sul marciapiede e guarda in basso, si osserva le gambe; sono pallide e lunghe sotto il tubino nero e sembrano andare di fretta.
Pagine di giornali abbandonati si muovono sul pavimetno della metro. Scontri a Parigi, recitano i titoli. Studenti in rivolta.
E' tornata in Sloane Square. La notte é chiara. La primavera é arrivata come la lettera di un amico. L'aria odora di fumo e di fiori. Entra in un posto chiamato Twist&Shout. Non l'ha mai notato prima e di norma non sarebbe andata in un locale a tema senza pensarci. Sono le scarpe che ce l'hanno portata.
"Cuba libre," si sente pronunciare. Da una vita desidera dirlo e non è nemmeno sicura di che cosa sia. Appoggia la borsetta sul bancone. Le bollicine della coca le fanno il solletico al naso, l'alcool tocca punti nevralgici che le ricordano chi era. La musica le giunge da lontano, e due ragazzi che sembrano ragazze stanno ballando, anche se non è veramente ballare, piuttosto il movimento ondeggiante di panni stesi agitati dal vento.
"Sembri proprio venuta fuori da Hair," dice un altro ragazzo, inerpicandosi sullo sgabello accanto a lei. Lei non ha idea di cosa voglia dire. Si è osservata attentamente nelle pareti a specchio dietro il bancone; sembra diversa in ogni quadrato di specchio, più anziana in uno, più giovane nell'altro, sorridente e solitaria, perduta e fiduciosa, una collezione di francobolli di tante Victoria Page.
"Scusa?"
"Non scusarti, non spiegarti, bevi ancora qualcosa."
"Ci penserò"
Fa scrocchiare le dita. "Non ti ho vista qui ieri sera?
Sogghigna, scuote la testa, si gratta il lungo naso.
"Non ne hai una migliore?"
"TI ho sicuramente vista da qualche altra parte"
"Forse in una vetrina," risponde lei; lui ride e lei non sa perché lo ha detto.
"Dai, forza, beviamone un altro".
Gli occhi di lui le passano in rassegna il bicchiere, il seno, gli occhi. È così che va con i tubini neri. Puoi startene in un pub a bere per ore di seguito con addosso una giacca a vento e nessuno ti degna di un secondo sguardo. Ti passi il rasoio sulle gambe, ti infili un vestito e il mondo ti schiude infinte possibilità.
Lui ordina da bere e a lei non importa quante unità ha bevuto. Lo fissa attraverso le bollicine; un uomo fuori moda, jeans ricamati, camicia senza colletto, capelli lunghi. Ha gli occhi che riflettono le luci: blu, giallo, rosso e poi ancora blu.
"Adesso fammi pensare....sei una modella, giusto?" dice.
"Credo che tu l'abbia già detto".
"No, dico sul serio. Ho visto delle tue foto".
"Nei tuoi sogni."
"Forse," dice lui, e forse ha ragione. C'era qualcuno seduto accanto a lei sulle montagne russe.
"Be', allora, che facciamo?" le chiede.
"Potremmo finire di bere".
"E dopo?"
"Ci sono le giostre a Battersea Park".
"Bello. Mi piacciono i luna park".
"Anche a me," dice lei, anche se non è vero, anche se non sapeva che ci fossero le giostre a Battersea. Le parole del poster le si devono essere registrate in testa.
Le offre una sigaretta e lei la prende. Lei si brucia e si lecca il dito, spegnendo il fiammifero con un soffio.
"Attenta, vedi cosa succede se giochi col fuoco!"
"Cosa?" chiede lei.
"Sta' a guardare"
Fantasmi di fumo fuoriescono dalle loro bocche e danzano sulle loro teste. La stanza traballa. Sente un rivolo di sudore correrle lungo la schiena. Finiscono di bere. La notte è tiepida. Le si incolla ai vestiti. Le stelle sono dei puntini e se riuscisse a raggiungerle le predirebbero il futuro. Per un istante pensa a Fergus. Si domanda perché non si senta in colpa; in realtà non sente proprio niente.
Le parole giungono a lei come un canto tibetano. Lui parla di bombardamenti a tappeto e le dice di diffidare di qualsiasi persona oltre i trenta, infervorandosi come un poeta o come un pazzo.
"Mi stai ascoltando?" dice e sembra Fergus quando la scopre a sognare a occhi aperti. Hanno lo stesso colore di occhi e di capelli.
"Non mi sto perdendo nemmeno una parola."
Le mette un braccio sulla spalla mentre attraversano la strada che porta al ponte. Il fiume ha il colore della pioggia sull'acciottolato.
"Però. Che musica!"
Nel parco si guardano intorno. Un fondo di luce incombe sul luna park. La musica suona distorta finché non si avvicinano e lei non sente cantare "Those were the days my friend/We thought they'd never end", poi incominciano a cantare da-da da-da dum, da-da da-da dum, imitando il suono delle ruote della metro.
Lei sente l'odore delle mele caramellate e dello zucchero filato. Si ricorda di quando era bambina, la manina in quella di suo padre mentre camminavano senza mai fermarsi verso l''orizzonte. Ha trascorso tutta la sua vita in attesa di qualcosa. La folla è una marea che li spinge verso lo scivolo grande a forma di torre, verso il banchetto del tiro a bersaglio, verso l'uomo che indovina il peso. L'uomo che è con lei è come un motivo che non riesci a toglierti dalla testa. Non sa come si chiama, ma è forte, lo sa da come colpisce la tacca di legno con una mazza, facendo suonare i campanelli. La folla applaude. Ha vinto un Gonk giallo. I suoi occhi scintillano come lampi blu sulle aste sul tettuccio delle macchine da scontro. La bacia sulle labbra, la reclama come un trofeo, le mette il Gonk tra le mani. Sente il desiderio in lui come una droga.
Vanno sulle montagne russe. L'aria tiepida le accarezza il corpo con mani invisibili. Le sue braccia le circondano le spalle. Lei osserva il mondo cambiare colore; tutto le gira intorno quando scendono dalla gabbia metallica che ancora oscilla, la folla che li spinge verso il labirinto di specchi. Lei ha un bisogno impellente di guardarsi, di controllare che è ancora lei, che è ancora lì.
Entra nel labirinto, si gira da una parte all'altra, la sua immagine è intrappolata e deformata. Si ferma davanti a uno specchio ricurvo e ricorda il manichino della vetrina, il piede sollevato. Fa un passo indietro e la testa scompare. Si avvicina e diventa sempre più piccola, una macchiolina nera slegata da tutto.
Le mani di lui le cingono la vita. Sente che la sta toccando ma non riesce a vedere la sua immagine. È come se lui non fosse veramente lì, ed invece c'è, e la fa girare nel corridoio, abiti neri che fremono in una macchia d'ombra. La fa girare ancora e ancora. Improvvisamente è stanca, e quando scopre che l'uscita del labirinto è nella stessa porta da cui erano entrati si sente ingannata.
Si lascia condurre via dalla folla, come se la sua volontà fosse rimasta con la sua immagine, fusa nello specchio, consumata da luci e musica. La schiena è umida. Stringe la borsa. Il rumore dei passi la raggiunge inevitabile e soffocato. Si vede come se fosse fuori da se stessa, distaccata e affascinata. C'è una cancellata di metallo lungo l'argine e l'erba al di là si infossa a formare un sentiero sotto il ponte. In lontananza c'è un cancello. Il cancello è chiuso a chiave e lui dovrà aiutarla a scavalcare, poi salterà dietro di lei. La prenderà per mano, la condurrà attraverso l'erba e sotto il ponte. Lei vede questo chiaramente. Sa già cosa lui dirà una volta raggiunto il cancello. Si fermano.
Chissà perché c'è un cancello se poi è sempre chiuso.
Lei si sente stranamente piena di vita, completamente sveglia. Studia il viso di lui come uno che si è perso e sta studiando la cartina.
Forza, ti dò una mano a scavalcare.
Lei è paralizzata. Lui inizia a baciarla, ad accarezzarle la schiena. lei vorrebbe spingerlo via. Riesce a sentire l'impulso crescere in lei e sa che deve ignorarlo, interrompere il flusso.
Dai, forza.
"Dai, forza".
Sente quella voce in testa, poi la sua voce, un'eco. Era strana, eccitante. Sente un groppo di carne che preme contro il vestito, indovina la sua impazienza. Le carezze sono finite; le mani di lui sono ferme lungo la sua schiena. Vuole darle fretta, ma non spaventarla. La mente corre. Lei lo sente come un mormorio persistente udito nel sonno profondo. Tiene gli occhi aperti mentre lo stringe, lo bacia, gli infila con forza la lingua in bocca. Mani forti le sollevano la gonna a scoprirle il sedere. Lei ansima, arcua la schiena, il corpo di lui pesa come una lastra di pietra.
"Va' prima tu", dice lei.
Sorride, gira la testa da un lato, lo guarda con occhi vitrei. Un brivido di incertezza accarezza i suoi lineamenti. Lui infila il piede tra le barre metalliche del cancello e dà uno sguardo indietro prima di sollevare la gamba. Si accorge che c'è qualcosa di strano, ma è troppo tardi. Mentre lui salta giù, sull'erba, lei si gira e corre, e continua a correre finché i suoni della notte si mutano in silenzio.


La zip si é incastrata e deve girare il vestito per poterlo togliere. Lo fa cadere per terra e si allontana come se il tessuto fosse vivo. Si piega per toccarlo e le dita sono percorse dalla carica statica.
Decide di non ripristinare il telefono. È stanca, un nuovo tipo di stanchezza, come se avesse camminato in un deserto o salvato persone da una casa in fiamme. Una bella sensazione. Si addormenta senza muoversi, senza sognare e si sveglia con un elenco scritto in testa. Beve due tazze di caffè mentre imbusta la borsetta con il tubino nero, poi esce per andare a prendere la metro. Mette spiccioli nelle tazze delle ragazze albanesi e si domanda come mai i loro bambini sono sempre addormentati. Attraversa Sloane Square ed entra nel cortile che conduce al negozio.
È chiuso, e probabilmente non avrebbe pensato che si trattava dello stesso negozio se non fosse stato per il manichino in vetrina. La testa è stata tolta e ora è per terra. I capelli non ci sono più; la pelle di plastica è graffiata. Victoria si piega sulle ginocchia e gli occhi castani del manichino sono occhi spenti che la guardano.
Si fa rapidamente strada tra i paletti e arriva al club. Amanda tamburella le unghie e Mrs Scott-English è ferma in un angolo come uno scheletro in uno studio medico. "Tu e il tempo proprio non vi capite", dice Amanda, ed è una cosa così profonda che stenta a credere che l'abbia detto proprio Amanda.
Victoria lascia la busta con l'abito dietro il banco della reception e stacca il diploma dal muro.
"Cos'è che pensi di fare?".
"Ricominciare da capo," risponde, e raggiunge la porta col diploma sotto il braccio.
"E questa?" Amanda sta indicando la busta con l'abito.
"Tienila pure", dice, e uscendo sorride a Mrs Scott-English.
Prende un autobus per Trailfinders, prenota un posto sul primo volo per Barcellona, poi torna a casa per fare le valigie. Si mette i jeans e la giacca di velluto. Oltre alle scarpe nuove e alla biancheria, porta con sé solo le cassette e le cose che aveva prima di incontrare Fergus.
Quando si mette seduta per scrivere una lettera, Victoria prende in considerazione l'ipotesi di parlargli del tubino nero, ma lascia perdere. Fergus non crederebbe mai ad una cosa del genere e lì inizia a dubitare di crederci lei stessa. La vita con Fergus è stata una menzogna e una menzogna in più risolverà tutto. Sente nascere un sorriso mentre spiega che ha le stesse preferenze di sua sorella e che, sebbene ci abbia provato, non riesce più combatterle. Aveva incontrato qualcuno, una ragazza come lei.
Lavando le tazze, Victoria ricorda lo sguardo illuso dell'uomo mentre le diceva che aveva già visto foto sue. Ma dove? si domandava. Ha ancora quattro ore prima del volo e l'idea di andare in biblioteca le viene come la soluzione di un indovinello. Lascia le chiavi con la lettera, chiude la borsa e va in Kensington High Street.
Victoria chiede i giornali del 1968 e si siede davanti a un cupo macchinario con una montagna di microfilm. Non sa esattamente cosa cerca, ma si riscalda quando vede i titoli delle proteste studentesche a Parigi. Avvolge lentamente la pellicola e si ferma sulla foto di una ragazza con un tubino nero. Modella uccisa a Battersea. Era stata strangolata. Victoria continua a sfogliare maggio e giugno. A luglio un uomo era stato arrestato. C'è la foto di quando è stato chiamato a deporre. In prigione gli avevano tagliato i capelli, si è fatto crescere la barba e ha un volto così familiare che lei trema. Riporta il microfilm al banco e parla ad una donna in carne con gli occhiali attaccati ad una catenella.
"Ci sono le giostre a Battersea?" le chiede.
Il mento della donna sussulta mentre scuote la testa. "No, sono chiuse da anni."
"Ne é sicura?"
La donna picchietta sul suo computer e la guarda al di sopra degli occhiali. "Assolutamente", risponde.
Victoria si mette la borsa a tracolla e va alla toilette.
'Calle de la Diputación, por favor,' dice allo specchio.
'¿Qué numero?'
'Nùmero ciento veititrés'
'Muy bien'
'Gracias'
Sorride mentre si abbottona la giacca. Nella tasca c'é un rigonfio. Infila la mano e tira fuori il Gonk giallo. Morbido, peloso, con occhi di vetro, e deve premere tre volte lo scarico prima di vederlo scomparire nel gabinetto.


(Racconto tratto dalla raccolta Riti di primavera, Centroscuola edizioni, Mantova, 2000, tradotto da Raffaella Castagna e Natalia Paparelli)




 

Clifford Thurlow ha studiato nel Kent e vive a Londra dove lavora come revisore di sceneggiature. Il suo primo lavoro, Streets, è in programmazione con la Worlds End Pictures e, recentissimamente ha adattato il romanzo di Freya North, Sally, per la De Warrenne Pictures.

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