APPUNTI SU DOSTOEVSKIJ

Emil Szittya



I
Russia

Nel più bel saggio che sia stato scritto finora su Dostoevskij, l'autore, Suarès, dice di aver atteso un'ora solenne per scrivere sul grande Russo. Io non so proprio se qui Suarès si stia sbagliando. Il modo migliore per vivere l'animo russo, da Ivan il Terribile fino alle viscere del Bolscevismo, è quello di mettersi su un treno merci sgangherato, che da Vilnius si trascina traballante fino in Siberia, in un paesaggio in cui non può certo mancare la neve striata dal blu di una luna glaciale.
Un personaggio tragico infetto dalla poesia di Dostoevskij chiede: "Forse il destino e la tragedia della Russia dipendono dalla sua posizione tra l'Europa e l'Asia?"
Il treno merci si ferma all'improvviso e il personaggio tragico continua:
"Non poter assumere una fisionomia, stare sempre nel mezzo, lenti come nel treno merci, avere il volto solcato da bicchieri della vodka più scadente. Sapere che si è dannati perché non si ha un volto. Non essere mai costretti dal destino della propria patria a prendere partito. I Russi giudicano l'Europa in maniera troppo positivista (persino con il loro socialismo) e hanno paura che l'Asia possa solamente produrre follie religiose. Pietro III fu destinato alla rovina perché si fece logorare dall'essere nel mezzo e perché si entusiasmò per i Prussiani.
Dostoevskij potrebbe controbattere a costui:
"Caterina la Grande, nonostante gli ammonimenti diderotiani, ha creato il volto opportunista della Russia, l'ingegnoso arrabattarsi stando nel mezzo".
(Intermezzo: all'improvviso, mentre si parla, viene a mancare la luce. Si ha quindi la visione della pioggia che cade incessante da settimane su un sobborgo di Odessa. E' ancora notte. La pioggia bussa forte ai vetri delle finestre. Si sgranano gli occhi per assicurarsi di non essere davvero diventati ciechi.)
Dostoevskij ha fatto luce sull'opportunismo russo e ha mostrato al Bolscevismo di oggi quale sia il vero volto di questa Russia. Il tormento di ogni nostalgico è chiedersi se nuove forme di organizzazione statale siano in grado di cambiare un popolo di sangue così misto come quello russo. Il treno merci si arresta nuovamente. E l'immagine che si affaccia al nostro sguardo? Il contadino russo ha sempre vissuto in una terribile miseria e ancora oggi, contrariamente ad ogni mistica e ad ogni forma di organizzazione statale, chiede l'elemosina solo per comprarsi una vodka. Ancora oggi a livello psico-sociologico le condizioni non sono cambiate perché i Russi sono fatalisti, non sanno vedere altro che un'immutabilità ottusa anche quando hanno una predisposizione cristiano-sociale (non intesa nell'accezione di partito politico occidentale).
In un'osteria di Nižni Novgorod, proprio quando fuori il suono delle campane si riversa sulle strade come una preghiera monotona, un contadino dice:
"Quando in Russia qualcuno commette un reato, non lo commette contro il singolo, contro un preciso gruppo di persone, bensì contro l'intera razza russa, e in tal modo anche contro se stesso. Per i Russi non esistono i criminali, ma gli affamati. In Russia i criminali si preferisce chiamarli infelici."
E la salvezza? Credo si sopravvaluti l'ateismo bolscevico e si dimentichi che anche il sangue asiatico in qualche modo svolge la sua parte. Questa componente asiatica rende i confini tra religione e politica a tal punto indefiniti che spesso nell'estatica avversione a Dio viene alla luce solo un'informe volontà religiosa di "estendersi". L'essere russo è alla mercé di molte oscure manifestazioni, esso cerca la liberazione solo nel dolore e nel martirio, perché il mondo, soprattutto secondo la chiesa greco-ortodossa, è il regno del male. I Russi hanno una credenza nel maligno fortemente radicata (pare sia esistita un tempo una setta russa che venerava Napoleone come l'Anticristo). Il contadino russo conosce per nome tutti i demoni maggiori e minori e li venera perché teme per la propria vita. Ci sono centinaia di sette che vogliono insegnare al popolo non come raggiungere la salvezza, ma come soffrire. E chi non può dire oggi con sicurezza che anche il Bolscevismo non sia una simile dottrina religiosa? (L'estasi espansionistica dell'Asia non ha ancora detto l'ultima parola con l'Europa, e magari un giorno il Bolscevismo irromperà in Europa con una missione religiosa.) La fantasia del popolo russo ha rappresentato Gesù in centinaia d'immagini, il cui unico scopo è quello di guarire dai mali. I "vecchi credenti" vennero cacciati dalla sacra Russia a causa di un Gesù Cristo inventato e portarono la loro anima russa addirittura fino in Canada.
Probabilmente è solo atmosfera prebellica: siamo seduti sul treno merci e fumiamo la pipa riempita con il tabacco di peggiore qualità, estraiamo dalle tasche una bottiglia di vodka e magari giochiamo pure a carte, al gioco russo Durak, ma nella nostra fantasia rimane il ronzio del samovar, tra la luce di una lampada a petrolio puzzolente che brucia male, coperta da un variopinto paralume che pullula di figure sacre.
L'intellettuale con le mutande sporche, i pantaloni sfilacciati e le scarpe consumate, con le tasche piene zeppe di volantini a sfondo politico, che conosce Marx alla perfezione e che forse lo considera come il Vangelo, confessa:
"I Russi spasimano per la Francia persino in un periodo in cui i due paesi sono l'uno il nemico dell'altro, mentre sul piano politico a volte patteggiano volentieri con la Germania, atteggiamento questo che non era condiviso neanche da Bakunin, un tempo allievo di Hegel (si potrebbe sorprendentemente affermare che non esiste nessun paese come la Germania dove i valori russi abbiano ricevuto così tanta considerazione; in Francia, al contrario, si arriccia il naso di fronte alla letteratura russa, quasi emanasse un odore puzzolente).
Ma siamo giunti ai grandi personaggi della Russia: l'incoerenza in Europa occidentale potrebbe anche essere un errore fatale, ma in Russia nessuno può essere incolpato di incoerenza. E' un aspetto che appartiene all'essere sopraffatti da oscuri fantasmi. I leader russi (Pietro il Grande, a volte anche Caterina, Bakunin, Savinkov, Aseev e persino, se si vuole, i tipi alla Besedovskij) hanno sempre cercato di stabilire delle basi positiviste per la vita russa, ma si sono regolarmente fatti cogliere di sorpresa dall'oscurità dell'animo fino a tradire con il loro eccesso di "russità" la loro ricerca e lo struggersi per essa.

II
L'uomo Dosotevskij

Parigi, 1910 circa. Autunno inoltrato. La pioggia cade incessante. Abito in un'antica via del tutto particolare. Raccontano della Rue de Savois e in particolare del palazzo in un cui vivo che nel XVIII secolo ospitasse una scuola di magia. Sotto a me abita un musicista cieco che con il suo malandato violino suona tutto il giorno melodie dei bordelli parigini. La mia portiera mi dice che chiede l'elemosina solamente per le vie dove battono le prostitute. Metto da parte il saggio di Suarès su Dostoevskij, spengo la luce e nella mia fantasia incomincio ad allineare parole una dopo l'altra fino a formare una spirale, ma solamente due parole rimangono sempre in superficie: treno merci e magia. Alla fine divento furioso, riaccendo la luce e incomincio a scrivere i seguenti appunti per un saggio su Dostoevskij:
"La magia potrebbe essere sicuramente un'invenzione francese, è una parola elegante, come un bellissimo gesto vuoto in teatro, le cui decorazioni sono dipinte da Watteau e Boucher. No, l'arresto del treno deve essere esclusivamente dovuto al caso, perché là fuori in un villaggio in rovina costruito con l'argilla abita un uomo con la barba lunga e arruffata e con un grande fazzoletto colorato che deve mostrarci un volto, che ha qualcosa da dirci. Salga su, Dostoevskij!" No non vogliamo separare l'uomo dal poeta, non vogliamo neanche parlare di letteratura noiosa, vogliamo invece mostrare i momenti tragici della vita di Dostoevskij, quelli che lo hanno reso il più grande veggente del suo popolo.
Suarès lo definisce "il mondo dell'abissale consapevolezza". Non è possibile chiarire la figura di questo profeta con elegante e impressionante magia metafisica perché lui è la personificazione della Russia con tutte le sue qualità buone e cattive. In questa vita non esiste nessuna metafisica, ma un realismo che riesce persino ad illuminare la metafisica.
Il treno merci si trascina come una lumaca. Ad ogni misera stazione si carica di nuova oscurità. Rifletto: la psicanalisi cerca di decifrare il rapporto d'amore tra madre e figlio per fondare la vita sin dal principio su una disinibita razionalità. Ma in questo modo non va perduta la componente più preziosa della vita? Dostoevskij amò sua madre in maniera smisurata perché sapeva come le madri sanno amare. Lo starec dice che le lacrime delle madri vengono poi mostrate a Dio dagli angeli.
La terribile vita di Dostoevskij fu al tempo stesso il terribile destino della Russia. In ognuno dei volti di questo veggente si avvertono i momenti della sua giovinezza trascorsa in solitudine. L'ospedale in Russia richiama sempre il freddo dell'inverno. Dostoevskij è cresciuto in un ospedale per poveri.
Nel treno merci ritorna improvvisamente il buio.
Nelle stanze in cui Dostoevskji abitò, regnava sempre un silenzio pesante ma non soffocante; non si trattò mai di casa sua, bensì di un qualcosa che appesantisce, poiché si è costretti ad accettare costumi forestieri; e forse con essi anche tutti gli uomini che un tempo abitarono quelle stanze (anche l'anima russa non ha mai trovato un suo radicato punto di connessione, ma è sempre sul punto di perdersi). A Dresda Dostoevskij visse in una delle strade più povere. Sua moglie racconta che dopo aver pagato l'affitto per l'appartamento di Ginevra gli rimanevano solamente 18 franchi. Dalle tristi lettere d'amore che Dostoevskij scriveva da Dresda emergeva il desiderio di non dover più passare ore intere a chiedere l'elemosina. Osserva la moglie di Dostoevskij: "Eravamo abituati a cavarcela con delle piccole somme". La famiglia Dostoevskij era infatti cliente fissa dei banchi di pegni in tutte quelle città dove il veggente russo era costretto ad inchinarsi. E non è da qui che si potrebbe comprendere il ribrezzo di Dostoevskij nei confronti degli strozzini in "Delitto e castigo"?
Dostoevskij non si lasciò schiavizzare dalla miseria e mantenne sempre quella bontà d'animo che si era immaginato anche per la sua Russia, anche se la bontà d'animo diventava per lui regolarmente un martirio (come ne "L'idiota"). Si fece carico volontariamente dei debiti del fratello firmando cambiali. In questo modo cedette in pegno i diritti su tutte le sue opere, e a causa delle angherie da parte della sua famiglia e dei creditori fu costretto ad andare all'estero per quattro anni, in paesi che non amò e non gli diedero nulla, ma che soltanto lo opprimevano.
Nel treno merci, dove stiamo giocando al gioco più stupido del mondo, il Durak, siede un cieco che, come un idiota, canticchia tra sé la canzone del Volga. A volte dimenticandosi alcune parole, altre volte intere strofe.
Si racconta che Dostoevskij piangeva spesso. Aveva un comportamento impacciato e tutti i personaggi da lui concepiti ne hanno ereditato alcuni tratti. Era fantasioso, morboso e diffidente. I suoi occhi erano enigmatici. Incontrandolo per la prima volta, l'impressione che si aveva era quella di un vecchio decrepito, ma appena iniziava a parlare ringiovaniva sempre di più. I suoi vestiti erano logori come quelli dei nichilisti che lui odiava, ma amava pettinarsi con cura.
Lenin disse una volta in un'assemblea a Berna:
"L'Europa occidentale ha fatto del socialismo un movimento esclusivamente letterario. Pensano davvero questi opportunisti che la letteratura ci possa salvare?".
Dostoevskij amava Puškin che con le sue poesie rivelava i pensieri rivoluzionari e al tempo stesso s'inginocchiava dinnanzi agli Zar. Era affascinato da Turgenev pur sapendo di non essere apprezzato da colui che lo considerava troppo sordidamente russo. A volte si infuriava sulla letteratura. E scrive: "Basta che Goncarov faccia un rutto che tutti i giornali ne parlano. Io vengo invece sistematicamente ignorato". Di Tolstoj notava: "A me non vogliono dare nemmeno 250 Rubli, Tolstoj invece ne ha ricevuti 500 senza alcun problema. Anna Karenina è così noiosa che riesco a leggerla solamente quando sono in cura al sanatorio".
Dostoevskij tormentava le sue notti con la tragicità dei suoi personaggi. Lui stesso era insoddisfatto da quella forma di destino. Ma la Russia non avrebbe dovuto esserlo, non avrebbe dovuto dubitare del suo talento e coprirlo di scherno (si racconta che su esortazione dei suoi editori fosse costretto a eliminare interi capitoli dai suoi romanzi).
Improvvisamente quel cieco balordo che canta nel treno merci domanda:
"E l'amore?"
C'è qualcosa di oscuro nella vita di Dostoevskij. Si parlò molto di un crimine commesso contro una minorenne e di un processo sospeso (autori come Turgenev credevano a tutto ciò). Non è forse permesso al poeta russo di essere trascinato verso il peccato? Dostoevskij, che voleva vivere dentro di sé la profondità dell'essere, si è flagellato con una menzogna escogitata per assumere un aspetto russo (in "Demoni" egli racconta la seduzione di una minorenne). L'amore per Dostoevskij significava solamente compassione, e ciononostante dovette sacrificarsi per la sua prima moglie, quando il suo amore aveva invece bisogno di qualcuno che si sacrificasse per lui. Questo qualcuno fu la sua seconda moglie. Lui aveva 49 anni, lei 19. Era una donna amorevole, senza sentimentalismi e pathos. Si è sacrificata perché capì la missione di veggente del marito. Dostoevskij ringraziò quella donna fino alla morte con dichiarazioni d'amore. Nelle sue lettere la chiamava "la mia signora" (gli psicanalisti potrebbero considerarla una sottomissione, ma Dostoevskij in realtà era anche geloso).
Mentre sto scrivendo tutto ciò leggo sul manuale di filosofia di Siegwart del 1826 ciò che egli scrive a proposito dei sogni oscuri. Le tormentate notti di Dostoevskij si trasformavano in terrificanti personaggi da incubo, e così come amò sua madre, allo stesso modo amò i bambini. Il figlio nato dal primo matrimonio diede un gran da fare sia a lui che a sua moglie. Quando nacque Sonja, s'inginocchiò e incominciò a pregare. Per tutta la sua vita odiò la Svizzera perché era il luogo dove era morta la sua bambina. Nei suoi incubi la figlia Lily veniva rapita e poi uccisa. Dostoevskij venne giudicato innocente, ma rimase comunque un fedele servitore dello Zar, che egli non dimenticava neanche durante gli attacchi di epilessia e il gioco d'azzardo. Il giorno più bello della sua vita fu quando venne graziato dai lavori forzati e ottenne l'autorizzazione per entrare nella Casa dei Morti.
La sua vita fu marcata da numerose malattie. Aveva paura di perdere il senso d'orientamento, e l'asma lo tormentava spesso. In Grecia l'epilessia veniva considerata una malattia sacra, ma Ippocrate, l'inventore dell'igiene, si oppose a questa opinione. Dostoevskij amava i suoi attacchi d'epilessia perché lo rendevano veggente (a Staraja Rusa egli soffre per il fatto di non avere nessun attacco d'epilessia: "Se solo venissi colto da un attacco d'epilessia, potrei godere di un piccolo diversivo"). Da Amburgo scrive Dostoevskij a sua moglie: "Perdonami e non chiamarmi farabutto". A Ginevra pioveva in continuazione, il suo sistema nervoso ne soffriva; aveva infatti molti attacchi. Solo sua moglie, colei che si era sacrificata, sapeva che cosa significasse per lui quel dolore; lui stesso invece non se ne rendeva conto. Gli attacchi lo rendevano così debole che per settimane non riusciva a lavorare al suo romanzo preferito, "L'idiota".
A questo punto smettiamo di giocare a Durak. Raskolnikov incomincia a ricordare con nostalgia l'organetto che nei pomeriggi umidi d'autunno ravviva i vicoli grigi (questa stessa atmosfera la potremmo ritrovare anche a Odessa). Perché i critici letterari vogliono sempre celare qualcosa? Dostoeskvij ha cercato di nascondere qualcosa nel creare i suoi personaggi? Le azioni devono sempre avere una finalità di tipo borghese? La povertà fu solamente una concausa superficiale della sua smania per il gioco, e lui non lo lamentava, non fu neppure il tentativo di raccogliere prove, come era successo quando si era sparsa la voce che lui avesse sedotto una minorenne. Dostoevskij fu solamente costretto a farlo. Per dieci anni si era consegnato anima e corpo al diavolo (probabilmente è solo un'illuminazione, anche se poco occidentale: quando Dostoevskij si trovava a Dresda e trascorreva intere giornate al tavolo da gioco, in Russia avevano luogo una serie di azioni rivoluzionarie e nell'aria c'era odore di liberazione, ma in quel periodo Dostoevskij non pensava alla sua razza, bensì tremava al tavolo da gioco solamente per la vita dello Zar). Scriveva spesso a sua moglie che detestava il gioco, ma non appena aveva un po' di denaro, se lo puntava tutto. Ad Amburgo perdette più volte il denaro per il viaggio che sua moglie aveva messo da parte mendicando e umiliandosi. Nonostante ciò lei lo mandò a giocare di nuovo a Saxon-le-Bain per fargli trovare almeno nel gioco un po' di pace.
La prigione insegnò a Dostoevskij a pregare. Quando era in esilio, durante le crisi epilettiche e nei momenti in cui veniva assalito dalla febbre del gioco, lesse molto il vangelo. Spesso avrebbe voluto sfogarsi nel pianto con i monaci. Durante il viaggio verso Ginevra si fermò a Basilea solo per vedere il Cristo di Holbein. Dipende dalla propria mentalità ed educazione ciò che di misterioso si riconosce in questo Cristo, il quale non ha nulla di protestante, alla stessa stregua di quello di Grunewald. Dostoevskij aveva bisogno di quel Cristo per "L'idiota", in cui gli conferisce una corporalità cosí realistica che tende alla putrefazione (idea, questa, che venne ripresa anche da Suarès). La mentalità di Dostoevskij aveva bisogno di un Cristo che, per il fatto di essere stato uomo, poteva e doveva soffrire fino all'eternità (al contrario, io credo che questo Cristo continui a regnare anche nella morte). Una volta Dostoevskij pensò di scrivere un libro su Gesù, ma alla fine ha accolto solo quel Cristo concepito per sé.
Dostoevskij non ha redento il Dio che aveva concepito.

III
L'esperienza di Dostoevskij in Russia

Kiev durante un pogrom. Queste annotazioni tuttavia non hanno niente a che vedere con la questione ebraica. Uno strano paese, questa Russia. Si può solo viverla e capirla quando si soffre. Per questo desiderio di esperienza è necessario ricorrere fino in fondo a tutti gli organi di percezione (e intanto si può anche gustare del caviale).
La Russia è per Dostoevskij come una chiesa. Egli scrive: "Chi si separa dalla propria patria, si separa anche da Dio". Egli parla anche della "sconfinatezza della natura russa". Sta a guardare il suo popolo sempre con le mani giunte in preghiera e lo chiama un popolo vizioso, oscuro, ignorante, che ama l'umiltà. Egli, che si è sempre sfogato con i preti, dice del prete russo della chiesa di Wiesbaden: "Un animale insolente, un intrigante e un miserabile, può vendere Cristo in ogni momento. È una canaglia ed è stupido come uno zotico".
Nel mezzo della bevuta il mugico intona sempre una canzone seria e cupa che ha nella mente da ore fino a quando, sillaba dopo sillaba, se la dimentica. A Dostoevskij interessava proprio dove vanno a perdersi queste sillabe. Per lui in Russia non esistono classi, anche se i bolscevichi si sentono quasi forzati a inventarle (Turgenev un tempo scrisse: "Neanche con sette lavate è possibile ripulirmi del mio carattere russo". Bakunin viaggiò per tutta l'Europa per fomentare ovunque ribellioni, ma organizzò allo stesso tempo un congresso panslavista. Savinkov, prima dalla Grande Guerra, era nauseato a morte della Russia alla maniera europea, ma nel 1914 lo vediamo come combattente al fianco dei Russi. Dopo la guerra organizzò interventi militari contro i bolscevichi, ma un giorno rivelò tutte le sue azioni e i nomi dei suoi commilitoni al regime sovietico per amore della Russia).
Serve a qualcosa la fedeltà alla Russia? Dostoevskij disse una volta alla sua seconda moglie: "In Russia si inizia tutto con fervore, un fervore che si raffredda in fretta".
Una volta qualcuno scrisse: "Il nichilismo è la mancanza di fantasia dei sognatori". Per spiegare meglio si potrebbe aggiungere che il dover essere di ceto medio ha fatto degli intellettuali russi dei nichilisti. Dostoevskij aveva un'avversione verso la società russa perché carica di "troppo nichilismo". Qui emerge la figura del cospiratore Necaev, che al tempo di Bakunin girovagò in Europa, fondando ovunque sette segrete, istruendo i suoi seguaci a fabbricare bombe e fare attentati, senza però avere in mente alcuno scopo positivo: solo un rivoluzionario all'art pour l'art. Questa tendenza ce l'aveva un po' anche Bakunin. Una volta disse della Nona sinfonia di Beethoven: "Solo il caos rende bello il mondo". Durante il periodo ginevrino, Dostoevskij vedeva sul Quai de Montblanc numerosi emigranti, molti dei quali erano solo dilettanti della rivoluzione. Scrisse di loro: "E' triste vedere questi Russi che vagano per l'Europa. Sono superficiali, ottusi e stolti sotto ogni aspetto ".
Tuttavia, Dostoevskij sancì a Sossima la sua fede verso il popolo russo. Egli considera i Russi come "il popolo di Dio che un giorno illuminerà la terra". Egli crede che "il vero pensiero di Cristo si conservi solo all'interno della chiesa greco-ortodossa". I Russi hanno sempre il desiderio di aiutare l'umanità (e lo si percepisce anche nel bolscevismo) e per questo Dostoevskij ha nostalgia di un rinascimento del panslavismo.

IV
Il rifiuto dell'Occidente

Era solo come se l'esplosione delle bombe fosse ancora importante. Solo ora riusciamo a trovare un posto su cui sederci sul nostro treno merci e ci chiediamo se l'Occidente possa dare qualcosa alla Russia. Hanno un'avversione verso il sangue asiatico e considerano con disprezzo l'anelito occidentalista. Dostoevskij si sbagliava su molte cose nei riguardi degli occidentali. Egli si lasciò influenzare dalle esperienze a cui il destino l'aveva condotto, ma cercò anche le possibilità di organica ricostruzione della sua patria, la quale secondo l'esperienza da lui maturata aveva un carattere antieuropeo (questa tendenza si nota spesso nei socialisti russi). In Russia, il problema politico si affianca sempre a quello religioso. Dostoevskij se ne rende conto e ciononostante non separa il socialismo russo da quello dell'Europa occidentale, ma lo definisce come una trovata europea e si accanisce contro di essa. Egli dice della Germania: " La Germania ha sempre solo protestato". Da Dresda scrive: "Il popolo qui sa scrivere e leggere, ma è ugualmente limitato" (con 'limitato' Dostoevskij si riferisce alla libertà religiosa). Egli crede che la libertà religiosa sia la causa della sfortuna europea e teme che la perdita della fede possa espandersi e sommergere non solo tutto il mondo, ma anche la sua amata Russia (strano che quando Dostoevskij parla dell'Europa non pensi mai alla Francia, perché amava Parigi). Egli si preoccupa poco del fatto che i socialisti occidentali si basino sulla storia, che Engels considerava i socialdemocratici come gli eredi della filosofia classica e che, al contrario, i socialisti e i nichilisti russi (e oggi i bolscevichi) erano e sono contro la storia. Egli definisce il socialismo come una questione occidentale e con questa denominazione autoritaria il socialismo è per lui marchiato a fuoco. È sempre la politica religiosa che fa agire in questo modo Dostoevskij. Egli, che conosceva ogni fibra della vita dell'animo russo, che quando gli andava a genio componeva versi su di una particolare "russità", improvvisamente si irrigidisce su categorie predefinite, considera i socialisti russi così come li vedeva in Europa, dove i Russi dovevano comportarsi in modo diverso da quanto facessero in patria. Egli si lasciò anche confondere del fatto che, a quel tempo, i tipi alla Bakunin riscuotevano simpatia ovunque e a volte ricoprivano persino delle cariche importanti nella società (se un personaggio come Richard Wagner si entusiasmava per Bakunin, di conseguenza, dietro questa amicizia c'era anche il fatto che Bakunin era un grande amante e conoscitore della musica. Si racconta che una volta, a Dresda, lasciò il suo nascondiglio e si mostrò pubblicamente perché non voleva perdersi un concerto di Beethoven). Ciò che Dostoevskij diceva contro gli occidentali vale in sostanza solo per il socialismo dell'Europa occidentale, che egli non voleva comprendere. Egli scrive: "Queste persone stanno diventando automi". Oppure: "Le persone vedono sotto il concetto di libertà solo l'appagamento dei loro bisogni". Egli opera un confronto e dice: "Finora la saggezza di tutti gli atei e gli anticristi non è riuscita a trovare un ideale elevato come quello del cristianesimo." Per lui l'ateismo è il nemico della vita. E mette quindi in guardia: "Loro copriranno il mondo di sangue, poiché il sangue richiama altro sangue e la spada viene sconfitta solo dalla spada." Egli, insieme al socialismo, maledice anche il cattolicesimo, perché è dominante in Europa. Cosa vuole veramente Dostoevskij? Il suo Don Chisciotte, il principe Miškin, ha nostalgia del bene.
Un socialdemocratico tedesco ferma il treno merci e osserva: "E' degno di nota il fatto che Lunacarski, per incarico del governo russo, pubblicasse le opere di Dostoevskij, nemico del socialismo per eccellenza, mentre vietava molti dei lavori di Tolstoj". A questo punto si potrebbe citare e controbattere il pensiero di Knut Hamsun in "Mysterien", secondo il quale il Bolscevismo non ha bisogno delle banalità di Tolstoj, ma allo stesso tempo si può anche affermare che Dostoevskij fu un predecessore del Bolscevismo.

V
Appunti sulla sua opera

Io ero presente quando lo psicanalista Otto Groß, venuto a mancare tragicamente, cominciò a convertire lo svizzero Jung alla psicanalisi e lo invitò a leggere "Delitto e castigo". Anche Freud trovò in Dostoevskij i requisiti della psicanalisi. Dostoevskij scrive invece: "Mi considerano uno psicologo. Non è vero, io sono solo un realista nel senso più stretto del termine, ciò significa che scandaglio le profondità dell'animo umano". Dostoevskij non è un naturalista, ma riuscì a creare realtà anti-romantiche mettendo così in discussione segreti che nessun credente oserebbe mai mettere in discussione. In questo modo si accosta alla metafisica analisi della vita dei mistici, anche se lui, per amore della Russia, non raggiungerà mai l'ottimismo universale. Sebbene Dostoevskij non si sia ribellato con tutta la pesantezza della "russità" contro l'individualismo del secolo scorso, tutto il suo metodo letterario è individualista, non nel senso di Stirne e Nietzsche, ma individualista in riferimento ad un'etica che qui non vogliamo investigare nel suo valore (è interessante dal punto di vista psicologico il fatto che alcuni anni fa gli anarchici individualisti di Berlino, nel corso di uno dei loro congressi, elessero Dostoevskij come loro maestro). Nelle sue opere egli si mette a confronto con se stesso, e porta sempre la sua Siberia immaginaria nella letteratura (1908: siedo con un rivoluzionario russo in un'osteria di un sobborgo di Parigi. Beviamo molta vodka. Improvvisamente il Russo batte il pugno sul tavolo e comincia a bestemmiare. Un'ora più tardi, quando si è un po' calmato, mi dice: "Sai cos'è la patria russa? Conosci la nostalgia? Io sono scappato dalla Siberia, ma sai una cosa? La preferisco ancora all'Europa perché nonostante tutto fa parte della mia Patria". Questo rivoluzionario tornò in Siberia e vi morì in miseria). I personaggi di Dostoevskij sono pieni di contraddizioni. Non fanno mai nulla, presagiscono solo come sia possibile farlo; si caricano sempre di tragicità di fronte all'azione, poiché questo a loro basta per poter approdare alla fede. Anche l'assassinio non risveglia in Raskol'nikov un Napoleone, ma basta appena per poter giungere alla filosofia (in tutta l'opera di Dostoevskij non si giunge mai a combattere la battaglia decisiva, ma viene mostrata solo la miseria sofferta dai destini quando la cristianità si trova a doversi scontrare con l'anti-cristianità).

VI
Destini

Spesso si prova pietà per il sole, costretto a strisciare anche su pozzanghere di sangue. Dostoevskij non prova alcuna pietà per il sole; egli afferra i propri personaggi non sulla base della loro fisicità esteriore, ma prendendoli per l'anima, ed illumina quest'anima da lui scoperta proiettandovi in ogni lato la luce del sole. Egli dissipa il volto della Russia trasformandolo in personaggi che poi investe di una missione, a discapito però della loro perdita del senso del tempo e dello spazio nei confronti della vita (Hugo Ball chiama i personaggi dostoevskijani "eretici dottori della chiesa"). Dostoevskij si rifà alle parole di Kirillov: "Il tempo non è un oggetto materiale, bensì un pensiero" (per Dostoevskij tutto è soltanto un pensiero). Tutti i suoi personaggi sono alla ricerca di un peso morale e sono al limite dell'epilessia. Kirillov è sì un personaggio dalla natura esuberante, ma non è mai se stesso, non ha concretezza, è solo pensiero, e viene violentato dal pensare. A volte Ivan Karamazov è in senso dostoevskiano un europeo, un intellettuale, a volte esplode persino il suo legame con la terra, la carnalità, ma è teoreticamente un Russo (senza storia), non riesce a prendere alcuna decisione. In Europa occidentale ne può derivare un opportunismo piccolo borghese che può acquisire importanza con gesti di comodo, ma in Russia il "non saper prendere decisioni" crea una tragedia. Ivan Karamazov si tormenta perché non sa su cosa può sperare. Il fatto che Raskol'nikov non possa più vivere in povertà è del tutto marginale ed esteriore. Anche il fatto che Napoleone gli dia alla testa è esteriore. Raskol'nikov è guidato solamente dalla sua natura. Anche lo scusarsi dell'omicidio avviene soltanto esteriormente; nemmeno un momento di riflessione quando Raskol'nikov fa come se volesse esprimere un giudizio sul valore o sulla sua assenza e filosofeggia contro la sua stessa natura: "Non ho ucciso un uomo, ma un principio". (Siamo insieme a Guillaume Apollinaire e parliamo di Napoleoni alle prime armi. In ogni conversazione, Apollinaire si salva perché in lui scorre anche sangue slavo. Rimbaud era il poeta meno francese di tutti, come quando si perse tra le fiamme nelle quali un qualche Russo vi aveva lasciato del sangue slavo. Anche a Rimbaud Napoleone diede alla testa, presagì che la poesia era prossima a perdere la sua azione creativa e rivelatrice degli avvenimenti nel mondo, e credeva che un futuro Napoleone avrebbe conquistato solo con la distruzione. Si accorse giustamente che i moderni conquistatori dell'oriente erano soltanto dei commercianti ma lui, Rimbaud, rimase sempre un poeta e non riuscì mai a concludere affari reali. Apollinaire ebbe una volta come segretario un piccolo e insignificante poeta, al quale Napoleone diede alla testa. Ma questo lo portò soltanto a rubare alcune statue dal Louvre, fatto che causò alcuni problemi ai suoi amici e lo costrinse a scappare in Oriente dove andò completamente in rovina.)
Siamo di nuovo sul treno merci, e stranamente riusciamo a schiacciare un pisolino. Il trabiccolo è ancora bloccato fra acquitrini e paludi. Tutt'intorno non si sente alcun cinguettio e si continua a desiderare la primavera. L'uomo con la barba color ruggine è ricoperto di cicatrici, addenta costantemente qualcosa, non dice nulla perché tutte queste persone parlano solo con se stesse.
Dostoevskij adorava Don Chisciotte e in "L'Idiota" voleva creare un personaggio assolutamente stupendo. Il principe Miškin ha qualcosa di suggestivo, in Svizzera deve essere stato liberato dalla sua cultura terrena, conosce la complicatezza dei suoi simili, ma come tutte le figure dostoevskiane vive secondo una sua legge. Non ha amore da dare. Il suo ridere è sempre un po' doloroso. E' sonnambulo, senza desideri e crede di avere qualcosa di positivo da raccontare al mondo, ma non ha il senso della misura e ci gira sempre intorno.
Ivan Karamazov afferma: "Per la Russia la cosa più importante è risolvere i problemi." Tutti i personaggi di Dostoevskij sanno che Dio esiste, ma lo odiano. Ivan Karamazov è irritato dal fatto di non conoscere Dio, e quindi parla a lungo con il diavolo.
Non c'è nulla di più irritante di quando si possiede una sola pipa di terracotta e questa si rompe proprio durante il tiro più intenso. Allora ti sovviene che Kirillov odia la sofferenza e che il principe Miškin è prigioniero della materialità. Le donne che lo amano non lo comprendono e lo costringono alla corruzione.
Kirillov come tutti i Russi fa parte di un'associazione segreta. I membri di questa associazione si impegnano a non credere in niente, ma lui crede che "il mondo sia solo menzogna e che non esista alcun Dio." Il grande inquisitore nega l'insegnamento di Gesù, e quando in silenzio Gesù lo bacia sulle labbra, dice: " Va' e non tornare mai più!"
Per Ivan Karamazov "l'amore per il prossimo è una menzogna", ma egli crede in senso assoluto che ci siano dei colpevoli. Il peccato originale spunta ovunque, ma agli angoli delle strade le donne non mendicano solo per un pezzo di pane, ma anche per un po' d'amore.
Per Dostoevskij tutti i destini da lui poetizzati esistono solo per aiutare. Persino Karamazov vuole essere d'aiuto, ma per questo non ha concretezza e poiché è solo pensiero non ha nemmeno il tempo di essere uomo. E dato che si accorge della sua mancanza di umanità, crede che "solo Dio sia colpevole per tutte le disgrazie", e crede allo stesso tempo che "l'uomo fino ad oggi non abbia fatto altro che immaginarsi Dio in diverse forme". Anche il principe Miškin è sconvolto dal mondo, ma per questo non lo rifiuta, vorrebbe solo aiutare, ma non sa come.
Per Kirillov è tutto a posto e "se tutti fossero consapevoli, nessuno sarebbe più cattivo". Raskol'nikov invece pretende che si preghi per lui. Il principe Miškin ama i bambini, è amico di tutti, ma dovunque vorrebbe essere d'aiuto desta soltanto scompiglio.
E' curioso che tutti i pensatori, da Seneca a Hume, fossero sostenitori del suicidio, ma dimenticavano che il suicidio è la forma più comoda di opportunismo, quindi nemica del pensiero. I personaggi di Dostoevskij si scervellano sul suicidio solo perché il loro creatore non li ha voluti privare della tragedia. Kirillov è a favore del suicidio e Ivan Karamazov dice: "Il ritornare all'infinito è così noioso da essere quasi indecente".

VII
La tragedia

Fa incredibilmente freddo. Ci raggomitoliamo nelle pelli di pecora che puzzano di stalla e di tanto in tanto un gatto nero ci cammina sui piedi.
Nell'analisi di ogni avvenimento, Dostoevskij si spingeva fino ai limiti del pensare. I sui romanzi sono delle tragedie, e in essi egli ricercava la tragedia della creazione. E' sempre la stessa identica domanda che si ripete in tante varianti: "Perché gli animali vengono tormentati?" E la risposta è sempre la medesima: "La costrizione è destino".
I personaggi di Dostoevskij disapprendono durante tutta la loro vita il sorridere. Il loro creatore non ama gli esseri che ridono e afferma: "Ciò di cui gli uomini riescono a ridere rimane talvolta incomprensibile".
Seconda la mistica, il peccato originale non iniziò con la trasgressione di Eva, ma dal fatto che il demonio si divise da Dio e diede così inizio alla creazione del mondo. Per Dostoevskij il demonio è la tragedia che durerà fino alla fine del mondo (c'è una leggenda secondo la quale il demonio costruì la più grande cattedrale del mondo contro Dio. Insolito che questo lo si dica soprattutto delle cattedrali gotiche. Però il demonio viene cacciato durante tutta la storia dalle case che egli credeva di costruire per sé). Dostoevskij ha paura dei demoni e considera "il mondo una creazione del demonio". E "l'inferno è il dolore di non potere più amare". Dostoevskij parla dei "maiali posseduti dal demonio". E' pur vero che Ivan Karamazov dice: "Io sono solo un pidocchio e ammetto con la più profonda umiltà di non essere in grado di capire perché tutto è così com'è", ma chiede anche: "Che armonia è questa se esiste anche un inferno?" E poi diventa ancora più rassegnato:" I bambini crescono per imparare l'arte di peccare".
Quando si iniziò, nella seconda metà dello scorso secolo, ad analizzare con l'intuito i risultati della Riforma e della grande Rivoluzione Francese, si pose (almeno tra i profeti come Dostoevskij e in modo diverso tra i simbolisti francesi) la questione: ma come andrà a finire? (Oggi questa domanda è diventata attuale dal punto di vista sociale.) Fin dall'inizio Dostoevskij assume un atteggiamento riluttante e afferma: "La liberazione esteriore è solo un peso". Oppure: "L'incredulità è sventura e destino".
E nuovamente il grande veggente russo torna a parlare dei condottieri e dice con rassegnazione: "La razza umana non riconosce i suoi profeti e li lascia morire, ma ama i suoi martiri". Compatisce i profeti: "A questo mondo sono gli uomini veramente grandi a dover caricare su di sé un grande dolore". Secondo Dostoevskij, "Cristo ha dato la libertà agli uomini, ma questi non riescono a sopportarla". E osserva indignato: "Si vuole imporre Dio agli uomini". Dostoevskij si stupisce che "un pensiero così forte come l'immortalità sia nato in un animale schifoso come l'uomo". In ogni azione eroica egli vi vede anche l'atto criminale. A tutti i suoi personaggi si potrebbe rispondere con le parole di Sonja tratte da "Delitto e castigo": "Il diritto di uccidere?", e un'altra sua domanda potrebbe esserne la risposta: "Un uomo dovrebbe essere un pidocchio?", e lo stesso Dostoevskij potrebbe rispondere a tutti i suoi personaggi: "E' difficile sapere cos'è in verità un peccato. E' un segreto che va al di là dell'intelletto umano".

VIII
La Redenzione

Siamo scesi dal treno merci già da molto tempo. Nella mistica il male è solo un mezzo per la rivelazione. Secondo Dostoevskij, "tutto il pianeta è con le sue leggi un'opera demoniaca". Dostoevskij crede che "Gesù continua a vivere in tutte le epoche con sembianze diverse". La Russia e la sua stessa vita, nonché il destino che ha creato i suoi pensieri gli hanno insegnato che "chi teme il dolore non può conoscere Dio". Questo è il motivo per cui Dostoevskij inscena i crimini come se fossero miracoli. E scrive: "Un crimine può solo essere giudicato da colui che ha compreso il segreto della colpa". Oppure: "Addossa su di te il crimine e soffri a causa sua, solo allora lo potrai giudicare."
Dostoevskij si rifà sempre al peccato originale e non conosce nessun peccato individuale. Scrive: "Sii responsabile di tutti i peccati del mondo".
Anche Dostoevskij auspica l'uguaglianza di tutti gli uomini, ma sa che non la si può raggiungere con una soluzione superficiale dei problemi sociali: "L'uguaglianza degli uomini la si può ottenere solo se tutti riconoscono di essere fratelli interiormente".
In Don Chisciotte, Dostoevskij vi vede la forma più nobile di umanità, una sorta di incarnazione di Gesù e afferma: "Se diveniamo umanità di Gesù, cresceremo nell'umanità universale". La sua diventa ora quasi una predica: "Nessuna delusione ci deve allontanare dall'amore". Egli vuole un'unione universale con la colpa universale e invoca: "Tutto è in te, o Dio". E nella preghiera, il grande veggente diventa buono e sostiene di non avere mai incontrato un uomo senza Dio. Dice: "Innalzo il popolo a Dio". Il suo insegnamento è cristiano. Vuole che "il popolo già in questa vita cresca nel regno di Dio". Diventa irrispettoso nei confronti del tempo.
Dostoevskij non ha mai rappresentato con la sua opera come gli uomini possano essere felici nella società, bensì ha voluto soltanto destare un sentimento di religiosa responsabilità. La fede è per lui il problema principale del mondo: "L'uomo non potrà mai compiere un peccato così grande che Dio non glielo possa perdonare". Ma per Dostoevskij ognuno "deve trovare da solo la penitenza". Nella sua opinione, "la fede è un dono di pietà", e "la preghiera è educazione", perché "solo Dio può liberare gli uomini". Dostoevskij vuole fare degli uomini emulatori di Dio.
In fondo questo veggente non era né un eroe né un vincitore.
Come il suo ideale Don Chisciotte, egli non fu una guida, ma si spinse solo fino alla profezia. Nell'Apocalisse l'angelo giura che il tempo verrà annullato. Ma Dostoevskij vedeva quest'epoca senza tempo ancora molto lontana e la sue ultime parole nel diario recitano: "Si avvicina la fine del mondo, l'Anticristo avanza".


(Traduzione a cura di Roberto Cipollitti, Claudio Fantinuoli e Elisa Viola, studenti del corso di Traduzione Specializzata dal Tedesco presso la "Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori" di Forlì - Università di Bologna - con la supervisione del Prof. B. Persico).







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