LA
PATRIA DIVISA
La
contraddittoria storia nazionale della Bolivia
Hugo
Velarde
Il
servo è la malattia del padrone, non la sua libertà;
è la sua sbornia
René Zavaleta: Il nazional-popolare in Bolivia
Nel
"Club de La Paz"
"I liberali della destra ci esortano ad accordarci con loro
solo perché viviamo nella stessa casa, che oggi mostra
delle crepe che loro stessi hanno provocato. Tralasciano però
di menzionare che in casa finora esistevano piani superiori e
inferiori ben distinti, disparità nelle condizioni abitative
che occorre appianare, se si vuole davvero salvare la patria e
ricostruirla con giustizia".
Il
sindacalista ex-trockista Filemón Escobar oggi a capo del
MAS (Movimento per il Socialismo) discute l'attuale situazione
politica nello stracolmo "Club de La Paz". Il celebre
caffé si trova nelle vicinanze del Palazzo del Governo,
già dato alla fiamme in passato dopo un colpo di stato.
Il "Club" è sempre stato un ritrovo tradizionale
e privilegiato per controversie e dibattiti politici. Qui sedette
il leggendario sindacalista Juan Lechín e il socialista
Marcelo Quiroga assassinato nel 1981, ma anche la destra militare
che ruotava intorno al defunto dittatore Hugo Banzer. E perfino
il macellaio di Lione Klaus Barbie, divenuto in seguito cittadino
boliviano, si lasciava andare volentieri a commenti politici tra
il caffé e una fetta di torta. Nel "Club de la Paz"
sono nati intrighi e cospirazioni, sono stati nominati e abbattuti
i ministri, si sono spinti gli avversari politici al suicidio,
si è deciso il destino di migliaia di persone. Qui i veterani
tedesco-Boliviani della guerra del Chaco discutevano nel novembe
1942 sulle sorti della seconda guerra mondiale. Qui si auspicava
gloria eterna al Reich tedesco. Qui si rideva della sifilide di
Lenin, si ammirava la potenza di Mussolini, si deprecava l'origine
ebraica di Franco, si scherniva la presunta omosessualità
di Hitler, si affogava nell'acquavite la vittoria di Mao, si compiangeva
l'assassinio di Trockij o la morte di Stalin. Qui gli esiliati
croati piansero durante la visita boliviana di Tito. Qui Ernesto
Ché Guevara discusse i problemi della rivoluzione latinoamericana,
qui sono stati concepiti piani politici e pamphlet grevi di conseguenze,
qui a turno si pianificò il comunismo boliviano o l'eterna
democrazia militare. E qui chiacchieravano in tedesco le vittime
dell'olocausto con i loro boia. "Ebrei" e "ariani"
giocavano a scacchi, domino o backgammon davanti a un Kirsch della
Foresta Nera, fino a quando un numero tatuato sul braccio non
riportava in superficie insanabili rancori. Qui vennero sigillati
affari milionari, pianificati omicidi, analizzate lotte secolari.
Jorge Luis Borges, cliente assiduo del locale quando passava per
La Paz, lo definiva un luogo di tensioni metafisiche in cui si
potevano leggere i segni dell'oscura esistenza degli emigrati
europei e il velo delle cospirazioni boliviane. Qui aleggia lo
spirito di Casimiro Olenetas, legislatore costituente della repubblica
che congiurò contro il compagno di liberazione venezuelano
José Antonio de Sucre. Un creolo boliviano "che si
è guadagnato il rango di maestro universale dell'intrigo
politico". Qui sedette il Joseph Fouché boliviano.
"Perfino la polizia francese avrebbe potuto imparare qui
come si organizza un colpo di stato o come lo si sventa",
si sente dire.
Il "Club de la Paz" è nuovamente affollato. Il
freddo gelido invernale costringe gli avventori a sedere con sciarpa
e cappotto, un freddo che, come si dice, può spaccare le
pietre, "dure, spigolose, brune pietre come una faccia d'indio".
Alla destra, come nell'uso parlamentare, siedono liberali e conservatori,
al centro un po' titubanti, guardandosi intorno a destra e sinistra,
siedono i volubili ex socialdemocratici. Alla sinistra si riconoscono
facce di indios mescolate a dirigenti bianchi ex maoisti, comunisti,
trockisti e anarco-sindacalisti. Alla destra il profumato caffé
dell'altopiano, i vestiti eleganti; al centro le tazze raffinate
contengono un infuso di foglie di coca, anice e menta, qua e là
una cravatta finemente annodata o un pullover di vigogna; a sinistra
le tazzine con l'espresso e un bicchiere d'acqua di rubinetto,
accanto a foglie di coca da masticarsi insieme a una pasta bruna
estratta dal frumento per favorire la spremitura del succo, mentre
ponchos d'alpaca e variopinti copricapi rappresentano una deviazione
dai costumi borghesi in fatto di abbigliamento. Un po' ovunque,
un bicchierino di Singani, l'acquavite nazionale distillata dall'uva.
Alcuni liberali del MNR (Movimento Nazionalista Revoluzionario)
e conservatori dell'ADN (Alleanza Democratica Nazionale) scuotono
la testa. Per quanto ancora bisognerà subire le provocazioni
della sinistra?
"Prima di tutto la patria!", risuona una voce da destra.
Filemón Escóbar, candidato sicuro per un posto da
senatore, lancia una sguardo sprezzante verso i liberali di destra.
Un rauco ma ben distinguibile "Razza di opportunisti bugiardi
e pro-americani!" chiude l'indiretto scambio di battute.
Senza considerare le dichiarazioni di sfida, il centro della sala,
occupato dagli attivisti del MIR (Movimento della Sinistra Sivoluzionaria)
e del NFR (Nuova Forza Repubblicana) è tutto un mormorio
sulle ipotesi di futura coalizione. I possibili posti in caso
di partecipazione al governo sono ridotti, per cui si affronta
la situazione in maniera pragmatica.
Le
elezioni e il nuovo parlamento
Siamo ad inizio Luglio. Vengono resi noti gli esiti delle elezioni
parlamentari e presidenziali del 30 Giugno. Il risultato è
senza precedenti nella storia del paese; le differenze estremamente
ridotte tra le forze concorrenti lasciano presagire instabilità
politica. Tra il primo partito, il MNR con il 22,5% dei voti,
e il MAS corre neanche un 2% di voti, mentre il NFR è quasi
alla pari con il partito della sinistra. Il MIR, malgrado con
il suo 16% non sia andato oltre il quarto posto, andrà
al governo insieme al MNR di Gonzalo Sánchez de Lozada.
Per contro l'ADN del generale Hugo Banzer, con meno del 4% dei
voti, diventa politicamente insignificante, sostituito nel favore
degli elettori dal NFR di Manfred Reyes, un ex-tenente dell'esercito
dai modi vagamente dandy.
Il MNR si è appellato a una riconciliazione nazionale al
di là dei calcoli partitici. La crisi economica è
preoccupante, la pressione americana a causa delle piantagioni
di coca sempre piú forte, il FMI pone condizioni gravose
per la concessione di nuovi crediti, mentre le discrepanze politiche
trasversali al paese andino sembrano sempre piú insanabili.
L'élite dominante teme rivolgimenti che spazzerebbero il
paese come una "lavina nera", contribuendo alla disgregazione
o addirittura alla definitiva rovina. La destra si appella alla
coscienza nazionale per non "destabilizzare la patria",
mentre gli indios esigono riforme sociali, piú partecipazione
e giustizia. Dalla parte opposta, i ceti medi bianchi o meticci
sono sempre meno uniti e perdono cosí influenza e rappresentanza
nel già lacerato tessuto sociale.
Il 3 Agosto infine si è costituito il nuovo parlamento.
Dai ranghi di legno della sala gli attivisti incitano il proprio
partito e attaccano sonoramente la parte avversa. Sebbene la vittoria
di Sánchez de Lozada possa considerarsi certa, la prima
seduta del parlamento dura quasi ventiquattro ore. La retorica
barocca va per le lunghe, prima che il "gringo" Goni
Sánchez de Lozada venga eletto presidente. Fuori attendono
i sostenitori, alcuni volontariamente, altri perché come
già in campagna elettorale hanno ricevuto in cambio 100
bolivianos (circa 14 dollari).
Si costituisce anche l'opposizione di sinistra, e i populisti
di destra intorno al NFR. Stavolta il legislatore boliviano parla
diverse lingue: spagnolo, quechua, aimara, tupi guaraní.
Per la comprensione generale sono stati ingaggiati degli interpreti,
i quali tuttavia nel sonoro bailamme non riescono a rendere i
loro servigi. A seconda della situazione sociale o della posizione
politica, in parlamento si può perfino sentir cantare.
In Bolivia risuonano la crisi, la speranza e la lotta: il risultato
è francamente imprevedibile.
Il 6 Agosto, il giorno del passaggio dei poteri, perfino il capo
del partito alleato di Goni, Jaime Paz del MIR, diserta la cerimonia.
Si ritiene offeso da una sprezzante dichiarazione del suo intimo
nemico. Ben presto tuttavia i contrasti si appianano. Vengono
assegnate le cariche di ministro, ambasciatore, prefetto e gli
ambiti posti alle dogane, grazie ai quali si può arricchire
in un batter d'occhio.
La
tragedia storica
Se tra il XVII e il XIX secolo era ancora un importante centro
economico e politico dell'oligarchia feudale sudamericana, la
Bolivia nella storia latinoamericana del XX secolo ha perso sempre
piú di importanza. L'oligarchia feudale boliviana, già
"altoperuana" e alloggiata nell'"Audiencia Charcas",
tra Sucre e Potosi, La Paz e Cochabamba, prende le sue misure
contro l'incombere dei valori mercantili. La rivoluzione di tipo
borghese viene rimandata al XX secolo - con conseguenze devastanti.
Alla maniera della Spagna del XVII e XVIII secolo, l'"Alto
Perú" (detto anche "Vecchia Toledo") diventa
una "nazione ritardata". Cosí come in Europa
l'egemonia spagnola passa nelle mani dell'Inghilterra in via di
imborghesimento, cosí anche la primaria importanza dell'Alto
Perú si trasferisce nella periferia borghese - ad esempio,
in quella cilena.
Al Codice napoleonico partecipano, dalla costituzione della repubblica
nel 1825, solo le classi dominanti. L'oligarchia feudale si rende
farsesca: in un paese grande come la Francia e la Germania insieme,
spadroneggia pomposamente da centri minuscoli, sfruttando in maniera
estensiva i latifondi, comprese le bestie e gli indios senza diritti,
e vivendo unicamente del "plusvalore". Gli indios ottengono
i diritti civili solo nel 1952 con la rivoluzione d'Aprile, quando
già da molto hanno perso i loro habitat e tradizioni, nonché
le loro terre di coltura. Se ciò non bastasse gli agricoltori
indigeni, ovvero la maggioranza esclusa del paese, devono ancora
pagare un balzello feudale nelle casse dello stato oligarchico.
La nazione persevera nella chiusura feudale, in un anacronistico
immobilismo. Non che manchino gli indizi di una produzione capitalistica;
nondimeno il capitalismo resta mentalmente e culturalmente, per
parlare con Max Weber, un'apparizione periferica. È incomprensibile
come Potosi, la montagna d'argento piú grande del mondo,
già co-finanziatrice dell'accumulazione europea, resti
ancorata a modelli produttivi fondati sulla servitú della
gleba. La riproduzione economica capitalista non ha luogo. Presente
solo in potenza, il capitalismo come tragica, neppure latente,
utopia; "in un paese in cui i mendicanti siedono su sedie
d'oro", sfottono gli inglesi.
Mentre la popolazione india rurale - ai sensi di Adam Smith, Ricardo
e Marx - ha tutti i requisiti per una conversione in manodopera
operaia industriale, l'oligarchia boicotta la modernizzazione.
La comodità viene prima dell'intraprendenza. Le importazioni
di beni di lusso dall'Europa e dal Nordamerica raggiunge dimensioni
inaudite. E il paese impoverisce a vista d'occhio. Alla riproduzione
del circolo economico Denaro-Merci-Denaro' viene dedicata una
percentuale minima del plusvalore. L'élite nel frattempo
perde il treno degli investimenti urgenti e necessari. In breve
le infrastrutture risalenti all'epoca dell'estrazione dell'argento
diventano superate. Il paese non costruisce autostrade e l'integrazione
delle frastagliate regioni resta una parola priva di significato.
Il mercato interno ristagna, mentre la concorrenza estera nel
mercato globale è cosí forte che perfino l'oligarchia
feudale perde colpi, economicamente, socialmente e politicamente.
Il proprio paese diventa terra incognita. Lo sbalordimento
di fronte alla moltiplicazione delle merci disponibili testimonia
del suo fallimento storico. L'oligarchia boliviana presenta al
mondo un quadro di arretratezza da una parte, insulsa e pomposa
vanità dall'altra.
I
caudillos e il deperimento della visione nazionale
Nel XIX secolo i governi Boliviani vengono guidati da liberali
falliti o conservatori agrari, che si alternano al potere per
mezzo di colpi di stato sanguinari. Ad eccezione di Manuel Isidoro
Belzú, Tomas Frías e forse Manuel Pando, al timone
si susseguono regolarmente caudillos reazionari e semianalfabeti.
Centinaia di storie tra l'amara tragedia e il ridicolo restano
in attesa del loro ingresso nel mondo del romanzo.
Il generale Mariano Melgarejo, attaccato al potere tra il 1864
e il 1871, conclude un baratto: "Due pollici di tropici boliviani
in una carta da 1:100.000 per un paio di purosangue arabi!"
Ottimo affare! Il parlamento ha fatto fagotto da un pezzo. Il
dittatore imprevedibile e lunatico decide da solo. E la parte
profittatrice nello scambio, la delegazione brasiliana, si congeda
e torna a casa con tremila chilometri quadrati in tasca.
Non appena il generale, francofilo e ammiratore di Napoleone,
decide di spedire le sue truppe nella guerra contro Inghilterra
e Prussia, compare l'ambasciatore inglese nel palazzo presidenziale
a denunciare l'esistenza dell'oceano. Un atto di illuminismo in
buona fede! In aggiunta, un paio di bottiglie di whisky dalla
valigia della diplomatica Sua Eccellenza londinese cambiano l'umore
del caudillo. Una notte di ebbrezza da scotch e i postumi mattutini
lo convincono dopotutto a rinunciare alla spedizione. L'esercito
può disdire lo stato d'allerta. I parigini dovranno rinunciare
all'aiuto dell'esercito boliviano.
Nel 1879 lo stato andino perde la guerra piú dolorosa della
sua storia. Il Cile occupa la costa pacifica boliviana, mentre
le feudali signorie festeggiano il carnevale. L'accesso al mare
è perduto, la chiusura del paese perfetta, i mercati internazionali
diventano ancora piú irragiungibili, la divisione interna
siglata, e gli insanabili contrasti di classe impietriscono. La
Bolivia come nazione borghese è divenuta ormai un'idea
impossibile. Il conflitto etnico ribollente viene disinnescato
tramite proiezioni nevrotiche. In luogo delle relazioni sociali,
dominano relazioni comunitarie di tipo feudale, signorile e servile.
Qui si sogna come padrone o come servo. A seconda della sua origine,
il signore si vede come orgoglioso spagnolo, ingegnoso francese
o scrupoloso tedesco, mentre l'indio declassato ad oggetto di
proprietà e ancora apolitico, e perfino il meticcio, non
sogna altro al mondo che gli si sbiadisca la carnagione.
La dialettica hegeliana servo-padrone, che prescrive la sostituzione
storica del feudalesimo per mano di una borghesia universale,
in Bolivia non ha proprio intenzione di riuscire. La definizione
storica nazionale diventa aporia al di là delle differenze
di classe, la mediazione diventa proiezione patologica, e l'identità
storica potenziale resta allo stato di divisione mistificatrice.
Seguono altre perdite territoriali, che infliggono al cuore dei
Boliviani ferite storiche e crisi d'identità. Mentre gli
oppressi invidiano il colore della pelle dei loro oppressori,
questi ultimi diventano xenofobi e socialdarwinisti. Non solo
succubi verso l'alto, ma anche verso l'esterno, non solo dispotici
verso il basso, ma anche verso l'interno: cosí dilagano
in Bolivia traumi sociali di tipo prussiano. Ma a differenza della
Prussia, qui tra le classi dominanti non sembra esserci nessuno
che davvero conosca il proprio territorio. Nessuno sembra aver
davvero abbracciato la vastità tra le Ande e il bacino
amazzonico, le enormi ricchezze dell'est e le potenzialità
del loro sfruttamento economico. Come se fossero incastrati e
incantati dalle alte montagne, i Boliviani non riescono a vedere
oltre il ristretto orizzonte quotidiano di villaggio o piccola
cittadina. La Bolivia resta perciò una repubblicana illusione.
Durante il governo di José Manuel Pando la Bolivia perde
nel 1904 in una guerra col Brasile la regione già scarsamente
umanizzata dell'Acre. La borghesia imperiale brasiliana domina
ben presto economicamente tutto il nord-est boliviano.
E infine la guerra del Chaco (1932-1935), che la Bolivia perde
col Paraguay (e da dietro le quinte, con la British Oil Company).
60.000 persone cadono vittima di una guerra senza senso, per un
territorio in cui infine non si trova traccia di petrolio!
Il XX secolo ha già dietro le spalle la sua prima guerra
imperialista, quando la Bolivia ancora si dimena nei suoi timidi
tentativi di dare al paese una forma borghese, tra le masse che
si risvegliano e un oligarchia demoralizzata che ha ormai perso
ogni appiglio.
Lustro
e riverbero delle rivolte
Nel XX secolo boliviano non c'è stato niente di storicamente
piú brillante della Rivoluzione d'Aprile del 1952. Seguendo
la logica classica della crisi, gli oppressi non "vollero"
piú, mentre gli oppressori piú non "potevano".
Guidata da un'élite costituita da un ceto medio politicizzato
e di sinistra, che si prepone come obbiettivo un'effettiva integrazione
del paese dal punto di vista politico, economico e sociale, la
"questione" india si trasforma in soggetto politico.
I contadini asserviti di un tempo, gli attuali minatori indigeni,
marciano armati sulla capitale. La classe bianca privilegiata
non reagisce per il terrore della dinamite delle miniere.
In breve viene abolito l'esercito, dichiarato il suffragio universale,
instaurato l'obbligo scolastico, espropriato il latifondo. L'America
Latina è sbalordita: non si è mai visto un simile
cambiamento. Ma il governo americano è in allarme e passa
all'azione. Controrivoluzionari si infiltrano nel paese. Le banche
sbarrano le porte, i crediti esteri vengono bloccati. Il ricatto
economico è l'arma piú potente dell'impero, mentre
l'oligarchia accetta il bavaglio senza opposizioni. I Boliviani
avvertono ancora una volta sulla loro pelle la "sovranità
limitata" dell'America Latina. Si costituisce una "Alleanza
per il progresso" e si reorganizza l'esercito. Molte delle
riforme avviate vengono ritirate. Il Neocolonialismo soffoca il
nuovo inizio boliviano e impedisce uno sviluppo nazionale indipendente.
Gli anni Sessanta sono caratterizzati dalla controrivoluzione,
che si consolida nei Settanta. Ma la conquistata coscienza politica
degli oppressi non può passare inosservata. Il proletariato
minerario diventa l'autentica avanguardia di questa nazione ritardata
e malriuscita. Su di esso Ché Guevara punta parte delle
sue speranze nei preparativi della guerriglia nell'"anello
piú debole" dell'oligarchia latinoamericana. Ma si
sbaglia completamente nel giudizio sui contadini, i quali, continuando
a sognare che gli si schiarisca la pelle, restano politicamente
inerti. La strategia di Ché Guevara, fondata sull'"alleanza
naturale" tra il proletariato minerario e i contadini in
miseria, fallisce nel 1967 nel piú tragico dei modi: l'errore
di valutazione gli costa la vita. Il sacrificio tuttavia è
foriero post-mortem di nuovo combustibile politico.
La morte del Ché scuote profondamente l'oligarchia "che
si vuole borghese", ma che in verità è completamente
soggiogata al padrone nordamericano. La fallita guerrilla riesce
tuttavia a dare un impulso alla sinistra. Le riforme appaiono
ormai inevitabili. Paradossalmente esse vengono avviate da una
parte dell'esercito traumatizzato, ovvero da coloro che vengono
ritenuti i responabili dell'assassinio del Ché.
Tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta i regimi militari
di una sinistra nazionalista, guidati da Alfredo Ovandos e Juan
José Torres, avviano la "salvezza rivoluzionaria della
nazione", ma vengono presto rovesciati da Hugo Banzer attraverso
un colpo di stato che gli assicura il potere sul paese dal 1971
al 1978.
Tra il 1978 e il 1985 la destra liberale e conservatrice si alterna
al potere con la sinistra socialdemocratica. Da quel momento in
poi in Bolivia si governa in modo "neoliberale", non
diversamente dal resto del Sudamerica. Responsabilità di
governo non significa altro che adeguare il tasso d'inflazione
alle direttive del Fmi.
Nel 1985 il Presidente Victor Paz Estenssoro dichiara lo stato
di emergenza nazionale: "la Bolivia muore", è
il catastrofale annuncio. La tradizionale lavorazione dello stagno
è agli sgoccioli; viene sostituita, sotto lo sguardo riprovevole
degli americani, dalla coltivazione della coca.
Le miniere chiudono i battenti. Il proletariato minerario ritorna
nelle campagne, costretto ad un'agricoltura di sussistenza nelle
piantagioni subtropicali di coca situate nell'est del paese. Il
soggetto politico della rivoluzione del '52 si insedia proprio
nella regione in cui un tempo spadroneggiavano le pastoie feudali.
Capitalizzazione
ed ebbrezza
Gonzalo Sánchez de Lozada viene eletto per la prima volta
Presidente nel 1993. L'ex imprenditore minerario, ormai multimilionario,
si prefigge di continuare la rivoluzione dell'Aprile 1952. Ma
invece di applicare i precetti dei "Chicago Boys" sulla
privatizzazione dello stato, che trovano nuovi impulsi dopo il
crollo del socialismo est-europeo, Lozada decide di "capitalizzare"
lo stato.
Avvia la vendita del 51% delle aziende statali alle imprese straniere.
Il ricavato viene investito nel paese e ripartito in progetti
sociali. Contemporaneamente inaugura un nuovo corso antiinflattivo
su pressione del Fmi. Nondimeno le riforme prendono piede. In
particolare la legge sulla "partecipazione popolare"
ricorda i tempi della rivoluzione. La lotta alla corruzione ottiene
i primi risultati contro una piaga talmente incancrenita da demoralizzare
nel profondo i cittadini.
Tuttavia i tempi per il consolidamento sono troppo stretti. Nel
1997 il generale Banzer, "convertitosi" alla democrazia,
vince le elezioni, diventa capo di stato con l'appoggio del MIR,
e annulla la maggior parte delle riforme, noncurante del prezzo
sociale da pagare.
In aggiunta, la destra coordina insieme agli Usa la distruzione
delle piantagioni di coca. Il motto "Niente coca nel Chapare"
provoca violenti scontri. La regione subtropicale del Chapare
in Cochabamba non rappresenta solo "narcotraffico e miseria",
ma è anche un simbolo di emancipazione sociale. Il paese
è nuovamente attraversato da profonde tensioni. Le contraddizioni
sembrano troppo forti per lo stato. Sorgono nuovi movimenti sociali
che agiscono dall'esterno del debole e corrotto apparato burocratico.
Il dominio dell'oligarchia è nuovamente scosso alla radice.
La sinistra marxista è irrimediabilmente disgregata, non
da ultimo a causa del crollo del comunismo est-europeo, e punta
tutto sui braccianti dei campi di coca. Le questioni politiche
però sono ben altre.
Tra
nuova speranza e vecchia disperazione
Nel "Club de la Paz" Filemón Escóbar legge
dall'ultimo numero del bisettimanale di sinistra "El juguete
rabioso" (Il giocattolo furioso) e discute col giovane intellettuale
Álvaro García il tema del momento: "Due Bolivie,
due poteri".
La specifica tesi della doppia dominanza latente che condizionerebbe
la realtà boliviana, formulata negli anni Ottanta dal defunto
sociologo marxista René Zalaveta, sembra davvero realizzarsi.
La sinistra propugna il superamento dei "secolari contrasti"
che finora hanno caratterizzato la storia del paese. Dalle discrepanze
dovrebbe nascere una nuova sintesi per mezzo della formazione
di una coscienza politica strutturale, si legge nella rivista.
La sinistra boliviana si esercita ancora nella dialettica Hegel-Marx.
Il MAS scommette poi sulla possibilità che l'imperialismo
americano faccia prima o poi i conti con un mondo in cui i miserabili
e gli illegali si risveglino. Un marxismo concreto e "non
ortodosso" è alla base del movimento della sinistra.
"La massiccia presenza del MAS in parlamento può condurre
a una doppia dominanza", si può ancora leggere nella
rivista. Chiunque vada la governo, l'opposizione del MAS avrà
voce in capitolo nella determinazione dell'ordine del giorno legislativo
e politico, senza lasciarsi trasformare in un partito politico
tradizionale, ma cercando di offrire rappresentanza ai movimenti
sociali che agiscono nel paese. Prioritaria è l'articolazione
politica della crescente volontà sociale.
Ma proprio in tal contesto i concorrenti del MAS appaiono in crescita.
Nel conflitto con l'oligarchia si sono introdotte organizzazioni
minori, che intendono sottrarre il monopolio della questione indigena
ai "degenerati del MAS marxista e occidentale". Tra
gli altri è degno di menzione il MIP (Movimento Indigeno
Pachakutis), che alle ultime elezioni ha raggiunto il 6% ed è
particolarmente forte sull'altopiano. Guidato dal "Mallku"
(in lingua Aimara "guida" o "guerriero") Felipe
Quispe, una figura già oggi leggendaria, il MIP si richiama
alle divinità indigene e alle tradizioni religiose etniche.
"Pachatutis" era, insieme al dio del sole "Manco
Kapac", un'importante divinità indigena capace di
"trasformare le pietre in valorosi guerrieri"; la sua
riesumazione è un emblema della pulizia etnica dell'élite
bianca boliviana. Il sogno di una pelle e di un futuro bianchi
viene definitivamente riposto. Solo un ritorno alle tradizioni
degli antenati può porre fine ad un'oppressione secolare.
I fondamentalisti etnici perseguono il "comunismo indiano",
ovvero forme di produzione precapitaliste, addirittura prefeudali
e comunitarie: il cosiddetto "Ayllus". Quelle che Marx
definiva "forme di produzione asiatiche" in Bolivia
diventano principio emancipativo. A tal fine la "sacra foglia
della coca" rappresenta un simbolo di forza del "rinascente
impero Inca" contro "la decadente assurdità dell'occidente"
- e in questa formula è contemplato anche l'antiamericanismo
del MIP.
La critica della situazione vigente muta in un'ideologia delatoria:
lo stesso proletariato minerario, guidato dal presunto agente
della CIA Juan Lechín, si sarebbe servito secondo il MIP
dell'oppressione razzista "dei nostri fratelli e delle nostre
sorelle".
I lavori parlamentari non vengono tuttavia influenzati in modo
particolare dal fondamentalismo etnico, il quale, pur rappresentando
un settarismo pericoloso, manca di capacità di integrazione
politica. Oltretutto la questione indigena è già
all'ordine del giorno nell'agenda sia delle forze al governo che
dell'opposizione del MAS. Essa rappresenta per tutti i partiti
una questione urgente, cardinale e non piú rimandabile
per il futuro del paese.
La sinistra del MAS si riserva comunque il diritto di continuare
a "porre questioni greche", che il neoliberalismo in
qualità di "conformismo volgarmente mascherato"
non è in grado di formulare, poiché alla sua avanguardia,
il capitalismo americano, manca la necessaria cultura.
"La cultura è l'obiettivo - la politica lo strumento",
si cita Lukács. L'ironico "Giocattolo furioso"
si appropria della filosofia della cultura della sinistra europea.
La conquista e il reclutamento degli indios oppressi da secoli
sono diventati la principale spinta politica della Bolivia. Nondimeno
la prova alla fine potrebbe rivelarsi nefasta, se venisse affrontata
con un'oligarchica soggezione verso l'impero o in alleanza con
ideologie etniche, divinatorie e reazionarie. La patria divisa
dei Boliviani continua a tentennare in bilico tra la speranza
e la disperazione.
(Traduzione di Antonello Piana)
Hugo Velarde è nato a La Paz, in Bolivia, nel 1958. Nel
1978 è costretto all'esilio nella DDR. Conseguito il dottorato
in filosofia, lavora oggi a Berlino come scrittore e giornalista
indipendente. È uno dei redattori della rivista GEGNER.
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