SETTE GIORNI SULLA SUA PIETRA
Caterina Bigazzi
Lunedì
Arrivo
a piccoli passi. Quasi in punta di piedi. Non da padrona, no.
La verità è che ho paura di avvicinarmi. Anche se
so bene che non c'è niente che possa cambiare, niente in
cui io possa cambiare. Non è questa la giornata adatta
ai cambiamenti. L'aria è trasparente, troppo sottile. Taglia.
E non mi aiuta. I raggi di luce mi attraversano senza ferirmi.
Mi evitano. Non ho caldo. Tremo, anzi, ma sapendo il perché
non me ne curo. E non è giusto mi dico, ormai giunta di
fronte all'alto e massiccio cancello, irreversibile. Non è
giusto, non tanto morire a trent'anni, no: ma tutto questo. Le
colline nitide sorridono. Nel silenzio mi giungono perfino i canti
degli uccelli, intrecciati come coroncine appese all'aria, per
gioco. E non è giusto. Non è giusto che sia tornata
la primavera, indifferente, quando ti trovi davanti a questo cancello.
Entro. Il custode mi guarda e mi lancia un incerto abbozzo di
sorriso, indicandomi l'acqua per i fiori che stringo distrattamente
tra le mani. Penserà che sono la vedova più giovane,
qua dentro. E non sono neppure vestita di scuro. O forse darà
per scontato che io sia venuta a far visita ai miei nonni, o ai
miei genitori, chissà. Certo non ricorda di avermi già
vista qui, la settimana scorsa, dietro gli occhiali di fumo, il
mio metro e mezzo di altezza soffocato dai petali e da tutta quella
gente che piangeva per l'avvocatino. Compresi i suoi clienti,
compresi i suoi avversari. Io no, non riuscivo a piangere e quasi
non mi sembra possibile di esserci stata anch'io, lì, a
tirare un sospiro di sollievo quando la terra si è richiusa
e ha inghiottito il suo fiore più gentile. Basta, mi sono
detta, come se da quel momento non fossi più costretta
a soffrire dalla circostanza. Da quel momento iniziavo a soffrire
io. Io per me. La cosa peggiore è soffrire per se stessi.
Eppure, te la fanno sembrare un lusso. Riservato a chi non ha
altro, non ha niente di meglio oppure, come me, non ha più
niente.
Ora, qui, ci sono soltanto io, e forse piano piano, dagli schiaffi
della brezza che s'è levata per dispetto, usciranno anche
le lacrime. Piano, devo fare piano, mi dico, come archeologo che
scende in segreto verso un tesoro sotterraneo. Come quando, bambina,
giocavo con mio fratello e scendevamo le scale della cantina trattenendo
il fiato. Lo avevo, io, un tesoro. Ora è lì, sotterraneo
davvero, e sono convinta che possa sentirmi. Che respiri ancora.
Ed è peggio, molto peggio. Che buffo, proprio io che non
ho mai creduto all'aldilà, alla vita eterna. Alla resurrezione.
Ed è proprio per questo che credo che lui possa udire,
e vedere, e forse vivere, se si può chiamare vivere questo.
Vivere lì sotto, però. Non altrove. Lì messo,
lì resta: l'ombra liberata non si stacca. Non vola. E sì
che sarebbe leggera
Mi cadono i fiori. A lui non piacevano i fiori. Non ne voleva
mai, neppure nel suo studio. E io non li raccolgo da terra. Non
è giusto, mi ripeto rabbiosa, è un sacrilegio anche
solo che esista la bellezza dei fiori quando si è là
sotto. Quando si resta qua sopra. Intorno, riquadri tra il bianco
e il variopinto, pretagliati; letti di riposo precostituito, sorvegliato,
elargito come un'istituzione. Eppure, vialetti sempre più
sereni dei gelidi corridoi di corsia, tutti muri e finestre indistinguibili.
Qui, ciuffi d'erba e mattonelle si tengono per mano e si distendono
ai piedi delle croci. Intravedo il cumulo che sembra una carezza,
ancora umido, ancora più piccolo di quanto lo ricordassi,
come se avvertita la mia presenza la tomba si restringesse scontrosa
e sempre più protettiva. Nel letto cercavi sempre di occupare
il minimo spazio possibile. Discreta la tua presenza, sempre.
Dentro e fuori di me. No, non ce la faccio. Troppi passi intorno
a me. Non ci riesco, a parlarti. Tornerò domani, a sera.
Se la penombra mi darà più forza. Se il giorno che
muore mi vorrà come silenziosa sorella nel dolore.
Martedì (guerra)
Ma
la tua tomba non è vuota. Non sono sola, oggi. L'ho notata
subito, da lontano, l'intrusa che avevo smarrito. A dire il vero
non mi ero neppure accorta di averla smarrita: il giorno del funerale
non avevo proprio fatto caso alla sua assenza. Ero troppo frastornata
dal rituale, prima. E, poi, dal vuoto. E invece lei non c'era.
Da qualche parte dovrà pur aver mangiato e dormito. Ha
mille risorse, lei. Dovevo immaginarlo che era da te, che era
corsa a cercarti. E ora ti ha trovato. È proprio lei, in
abito da sposa sulla tua pietra. Un mucchietto di pelo bianco-sporco
sulla terra ancora bagnata. Che quasi vorrebbe diventar marrone,
e mimetizzarsi, e fondersi con tutto ciò che di te ancora
vede. Perché Lady è sempre stata come una sposa,
per te. So che non sarà facile riportarla a casa. Io, poi,
non sono la sua padrona, non ho mai provato ad esserlo: era te
che lei seguiva, che lei aspettava sempre e comunque. Eppure avevo
già tante volte sentito parlare di cani fedeli al padrone
fino alla tomba e oltre. Ma non credevo che potesse capitare a
te, a me. A Lady che mi guarda. E mi costringe a parlare con lei,
anziché con te soltanto. Mi fanno male i tuoi occhi, Lady.
Ora gialli, poi verdi, poi rossi. E tristi, sempre. Come fari
spenti a sfidare la pioggia, e il caso.
Mi faccio avanti: non mi fai paura. Mi sembri patetica, anzi,
nel tuo annullarti così, come macchia che si espande e
si confonde, ed appartiene senza più chiedere niente per
sé, se non ammirazione per il sacrificio compiuto. Non
serve a niente ciò che stai tentando di dimostrare e se
fossi un cane, io non lo farei. Ti aggrappi con le zampine alla
terra, il muso quasi affogato nei fiori freschi. So cosa vuoi
dirmi. Ma lui non era solo tuo, Lady, e lo sai. La moglie è
un'altra cosa. Non riuscirò a spiegartelo ma ci voglio
provare. Abbassi le orecchie e mi ascolti. Anche lui ci ascolta.
Noi, le custodi della sua pietra. Sempre all'ombra di lui. Ora
è lui che riposa sotto la nostra ombra. È il nostro
momento, questo, Lady. Che le nostre voci siano libere.
Io lo so perché mi fissi così. È impossibile,
pazzesco, ma è così: tu leggi dentro di me e vedi
che io soffro. Non so se t'importi, questo no. Io sto male, Lady,
e tu sei cattiva. Non è colpa mia se lui se n'è
andato troppo presto. E se tu sei più fedele. Tu non c'eri
quando quell'uomo è entrato in casa mia, in casa sua. Ancora
non eri nata, forse. Non so perché l'ho lasciato entrare:
non lo dovevo fare e basta. Anch'io avevo ordini precisi, come
te. Ma i dubbi erano troppi. Hai mai dubbi, tu, Lady? Tu non puoi
capire cosa sia un rimorso, un rimorso sopito. È terribile.
È una scheggia nella pupilla. Che si aziona quando decidi
di smettere di vigilare e provi a dormire. Chiudi le palpebre
e il tuo occhio diventa un nido vuoto. Non guardarmi come si guarda
un'ipocrita se io, adesso, finalmente piango, e piango per me
e non per lui. Io gli ho voluto bene davvero. Come si può
voler bene e tradire? Sarebbe per te come mangiare all'improvviso
questa farfalla della sera che allegra ti svolazza intorno. D'un
tratto la vedi provocatoria e insolente, e la ingoi, sebbene tu
sappia quanto sia bella, e buona. Ma lo devi fare. Hai fame della
polverina che tiene tra le ali. Tu non lo capisci, ma io sì.
Perché vedi, io non avrei resistito un altro giorno di
più. Non mi guardava più, Lady, e non potevo fare
come te che gli saltellavi intorno quando era ora di uscire, per
attirare la sua attenzione. Io ho trovato la forza altrove. Una
forza altrui. Così avevo una colpa anch'io, come lui. Non
una, tante occasioni, tante volte, tanti uomini. Tu non vorresti
avere più padroni, Lady, ed essere fedele a ciascuno? L'anello
stretto che tu porti al collo, io lo indosso al dito. Anzi, non
solo al dito, a tutta me stessa. E fa male, sai, fa male quando
non ha più un significato. Sul tuo collare c'è scritto
il nome del tuo padrone. In qualunque parte del mondo tu sei sua.
Finché il laccio non si rompe e cade nell'erba. E tu diventi
di nessuno, randagia. Per me no, non era così. E saresti
solo felice se io adesso mi togliessi questo insulso cerchietto
d'oro giallo e lo scagliassi lontano. La tua rivincita. Schiava,
tu, lo sei ugualmente: ciò che vuoi, lo puoi.
Ho
provato a rimuoverti. Ma tu non ti schiodi da quella croce di
legno sulla pietra. E allora ti ho odiato, sì, ti ho odiato
oggi, ma esattamente come ti odiavo quando io e lui litigavamo,
magari per un nonnulla, e tu te ne approfittavi per sdraiarti
adulatrice sui suoi piedi e lui ti accarezzava come rivincita.
Come avrebbe dovuto fare con me. Quella carezza era mia. Cosa
c'entravi, tu, che ne sapevi di un litigio tra persone? Avresti
preferito che me ne fossi andata, così lui sarebbe rimasto
tutto per te?
Sto sudando. Mi gira la testa. Hai abusato della mia pazienza,
Lady. Devo tornare calma. Calma e lucida, perché io sono
sempre calma e lucida, di solito. Mi guardo intorno. Noto una
fessura nella lastra vicina. Una fessura sufficientemente ampia,
intendo dire. E sotto, il buio. E mi viene un'idea. Un lampo,
per entrambe. Che ne dici, Lady: ti piacerebbe essere chiusa là
dentro, sotto la terra, vicina per sempre al tuo padrone? Potrei
accontentarti. Non mi vedrebbe nessuno, non ci sono più
visitatori ormai a quest'ora. Tra poco il custode mi farà
cenno e metterà il pesante lucchetto al cancello. Nessuno
si accorgerebbe del coperchio richiuso sulla scatola. Sigillerei
i tuoi guaiti, se ne emetterai: ma probabilmente non piangeresti
neppure, là sotto. È quello che vuoi? È quello
che voglio? Lasciami riflettere. Non sarei più costretta,
così, ad incontrare quei tuoi impietosi occhi indagatori,
che mi frugano ogni volta dentro al rimorso. È una borsa,
il rimorso, troppo fonda. Vorrei lasciarla a casa, ogni tanto.
Ma tu mi fai del male. Mi ricordi il male. E mi fai anche pensare
al male. Vieni, Lady, dono la pace ad entrambe. Mi appoggio e
ti aspetto. Basta un salto, un tuffo nell'oscuro spalancato dalla
fessura. Mi sono lasciata convincere anch'io, una volta, ad un
salto nel buio, sai? È così che mi sono sposata.
Se vuoi essere sua sposa, rischia e sopporta di rimanergli accanto,
mi sono detta, e ora così dico a te.
No. Non posso. Così dico io, così sono sicura che
mi stai rispondendo tu. Non posso farti questo, non posso farlo
neppure a me o a lui. È una follia. Ho pensato una follia,
semplicemente. Era tanto che non mi venivano idee puramente, completamente
folli. O meglio, era tanto che non permettevo che mi arrivassero
davanti agli occhi della mente. Ora devo tornare calma e lucida.
E se non ti muovi da lì, Lady, vorrà dire che me
ne tornerò a casa da sola.
Mercoledì
Sei
tornata, oh sì se sei tornata. Rapida come quando ci venisti
incontro, là, fuori dal canile - fuori dalla gabbia, finalmente.
Volubile. Il richiamo della fame, forse, o della tranquillità.
Ma non farmi ridere, Lady, chi vuoi incantare con quegli occhi
raddolciti? Non ti sono andata a genio, mai, o almeno mai come
lui. Da me prendevi cibo e ordini solo per dovere, se non c'era
lui. E ora sei costretta a stare con me, e sopporti, perché
certo sai che lui, morendo, proprio questo mi ha chiesto, pensa!,
con tutte le cose che avrebbe potuto dirmi o confessarmi, proprio
a te ha rivolto il suo pensiero: prenditi cura di Lady. Ma io
dico che tu stai con me, ora, perché ti fa comodo così.
E farai presto a dimenticarlo. Non andrai più sulla sua
tomba: non ne hai più bisogno, ora che ho riconosciuto
la tua superiorità, ora che hai dimostrato chi tra di noi
è stata la più amata, chi era disposta a tutto per
lui. O forse ti aspetti che io creda alla pietosa storia che tu
avresti compassione della mia solitudine, e mal comune
Ti
lascio la porta socchiusa. Scegli. O lui, o me. Se rimani, saprò
come sei fatta.
Giovedì (tregua)
Ora
sì che mangi volentieri, anche con me. Mi dormi sui piedi.
Fossi un gatto, faresti le fusa. Forse con un po' di allenamento
potrei addestrarti a portarmi il giornale, le pantofole o cose
del genere. Ti ho osservata, sai. Si fa presto a cambiare padrone.
E ora siamo pari. Vai pure dove vuoi, Lady. Io non ti voglio mia
schiava. Ho sempre pensato che chi preferisce un cane a un gatto,
ad un canarino o a un pesce rosso debba necessariamente avere
una più o meno nascosta componente narcisistica nella propria
personalità, così da godere della perfetta abnegazione
dell'animale ai suoi comandi. Mio marito non era così,
e non ho mai capito perché ti ha scelto. Certo non per
farti sua schiava: questo lo volevi tu. Con la stessa appiccicosa
voglia di farti notare che adesso manifesti a me. Infondo un animale
ha questo vantaggio: che ce lo possiamo aspettare, da lui, una
cosa del genere. Ero io che non dovevo farlo. Essere volubile.
Ti indico la porta, lasciata socchiusa. Ma tu sali sul divano
e ti sdrai sul mio ventre. Come un tempo faceva lui. Ma dalla
sua carezza non è nato nessun figlio. E ora ci provi tu
a farmi sentire meno sola. Come se con il peso caldo del tuo alito
volessi rendere il mio cuore un po' meno freddo. Se non altro,
meno freddo della pietra. Sai, Lady, sono folle e non so spiegarmene
il perché, ma penso che se ti avessi incontrata prima,
se ti avessi avuta come custode della mia porta, quegli uomini
non sarebbero mai entrati qui. O forse voglio solo, inconsciamente,
discolparmi.
Venerdì (resa)
Mi
sbagliavo. Tu continui ancora ad andare da lui. Non temi che lui
ti veda, che sappia che tu, ora, sei mia, e mi obbedisci. Ti ho
spiato. Abile a cancellare le tue tracce. Non volevi che io lo
sapessi. Volevi che ti credessi solo a me dedita. Mi volevi far
sentire importante, indispensabile, non un misero surrogato del
tuo defunto padrone. Ti ho ordinato di non lasciare casa, e sei
restata. Ti ho detto di andare dove vuoi, e l'hai fatto. Eppure,
quando sei qui, c'è solo lui per te. Non mi guardi. Ma
agiti la coda, crogiolandoti al sole. Non vuoi più sembrar
morta anche tu sulla pietra. Ora lo so. Hai ancora tanto amore
da dare. E una psicologia che, confesso, avevo sottovalutato.
Va bene, hai vinto. Saremo in due, qui. Ad ognuno la propria tristezza.
Sabato (pace)
Quando
sei qui, distesa su di lui, Lady, sei con me. Accidenti, come
ho fatto a non capirlo prima? Non è giusto, mi dico, quando
cala la sera e il cielo stellato è maledettamente bello,
e siamo in due, eppure non comunichiamo. Ed infatti, non era giusto,
e tu me l'hai insegnato. Non ti avevo guardata bene. I tuoi occhi
spenti non sfidavano la notte. Ma un bagliore proveniente da te
mi ha incuriosita. Custode notturna dei miei pensieri, cos'hai
nella bocca? Hai nella bocca proprio la mia fede nuziale. Me l'hai
ritrovata. Però, poi, non me l'hai riportata. Hai aspettato
che io me la riprendessi, se mi fosse andato di farlo. Perché
sai che non la volevo più. Ma tu mi vuoi ancora sua sposa.
Tu mi vuoi bene, Lady, e non appena ti ho sfilato dai denti quel
cerchietto tu mi hai abbaiato, è il tuo bianco sorriso
quello. E sei tornata con me a casa, e hai dimenticato la brutta
fossa dove la mia follia voleva spingerti, e la diffidenza che
mi tratteneva dallo stringerti forte contro il viso, e chiamarti
My Lady, come faceva lui. Tu stai con me perché sai che
soffro e non lo vuoi. Un cane che tiene in bocca una fede nuziale!
Roba da finire sul giornale, noi due, in prima pagina magari!
Ci pensi, Lady
quanto ci ricamerebbero sopra, tutti. Ma
una cosa non la possono sapere. Quando mi hai restituito l'anello
hai voluto mettermi alla prova. Vedere da che parte sarebbe sfociato
il mio amore, fiume ormai in secca.
Domenica
Forse
è tutto frutto della mia immaginazione. Ora torno a casa
e ti trovo distesa sul divano, disubbidiente, recalcitrante, e
devo ricominciare tutto da capo con te. Ma voglio pensare che
sia tutto vero, Lady, e che la prossima primavera il tuo ventre
non sarà più freddo come il mio, e mi riempirai
il tappeto buono dei tuoi pulciosi cuccioli che guaiscono tra
i piedi, per la gioia dei vicini. Saranno ciechi e non vedranno
sulle prime il mio sorriso. Dovranno impararlo, e sospirarlo,
anche loro!, dalla loro lenta, avara e ottusa padrona. Ma per
te non sarà un problema, Lady. Io, dividendo l'amore, l'ho
impoverito, annientato. Tu non l'hai diviso, l'hai moltiplicato,
all'infinito. Sei uno specchio che sempre disseta col suo riverbero
cangiante. E sempre mostri ciò che in te si rispecchia.
Tu, chissà poi che cosa vedi. E io, Lady, nei tuoi occhi
camaleontici e fedeli, di che colore sono?
Lunedì
Un'altra settimana è passata e sono di nuovo qui, pellegrina
in questo cielo costellato di croci bianche. E forse è
più facile voltarmi e imboccare il vialetto di ghiaia e
tornare a casa, che restare custode della tua pietra. Stavolta
l'ho trovata, la forza di toccare la tua tomba, avvocatino. Toccare
con mano, voglio dire. Non l'avevo mai fatto, ne avevo troppa
soggezione, mi faceva impressione cercare ancora un ultimo contatto
con te. I fiori erano solo un tramite indiretto. E io non credevo
che potesse essere così toccare una tomba. Quando buttavo
baci sulla pietra di mio nonno ero piccola e non capivo. Avvertivo
soltanto il disagio di chi ha perso qualcosa che ancora non sa.
Quando se n'è andata anche mia nonna ero a studiare all'estero:
al mio ritorno la lastra era già chiusa. E una lastra è
un tappeto freddo per passi asettici, non è un cumulo di
terra palpitante. Certo non avrei mai pensato che il prossimo
potessi essere tu, non ancora. Cose che avevo letto solo nei libri:
come può la terra rispondere al tocco della mano? Non volevo
accettare l'idea di un continuo, o forse temevo che tu ti saresti
ritratto alla mia carezza. Ma non l'hai fatto. È come se
anche la pietra divenisse terra e pulsasse, e assorbisse l'acqua
non per legge fisica ma volontariamente, per abbeverare una sua
particolare assurda forma di vita che non ci è dato di
conoscere. Forse, un substrato di argilla e cenere che presto,
o un giorno che non ci è dato di sapere, tornerà
carne, come all'origine. Mi aggrappo anch'io alla terra come in
un abbraccio. Non solo per abbracciare te: per abbracciare noi.
Siamo mai stati un abbraccio, noi due? Ma non ti aspettare, adesso,
che io commossa baci la terra o la tua fotografia avvolta di cellophane
o preghi o cose simili: mi conosci, tu, non saprei farlo, non
sarebbe da me. Non è giusto che io cambi adesso, non la
vorresti la mia ipocrisia. Forse, con un po' di esercizio, con
l'aiuto pietoso del tempo, presto riuscirò anche a parlarti.
Parlarti di me, intendo. È tanto, troppo, che non lo faccio.
Che non lo faccio con te. Ma per oggi ti basti questa mia fugace
carezza adolescente, scambiata quasi con un po' di vergogna, mentre
la sera ci è unica complice e testimone.
Caterina
Bigazzi è nata nel 1975 a Firenze, dove vive. Nel 1999
si è laureata in Lettere ad indirizzo storico-artistico
con una tesi sul pensiero estetico di John Ruskin. Attualmente
è impiegata di Redazione presso una Casa editrice fiorentina.
Appassionata lettrice, scrive racconti, poesie, interventi critici,
partecipando a Premi letterari e spesso ottenendo buoni riconoscimenti.
Ha pubblicato il racconto "Non si parla al conducente"
sulla Rivista Sagarana n° 6, scelto tra i racconti scritti
durante il Workshop organizzato a Firenze nel 2001, dalla Rivista
letteraria Semicerchio. È autrice della silloge poetica
finora inedita Servono mani alle cose vive. Indirizzo: Caterina
Bigazzi, Via Rocca Tedalda 37, 50136 Firenze - tel. 0556504318
Precedente Successivo
VENTONUOVO
Copertina
|