'NASTY
Danzio Bonavia
Avevo
saputo per caso dell'incidente di Anastasia.
In piazzetta, un pomeriggio. Il solito pomeriggio. Le nostre giornate
erano tutte così. Monotone, perché noi volevamo
fossero così. Tutte così. Nessuno sapeva proporre
qualcosa di nuovo da fare, prima che il "solito pomeriggio"
ci avesse assorbito, seviziandoci lentamente di noia.
Cominciavo a capire cosa volesse dire essere un ligure agli occhi
dei vacanzieri d'estate. Ancora peggio: un imperiese. A capire
perché realmente Imperia fosse il buco del culo del mondo.
Me lo diceva sempre il mio ex capo a lavoro: "Qua, siamo
nel buco del culo del mondo!". Con quel suo accento tedesco
fra i baffi. Vedeva tutto dall'esterno. Non si sbagliava affatto.
"Il buco del culo del mondo!". Me lo ripeteva sempre.
Era proprio come gli Imperiesi avevano voluto che fosse. Inconsciamente.
È una cosa che abbiamo dentro, o che ci cresce dentro.
Se col tempo non ce ne accorgiamo, se la lasciamo germinare, questa
non se ne andrà mai da noi. Non volevo che quella cosa
attecchisse anche dentro me.
La sentivo come un'essenza, tipo Blob. Si invischiava nelle teste
e le bloccava, le uccideva.
Come una vecchiaia prematura che spezza la giovinezza e spacca
le palle.
Così anche quando facevamo qualcosa fuori dal solito, che,
attenzione, non era niente di sorprendente, solo diverso, il giorno
dopo non ci veniva più da proporre nulla. Non sapevamo
neanche più di avere la possibilità della scelta.
Il merdoso Blob, accorgendosi della luce che avevamo intravisto,
ci faceva ripiombare nell'oscurità. Uno stato pietoso:
meno radicale dell'apatia, quasi un accettazione involontaria
della noia.
In fondo la spiegazione del Blob non era male per descrivere come
stessi, e come sentissi tutto intorno a me, così in quel
periodo quella era la mia teoria e l'avrei difesa, comunque, anche
nel torto più palese.
I giorni scorrevano simili, sempre più veloci. Anche quell'estate
stava per finire. Io lavoravo. Iniziavo alle sei. Ripetevo ogni
giorno le stesse azioni per preparare la sala. Ogni sera cambiavano
solo i clienti e i piatti davanti a me.
Quel
giorno in piazzetta mi avevano detto che Anastasia si era schiantata
in motorino con entusiasmo. Era la novità. Come se ormai
fosse un momento lontano che, per poco, aveva spezzato la monotonia.
Aveva avuto un frontale con un Porsche che aveva invaso la corsia,
su per una delle tante troppo strette stradine intorno a casa
sua. Andavo spesso a trovarla. Era un po' come cambiare ambiente.
Dal mare all'ombra fresca delle valli, circondate di olivi. Non
ci voleva tanto per arrivare, ma la strada era davvero schifosa.
Sembrava quasi che i suoi bordi convergessero avvicinandosi al
paese, rendendola sempre più stretta.
La macchina l'aveva solo sfiorata, ma lei era volata via sull'asfalto.
Non riuscivo a capire come, chi la conoscesse, anzi, chi le fosse
amica, riuscisse a mantenere un tale distacco. Senza emozioni.
Un momento dei miei giorni precedenti era andato in frantumi.
Avrei potuto essere distratto a ridere, mentre lei urlava e piangeva.
Vicina ad una luce. Vicina a niente.
Il tale, sotto al quale lavoravo in quel periodo, una sera alle
due di notte mi esce con la domanda se fossi credente.
Stavamo riordinando la sala del ristorante. Lavoravo lì
da due settimane. Stavo piegando i copri macchia. Uno dopo l'altro
sempre più velocemente, pur di finire e andarmene.
Non
avevo bestemmiato, non credo di averlo mai fatto, lì. Eppure
lui così di colpo mi chiedeva sta cosa.
"No, perché?". Quasi non avrei saputo dire se
stavo rispondendo alla sua di domanda o alla mia.
"Ma niente! M'è venuto in mente così. Proprio
tu non hai fede? Non ti è mai venuto il bisogno di credere
che ci sia qualcosa, per darti forza dopo la morte?"
"Dopo la morte? Se mai, aspettando la morte". Avevo
pensato.
"No!". Avevo risposto secco. Non avevo tanta voglia
di parlare. Non con lui. Continuavo a piegare, veloce, per andarmene.
Ero così stanco a quell'ora che ripetevo i miei gesti per
inerzia.
"Si vede che non sei mai stato vicino alla morte!" E
di nuovo, fra un gesto ed un altro, tornava con la sua voce a
interrompere i miei pensieri.
Intorno a noi c'era solo il rumore di qualche macchina, dei neon
accesi e delle onde che delicatamente si appoggiavano sulla spiaggia
vicino al locale. Nient'altro a distrarmi, se non la sua voce.
Avrei potuto fare due passi, uscire dal deor, passare qualche
fila di sdraio. I miei passi si sarebbero appoggiati sulla sabbia
e sarei stato sulla riva. Avrei potuto distendermi guardare il
cielo, sentire il mare. Invece...
"Ti è mai successo?". Insisteva, col quel suo
sorriso da grosso porco, facciadimerda, falso che sfoderava per
tutti i clienti migliori: i più rompicoglioni.
"No." Cercavo di tagliare corto dopo averlo guardato
incantato, immaginandolo con la vera faccia da maiale che nascondeva
sotto il suo sorriso.
Avrei dovuto essere più schietto e diretto. Ma mi facevo
troppe para. E queste mi rimanevano addosso a viziarmi, appiccicate
come fantasmi da scacciare.
Però a lui avrei potuto non risparmiarle. In fondo cosa
poteva farmi? Licenziarmi? E beh?! Non potevo più pensare
ed essere sincero perché era lui a pagarmi. Poi quei soldi
che mi stavo mettendo da parte per una vacanzetta coi miei amici,
pochi mesi dopo li avrei dovuti spendere per pagarmi il processo
per il rifiuto alla divisa. Non avrei perso nulla. Almeno avrei
avuto il ricordo di quella soddisfazione.
Ma era tardi e avevo sonno. Volevo solo starmene rilassato. Lui
era un basto (1) e faceva di quello che diceva un assoluto. Sempre
a farcire le frasi di "No davvero! Se ci pensi è così!",
"Prova ad immaginare
io ho provato...".
Basta basti per me quella sera.
Ma lui continuava concitato: "Vedi, quando sei così
vicino alla morte qualcosa in te cambia. Avviene qualcosa che
non
so! È come se, come se capissi qualcosa! Ecco! Stupendo!
Davvero!."
"Ma minchia, perché non sei morto quando ci sei stato
così vicino, così non eri qui con la tua faccia
da porco, e non rompevi le palle a me!"
Ma rimanevo zitto. Continuavo sistematico, pur di liberarmi. La
mia mente ormai era già altrove, e aspettava solo la raggiungessi
per dimenticare tutta l'ansia che riuscivo ad accumulare coi clienti
in una sera. Lei voleva portarmi a passeggio.
"Vedi, se ti fosse successo di stare male, qualcosa in te
sarebbe cambiato! Evidentemente non ti è mai successo."
Ormai avevo quasi finito. Potevo anche buttare lì due cose,
solo per non farlo diventare opprimente.
"A natale ho avuto una colica renale. Mi faceva male respirare.
I dolori che ti provoca quello stato sono peggio di quelli del
parto. Me l'ha detto una signora che li ha provati entrambi. Ti
senti come una morsa che ti stringe da dentro la pancia. Non puoi
respirare senza sentire male, e ti sembra ti stiano schiacciando
le palle. Davvero!
Sono stato due ore in agonia, fino a delirare. Non mi è
cambiato proprio nulla." Sembrava davvero recitassi il pensierino
delle elementari.
"E allora si vede che non c'eri vicino. Fidati. In quel momento
ti cambierebbe qualcosa!"
"Forse davvero non mi è mai successo. Ma se l'intensità
del dolore influenza la paura di morire, allora ho provato qualcosa
di simile. No?!"
"No! No! Ti garantisco che avresti capito qualcosa di più!"
"Ma come puoi pretendere che le tue esperienze valgano per
tutti. Ma vaffanculo. Mollami." Ma queste cose gliele avrei
dovute urlare secche in faccia. E non restare zitto.
Chiudevo le imposte del bar, sbattendole, sperando di coprire
le sue parole. In effetti, rispetto a quello che poteva aver provato
Anastasia, io non avevo avuto nulla.
L'aria della notte intorno dormiva. Restava solo la sua voce a
turbare quella quiete.
Ormai mi aveva dato la sua sentenza. Anche parlando tutta la notte,
non avrei potuto cambiarla.
Forse se Ana avesse potuto raccontare la sua esperienza il maiale
sarebbe stato zitto nelle sue cazzate.
Una sera, mi ricordo, ero entrato in cucina e avevo trovato quasi
tutte le persone che lavoravano con me in sala intorno a sto coglione
che guarniva una meringata con delle rose. Lui che accentuava
tutti i suoi movimenti come se stesse scolpendo qualcosa.
Una merda. Davvero. Una scena pietosa con gli altri a guardarlo
come se avesse prodotto un grande esempio di stile.
Era una merda la meringata, di quelle surgelate, una merda più
grossa con quelle rose, infilategli dentro per il gambo. Senza
manco lavarle.
Zero igiene. Come al solito.
Discutevano per i soldi da dare al "marocchino" da cui
avevano preso, all'ultimo momento, i fiori.
C'era anche lui in quella cucina. Faceva caldo. Avevo fretta.
Troppe cose da fare da prendere, da portare, da ricordarmi. Sudavo,
nella mia camicia nera con la bandana in testa da pirata. Ma entrato
mi ero ipnotizzato anch'io in quella scena. Del dolce e della
sua farcitura non mi importava nulla. Piuttosto come mai il marocchino,
che poi era un indiano, non era stato pagato subito, ed era ancora
lì ad aspettare titubante?
"Quanto gli diamo?". Aveva chiesto quasi sommesso il
tipo che pigliava le ordinazioni intorno alla pista da ballo.
Davanti a lui l'indiano con la mano tesa scuoteva il capo, spazientito.
Ignorato.
"Non ora! Cazzo! Ma perché non sapete fare da voi
ste cose .Shhhh!". Sbuffava il maiale. E si lamentava come
un bambino.
"Dagli sei mila, e digli di non rompere!" Aveva tagliato
brusco.
"Ma lui mi ha detto che ne vuole quindici!."
"Quindici?!". E si era girato direttamente verso il
"marocchino".
"No! Tieni!". L'aveva investito, mettendogli dei soldi
in mano e restituendogli parte delle rose.
"E tu qua non venire più!". Ed era tornato alla
sua opera.
Io dietro che assistevo a quella scena. Tutti in primo piano.
Penosa.
"Bravo, bravo. Che duro
coglione!". Scuotevo la
testa, ma tutto rimaneva chiuso dentro me.
"Sì, fai il fico che la meringata è già
guarnita! E pigliatela con chi non ti può dire nulla".
Ma continuavo solo a pensare.
Mi pulsava la fronte dalle grida che gli avrei voluto tirare addosso.
"Mah! Poverino!". Mi ero lasciato uscire solo quello.
"Poverino? Ma poverino un cazzo! Io lo lascio entrare qua.
Gli faccio un favore e lui non sa ricambiarmi." Mi aveva
risposto incarognito il porco.
"Ma erano solo 15 mila"
"Sì, ma sai quanto le paga lui?"
"Sì, ma sai quanto la paghi tu la roba?"
Invece di dirlo avevo fatto "sì, sì" col
capo.
"Senti, se uno mi vuol essere amico, deve sapermi ricambiare,
se no qua non c'entra più!"
"Sì, va beh! Ma da non farlo più entrare! Ma
a me non me ne frega un cazzo. Comportati come vuoi." Avevo
preso i miei piatti, miei giusto per il tratto che mi separava
dalla cucina ai ci clienti, ed ero tornato in sala.
La gente tranquilla, estranea a quanto fosse capitato per il loro
dessert. Troppa confusione e troppi pensieri mi assillavano.
Non era vero che non me ne importava nulla.
E lui che voleva educarlo a comportarsi nella maniera corretta.
Ma quella era solo la sua.
Voleva metterlo sotto, dimostrare in quello squallore di essere
superiore agli altri.
Che bastardo. Il grosso re porco. Tutto mi si appressava davanti
agli occhi. Davanti alle facce dei clienti e alle loro richieste.
Quello era il giorno in cui non mi sarei assolutamente dovuto
trattenere. Intanto andavo fra un tavolo e l'altro. Fra piatti
da sparecchiare, pane da affettare, caffè, condimenti,
pizze e birre da portare ai tavoli.
Li avrei dovuti guardare tutti dopo la sua scenata e dirgli cautamente
pieno d'odio: "Bene! Visto come siete allora io me ne vado".
Avrei dovuto levarmi quella cazzo di bandana col teschio da pirata,
lasciargliela lì e dirgli: "Guarda che sta stronzata
non attira i clienti, almeno il locale fosse a tema. Ci vediamo
domani. Passo a prendere i soldi. Fatti i conti prima perchè
mi vergogno a stare in un posto come questo."
Potevo davvero farlo. Avrei avuto in po' di casini per farmi pagare,
ma potevo.
Il ragazzo indiano no! Era in uno stato a cui si poteva solo piegarsi
a tutto.
E quell'ignorante, che si sentiva superiore e voleva rispetto,
l'aveva capito e lo usava.
Per lui non era nulla, neanche un ricordo. Perché in fondo
lui evidentemente quando stava per morire aveva visto qualcosa
che gli aveva cambiato tutto. Valeva meno lui per terra che non
una sua pizza.
Se no probabilmente quel ragazzo sorridente avrebbe lasciato cadere
i suoi soldi, si sarebbe ripreso le rose, tirandole fuori una
ad una dalla meringata e l'avrebbe guardato, come si fa per far
capire ai bimbi che non si ci deve comportare così. Non
va bene, non è bello. E senza fare casino l'avrebbe lasciato
nella merda.
Sarebbe stato veramente bello. Ma ormai non era che una mia fantasia,
mischiata alle parole della gente che mi stava attorno e parlava
tranquilla, ignara. Tutto era ancora sepolto dal bujo.
Nulla era accaduto per i clienti , seduti così vicini a
quella cucina. Nulla che potesse turbare le loro cene.
"Ma il rispetto non lo si chiede, lo si dimostra." Mi
chiedevo che cazzo volesse dire una frase del genere. Dimostro
che mi devi e come devi darmi rispetto. Forse proprio quello che
il maiale mi aveva fatto vedere.
Per diecimila. Per diecimila lire l'aveva mandato via.
Ma la serata era andata avanti. Normalmente secondo i ritmi del
lavoro. Ognuno con i suoi pensieri silenzioso a servire. Sorrisi
finti ai clienti. Per gli altri intorno quella scena era come
se non fosse mai avvenuta. Lui quando mi incrociava mi sorrideva,
piegando la testa, quasi a dirmi: "Vuoi dirmi ancora qualcosa
a riguardo di prima?"
Io non avevo saputo parlare. Mi facevo rubare i sentimenti dal
lavoro.
Subito avevo creduto: " Ma guarda sto facciadimerda, ha già
scordato tutto!"
Invece voleva provare se avevo il coraggio di dirgli qualcosa.
Se mettevo in discussione che lui era il capo. Ma sto stronzo,
sicuro, quella scena non l'avrebbe mai fatta davanti ad un tavolo
dei suoi clienti. Mangiavano indifferenti a tutto quello che c'era
stato . Inconsapevoli. Probabilmente proprio come lo ero stato
io, nell'attimo in cui sorridevo, mentre Anastasia scivolava sull'asfalto.
Era un po' che non vedevo Anastasia. Quella notizia mi aveva investito.
Non ricordo dove fossi stato per non averla più vista in
quel periodo.
"Forse ero via?" Mi chiedevo. "No!" Tutt'altro.
Da agosto ero di nuovo bloccato ad Imperia, e passavo l'ultimo
periodo d'estate a lavorare. Ma in fondo non perdevo molto, tranne
le solite serate. I soliti pomeriggi in piazzetta.
"C'ero. Eccome se c'ero." Evidentemente non ci stavo
dentro.
Sì, da quando avevo iniziato a lavorare, i miei rapporti
sociali si erano confusi e limitati. Avevo davvero poco tempo
per stare in giro. La notte finivo tardi, verso le due. La città
era completamente muta. Pigliavo i cornetti e le focaccine che
erano avanzate e volevo, potevo solo andarmene a casa a rilassarmi
nel letto, a leggere e mangiare. Mi accorgevo che quel poco che
mi rimaneva lo passavo con quelli con cui normalmente già
stavo di più.
Come un'inconscia selezione degli amici.
Avevo lentamente dimenticato gli altri.
Vendevo il mio tempo in cambio di soldi. Prostituivo le mie emozioni,
rinunciandoci.
Ci pensavo spesso in quei giorni. Ero sempre in motorino, sempre
di fretta. Quando uscivo prima di andare a lavorare avevo sempre
poco tempo. Schizzavo da una parte all'altra.
Nel traffico, in ritardo, guardavo l'orologio. Pensavo a mia madre
che ora era serena e non mi vedeva più come un apatico
disoccupato senza alcuno stimolo e scopo. Magari ne parlava pure
con altre signore per aumentare la sua tranquillità. Discorsi
del tipo: "Ma sì cara! Lavora, si mette i soldi da
parte, è più tranquillo." Magari la rassicurava
un amica. "Lo capirà meglio quando potrà comprarsi
la macchina che voleva. Allora vedrai che sarà più
soddisfatto e felice, non preoccuparti."
Ma certo! Almeno quel tipo lì di cui stavano parlando,
che non sono io, ha trovato un modo di sopravvivere. Solo dimentica
piano le vecchie emozioni. Ora so come uno può accettare
di uscire andare al cinema, sempre nello stesso pub: gli basta
perché non è lavoro e può rilassarsi. Gli
basta perché non ha più la forza di fare nulla la
sera. Rinuncia a sé stesso, come se un enorme organismo
psicosociale lo inglobasse. Nella mia città era fin troppo
facile e rischioso ammalarsi di questo. Io non volevo scordare,
e preferivo infantilmente continuare a sognare.
Non volevo che la mia mente si addormentasse, e si svegliasse
senza aver sognato. Ogni notte la invitavo ad accompagnarmi nelle
nostre passeggiate. Io e i miei amici eravamo all'opposto, così
allo svacco che divertirci, non fare nulla, cazzeggiare, era la
routine, andare in piazza lo sfogo, la tregua dal nostro lavoro
cazzeggio. Per non farmi inglobare da Blob dovevo sbattermi. Fare
cose. Levarmi da quel cazzeggio. Quel cazzeggio era Blob.
Io mi stavo lentamente risvegliando dalla distrazione in cui il
lavoro mi aveva immerso, dal cazzeggio cui ero abituato. Non dovevo
permettere alla stanchezza di chiudermi. Ero solo io a condizionarmi.
Invece mi stavo facendo rapire, senza accorgermene.
Anastasia era come la mia sorellina. Io l'avevo scordata solo
per il poco tempo libero. L'ultima volta che eravamo assieme stavamo
passeggiando. Era tipo un mese prima, lei mi seguiva leggermente
dietro. Mi ero voltato a salutare uno, e guardandola avevo pensato
"Vorrei abbracciarla." E quando le ero andato incontro
lei veniva verso me con un braccio disteso.
Eppure in quei giorni, in cui lavoravo, l'avevo persa.
Aveva passato undici ore senza capire nulla. Undici ore di dolore
senza Dio e rivelazioni. Nella luce e nel bujo.
Undici ore di dolore, senza riuscire a pensare ad altro, se non
al dolore. Forse senza neanche rivedere la sua vita nel classico
flash back. Undici ore nelle quali i medici non ci capivano un
cazzo.
Undici ore prima che si accorgessero della sua emorragia interna.
Undici ore prima che le incidessero la pancia, recidendo i muscoli,
e le asportassero interamente la milza.
Un ora sola, prima che il suo corpo morisse. In un momento in
cui io sarei stato lontano, felice, ignaro. Senza sapere, senza
sentire nulla.
Continuavo a pensare a dove fossi il giorno del suo incidente.
Pensare a cosa stessi facendo. Magari ero a lavoro, che stavo
stendendo monotonamente le tovaglie e i copri macchia. Chissà
se in quell'attimo avevo avvertito qualcosa. Anche leggerissima,
solo una sensazione di disagio o fastidio. Ma non riuscivo a ricordare.
Era come se volessi che il suo corpo, o la sua mente, in un momento
così profondamente distruttivo si ricordassero di me. Ma
non per chiedermi aiuto. Solo per potermi vedere, farsi sentire
salutarmi prima di lasciarmi.
Assurdo.
Mi avevano detto che Anastasia si era sfracellata in motorino.
Senza nessuna emozione.
Aveva avuto un frontale con un Porsche che aveva invaso la sua
corsia, su per una delle tante troppo strette stradine intorno
a casa sua.
Era scivolata veloce sull'asfalto. Lo scooter affianco a lei.
Si era rialzata, confusa. Voleva rimettersi in sella, andarsene
via da sola.
Diceva di star bene. Aveva le braccia, il fianco e le gambe che
le sanguinavano per le abrasioni. Barcollando aveva raccolto lenta
il casco, facendo fatica ad afferrarlo. Nel chinarsi i capelli
le erano scivolati sul viso.
I tipi della Porsche erano scesi. L'avevano soccorsa. Volevano
portarla in ospedale. "No...No
Ho già avuto
un altro incidente. Sto bene, sto bene." Le avevano subito
prestato aiuto. Ma lei insisteva.
"Sto bene, sto bene" "No. Ti accompagniamo noi.
Non preoccuparti. Vieni, andiamo in ospedale."
In ospedale. In quei giorni ero stato a trovare un amico in ospedale.
Avevo salito quelle scale, poi le avevo scese. Avevo incontrato
il mio amico C. poco prima che venisse ricoverato. Era davvero
preoccupato. Era venuto in piazzetta, per salutarci. Aveva la
faccia gonfia. Gli occhi velati di giallo. Soffriva di reni.
"Oh, ciao com'è?" Mi aveva salutato sorpreso
di vedermi a Imperia.
"Mah! Sempre uguale. Sempre Imperia. E tu?!"
"E' un periodo davvero di merda, guarda!" E abbassando
la testa l'aveva scossa leggermente. Quella frase penso che se
la sarebbero sentiti tutti di dirla in piazzetta. Abbiamo sempre
uno scazzo che unito ai cazzi ci tiene giù. Ma lui era
sincero. Aveva la franchezza di chi avrebbe rifiutato volentieri
di dire quella frase. Era sconsolato.
"Perché? Cosa ti è successo?" Anche se
potevo immaginarlo dal suo aspetto non mi sentivo di chiedergli
se fosse per i reni.
Era come dirgli "Ah! Sei ridotto una merda! Hai male hai
reni? Vero!?"
Così mi aveva risposto "Ehh...è un periodo
che non va tanto bene. Non sto per niente bene." Mi aveva
detto quelle frasi con uno spiccato accento ligure, imperiese,
che me le aveva fatte sentire ancor più lamentose.
"Ma come?! Non eri stato a Milano ed era andato tutto bene!
No?!"
"Si però... ora non va per niente bene." Sorrideva
forzato. "E così probabilmente devono mettermi in
osservazione." Restavo in silenzio quando mi si dicevano
cose così direttamente. Non sapevo cosa dire. Mi venivano
su tanti pensieri. fissavo il vuoto. Stavo ancora zitto. Ero seduto
sui gradini.
C. mi aveva toccato il ginocchio senza chinarsi e mi aveva detto
"Vado a fare un giro. Guardo se c'è qualcuno. Ci vediamo
dopo." C'eravamo rivisti alcuni giorni dopo in ospedale.
Reparto di nefrologia. Ero passato davanti al reparto di Anastasia
senza sapere che si trovasse là.
Un mesetto prima aveva avuto un altro incidente, sempre in motorino,
con una sua amica danese dietro. Si erano infilate con una ruota
nel canaletto fra la corsia e il muro. Non si erano fatte male.
Non tanto, ma il motorino si era distrutto.
Così si era trovava di nuovo ad alzarsi col motorino scassato.
Anche lei era scassata stavolta. "No..No..Sto bene. Davvero
grazie."
"Ma no! Aspetta, stai ferma ti portiamo in ospedale!"
"No, non c'è problema." Aveva barcollato verso
il motorino. Poi era caduta. Senza sensi. I capelli le erano scivolati
sul viso.
I capelli mi scivolano sul viso. Mi passa le mani veloci in mezzo
a sparpagliarmeli. Ho caldo. Me li taglia e mi si appiccicano
sul collo sudato. Fa ancora caldo anche se è settembre
inoltrato. La stagione è finita e io non lavoro più.
"Finito!" Mi dice passandomi la mano fra i capelli.
Ho tenuto gli occhi chiusi mentre me li tagliava, lasciandomi
spostare la testa. In silenzio, ripensando a come erano andate
le cose negli ultimi due mesi. Anastasia è appena uscita
dall'ospedale. Ha bisogno ancora di alcuni giorni per rimettersi.
C'eravamo dati appuntamento la prima volta che era uscita, appena
dimessa. Io la chiamavo 'Nasty. Era l'abbreviativo danese del
suo nome. Ero in ritardo. Al solito. Mentre parcheggiavo il motorino
in piazzetta me l'ero vista venire incontro. Lenta, zoppicando
come se non lo facesse per i piedi o le gambe. Si teneva un fianco
e stava tutta piegata da quella parte. Le avevano asportato totalmente
la milza. Trentanove punti.
Ora se ne stava tranquilla. In piedi dietro a me a tagliarmi i
capelli. Nel frattempo io avevo guardavo fuori dalla finestra,
fisso, gli ulivi coperti dal sole e dal caldo, vedendoci proiettato
su un filmino di tutto quello che era successo. E che non sapevo
fosse successo.
"Ma hai visto una luce?"
"No."
"Ma mentre eri svenuta?"
"No."
"E mentre ti operavano? Almeno quella della sala?"
"No. Perchè?"
"Niente. Così. Non ha importanza. Ho parlato con una
persona che ti direbbe che non sei stata vicino alla morte. Che
non hai capito nulla."
Un racconto sulle piccole cose che possiamo scordare, ma che ci
fanno stare bene e vivere. Senza entrare ed essere assorbiti,
e appartenere a schemi chiusi.
NOTE
(1) Colui che cerca di convincerti, o intortarti coi propri discorsi.
Sostanzialmente una persona fastidiosa.
Danzio
Bonavia OPM (Imperia, 1978) è studente alla facoltà
di Letterature e Culture Comparate di Torino. Ha vinto alcuni
concorsi letterari, e pubblicato racconti e poesie su siti e riviste
italiane (Sagarana, Prospektiva e altre).
Nel 1998, insieme a D. Danio e V. Patti, crea il gruppo di scrittura
Opiemme Poesie, con l'obiettivo di avvicinare un pubblico giovane
alla lettura della poesia, attraverso la sua innovazione, mediante
il ricorso a diversi codici di comunicazione (pittura, web design,
aerosol art, musica, grafica, fotografia, animazione video).
Con l'OPM ha partecipato a vari spettacoli di musica e poesia.
Durante i readings le letture sono di volta in volta accompagnate
dall'improvvisazione di band con diverse attitudini musicali,
o da basi pre-campionate. Alcuni di queste "poesie da ascoltare"
si possono trovare sulle pagine di www.voices.it. Contatto: danziopm@yahoo.com
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