'NASTY


Danzio Bonavia

Avevo saputo per caso dell'incidente di Anastasia.
In piazzetta, un pomeriggio. Il solito pomeriggio. Le nostre giornate erano tutte così. Monotone, perché noi volevamo fossero così. Tutte così. Nessuno sapeva proporre qualcosa di nuovo da fare, prima che il "solito pomeriggio" ci avesse assorbito, seviziandoci lentamente di noia.
Cominciavo a capire cosa volesse dire essere un ligure agli occhi dei vacanzieri d'estate. Ancora peggio: un imperiese. A capire perché realmente Imperia fosse il buco del culo del mondo.
Me lo diceva sempre il mio ex capo a lavoro: "Qua, siamo nel buco del culo del mondo!". Con quel suo accento tedesco fra i baffi. Vedeva tutto dall'esterno. Non si sbagliava affatto.
"Il buco del culo del mondo!". Me lo ripeteva sempre.
Era proprio come gli Imperiesi avevano voluto che fosse. Inconsciamente. È una cosa che abbiamo dentro, o che ci cresce dentro. Se col tempo non ce ne accorgiamo, se la lasciamo germinare, questa non se ne andrà mai da noi. Non volevo che quella cosa attecchisse anche dentro me.
La sentivo come un'essenza, tipo Blob. Si invischiava nelle teste e le bloccava, le uccideva.
Come una vecchiaia prematura che spezza la giovinezza e spacca le palle.
Così anche quando facevamo qualcosa fuori dal solito, che, attenzione, non era niente di sorprendente, solo diverso, il giorno dopo non ci veniva più da proporre nulla. Non sapevamo neanche più di avere la possibilità della scelta.
Il merdoso Blob, accorgendosi della luce che avevamo intravisto, ci faceva ripiombare nell'oscurità. Uno stato pietoso: meno radicale dell'apatia, quasi un accettazione involontaria della noia.
In fondo la spiegazione del Blob non era male per descrivere come stessi, e come sentissi tutto intorno a me, così in quel periodo quella era la mia teoria e l'avrei difesa, comunque, anche nel torto più palese.
I giorni scorrevano simili, sempre più veloci. Anche quell'estate stava per finire. Io lavoravo. Iniziavo alle sei. Ripetevo ogni giorno le stesse azioni per preparare la sala. Ogni sera cambiavano solo i clienti e i piatti davanti a me.


Quel giorno in piazzetta mi avevano detto che Anastasia si era schiantata in motorino con entusiasmo. Era la novità. Come se ormai fosse un momento lontano che, per poco, aveva spezzato la monotonia. Aveva avuto un frontale con un Porsche che aveva invaso la corsia, su per una delle tante troppo strette stradine intorno a casa sua. Andavo spesso a trovarla. Era un po' come cambiare ambiente. Dal mare all'ombra fresca delle valli, circondate di olivi. Non ci voleva tanto per arrivare, ma la strada era davvero schifosa. Sembrava quasi che i suoi bordi convergessero avvicinandosi al paese, rendendola sempre più stretta.
La macchina l'aveva solo sfiorata, ma lei era volata via sull'asfalto.
Non riuscivo a capire come, chi la conoscesse, anzi, chi le fosse amica, riuscisse a mantenere un tale distacco. Senza emozioni.
Un momento dei miei giorni precedenti era andato in frantumi.
Avrei potuto essere distratto a ridere, mentre lei urlava e piangeva. Vicina ad una luce. Vicina a niente.


Il tale, sotto al quale lavoravo in quel periodo, una sera alle due di notte mi esce con la domanda se fossi credente.
Stavamo riordinando la sala del ristorante. Lavoravo lì da due settimane. Stavo piegando i copri macchia. Uno dopo l'altro sempre più velocemente, pur di finire e andarmene.
Non avevo bestemmiato, non credo di averlo mai fatto, lì. Eppure lui così di colpo mi chiedeva sta cosa.
"No, perché?". Quasi non avrei saputo dire se stavo rispondendo alla sua di domanda o alla mia.
"Ma niente! M'è venuto in mente così. Proprio tu non hai fede? Non ti è mai venuto il bisogno di credere che ci sia qualcosa, per darti forza dopo la morte?"
"Dopo la morte? Se mai, aspettando la morte". Avevo pensato.
"No!". Avevo risposto secco. Non avevo tanta voglia di parlare. Non con lui. Continuavo a piegare, veloce, per andarmene. Ero così stanco a quell'ora che ripetevo i miei gesti per inerzia.
"Si vede che non sei mai stato vicino alla morte!" E di nuovo, fra un gesto ed un altro, tornava con la sua voce a interrompere i miei pensieri.
Intorno a noi c'era solo il rumore di qualche macchina, dei neon accesi e delle onde che delicatamente si appoggiavano sulla spiaggia vicino al locale. Nient'altro a distrarmi, se non la sua voce. Avrei potuto fare due passi, uscire dal deor, passare qualche fila di sdraio. I miei passi si sarebbero appoggiati sulla sabbia e sarei stato sulla riva. Avrei potuto distendermi guardare il cielo, sentire il mare. Invece...
"Ti è mai successo?". Insisteva, col quel suo sorriso da grosso porco, facciadimerda, falso che sfoderava per tutti i clienti migliori: i più rompicoglioni.
"No." Cercavo di tagliare corto dopo averlo guardato incantato, immaginandolo con la vera faccia da maiale che nascondeva sotto il suo sorriso.
Avrei dovuto essere più schietto e diretto. Ma mi facevo troppe para. E queste mi rimanevano addosso a viziarmi, appiccicate come fantasmi da scacciare.
Però a lui avrei potuto non risparmiarle. In fondo cosa poteva farmi? Licenziarmi? E beh?! Non potevo più pensare ed essere sincero perché era lui a pagarmi. Poi quei soldi che mi stavo mettendo da parte per una vacanzetta coi miei amici, pochi mesi dopo li avrei dovuti spendere per pagarmi il processo per il rifiuto alla divisa. Non avrei perso nulla. Almeno avrei avuto il ricordo di quella soddisfazione.
Ma era tardi e avevo sonno. Volevo solo starmene rilassato. Lui era un basto (1) e faceva di quello che diceva un assoluto. Sempre a farcire le frasi di "No davvero! Se ci pensi è così!", "Prova ad immaginare…io ho provato...".
Basta basti per me quella sera.
Ma lui continuava concitato: "Vedi, quando sei così vicino alla morte qualcosa in te cambia. Avviene qualcosa che…non so! È come se, come se capissi qualcosa! Ecco! Stupendo! Davvero!."
"Ma minchia, perché non sei morto quando ci sei stato così vicino, così non eri qui con la tua faccia da porco, e non rompevi le palle a me!"
Ma rimanevo zitto. Continuavo sistematico, pur di liberarmi. La mia mente ormai era già altrove, e aspettava solo la raggiungessi per dimenticare tutta l'ansia che riuscivo ad accumulare coi clienti in una sera. Lei voleva portarmi a passeggio.
"Vedi, se ti fosse successo di stare male, qualcosa in te sarebbe cambiato! Evidentemente non ti è mai successo."
Ormai avevo quasi finito. Potevo anche buttare lì due cose, solo per non farlo diventare opprimente.
"A natale ho avuto una colica renale. Mi faceva male respirare. I dolori che ti provoca quello stato sono peggio di quelli del parto. Me l'ha detto una signora che li ha provati entrambi. Ti senti come una morsa che ti stringe da dentro la pancia. Non puoi respirare senza sentire male, e ti sembra ti stiano schiacciando le palle. Davvero!
Sono stato due ore in agonia, fino a delirare. Non mi è cambiato proprio nulla." Sembrava davvero recitassi il pensierino delle elementari.
"E allora si vede che non c'eri vicino. Fidati. In quel momento ti cambierebbe qualcosa!"
"Forse davvero non mi è mai successo. Ma se l'intensità del dolore influenza la paura di morire, allora ho provato qualcosa di simile. No?!"
"No! No! Ti garantisco che avresti capito qualcosa di più!"
"Ma come puoi pretendere che le tue esperienze valgano per tutti. Ma vaffanculo. Mollami." Ma queste cose gliele avrei dovute urlare secche in faccia. E non restare zitto.
Chiudevo le imposte del bar, sbattendole, sperando di coprire le sue parole. In effetti, rispetto a quello che poteva aver provato Anastasia, io non avevo avuto nulla.
L'aria della notte intorno dormiva. Restava solo la sua voce a turbare quella quiete.
Ormai mi aveva dato la sua sentenza. Anche parlando tutta la notte, non avrei potuto cambiarla.
Forse se Ana avesse potuto raccontare la sua esperienza il maiale sarebbe stato zitto nelle sue cazzate.


Una sera, mi ricordo, ero entrato in cucina e avevo trovato quasi tutte le persone che lavoravano con me in sala intorno a sto coglione che guarniva una meringata con delle rose. Lui che accentuava tutti i suoi movimenti come se stesse scolpendo qualcosa.
Una merda. Davvero. Una scena pietosa con gli altri a guardarlo come se avesse prodotto un grande esempio di stile.
Era una merda la meringata, di quelle surgelate, una merda più grossa con quelle rose, infilategli dentro per il gambo. Senza manco lavarle.
Zero igiene. Come al solito.
Discutevano per i soldi da dare al "marocchino" da cui avevano preso, all'ultimo momento, i fiori.
C'era anche lui in quella cucina. Faceva caldo. Avevo fretta. Troppe cose da fare da prendere, da portare, da ricordarmi. Sudavo, nella mia camicia nera con la bandana in testa da pirata. Ma entrato mi ero ipnotizzato anch'io in quella scena. Del dolce e della sua farcitura non mi importava nulla. Piuttosto come mai il marocchino, che poi era un indiano, non era stato pagato subito, ed era ancora lì ad aspettare titubante?
"Quanto gli diamo?". Aveva chiesto quasi sommesso il tipo che pigliava le ordinazioni intorno alla pista da ballo.
Davanti a lui l'indiano con la mano tesa scuoteva il capo, spazientito. Ignorato.
"Non ora! Cazzo! Ma perché non sapete fare da voi ste cose .Shhhh!". Sbuffava il maiale. E si lamentava come un bambino.
"Dagli sei mila, e digli di non rompere!" Aveva tagliato brusco.
"Ma lui mi ha detto che ne vuole quindici!."
"Quindici?!". E si era girato direttamente verso il "marocchino".
"No! Tieni!". L'aveva investito, mettendogli dei soldi in mano e restituendogli parte delle rose.
"E tu qua non venire più!". Ed era tornato alla sua opera.
Io dietro che assistevo a quella scena. Tutti in primo piano. Penosa.
"Bravo, bravo. Che duro…coglione!". Scuotevo la testa, ma tutto rimaneva chiuso dentro me.
"Sì, fai il fico che la meringata è già guarnita! E pigliatela con chi non ti può dire nulla". Ma continuavo solo a pensare.
Mi pulsava la fronte dalle grida che gli avrei voluto tirare addosso.
"Mah! Poverino!". Mi ero lasciato uscire solo quello.
"Poverino? Ma poverino un cazzo! Io lo lascio entrare qua. Gli faccio un favore e lui non sa ricambiarmi." Mi aveva risposto incarognito il porco.
"Ma erano solo 15 mila"
"Sì, ma sai quanto le paga lui?"
"Sì, ma sai quanto la paghi tu la roba?"
Invece di dirlo avevo fatto "sì, sì" col capo.
"Senti, se uno mi vuol essere amico, deve sapermi ricambiare, se no qua non c'entra più!"
"Sì, va beh! Ma da non farlo più entrare! Ma a me non me ne frega un cazzo. Comportati come vuoi." Avevo preso i miei piatti, miei giusto per il tratto che mi separava dalla cucina ai ci clienti, ed ero tornato in sala.
La gente tranquilla, estranea a quanto fosse capitato per il loro dessert. Troppa confusione e troppi pensieri mi assillavano.
Non era vero che non me ne importava nulla.
E lui che voleva educarlo a comportarsi nella maniera corretta. Ma quella era solo la sua.
Voleva metterlo sotto, dimostrare in quello squallore di essere superiore agli altri.
Che bastardo. Il grosso re porco. Tutto mi si appressava davanti agli occhi. Davanti alle facce dei clienti e alle loro richieste. Quello era il giorno in cui non mi sarei assolutamente dovuto trattenere. Intanto andavo fra un tavolo e l'altro. Fra piatti da sparecchiare, pane da affettare, caffè, condimenti, pizze e birre da portare ai tavoli.
Li avrei dovuti guardare tutti dopo la sua scenata e dirgli cautamente pieno d'odio: "Bene! Visto come siete allora io me ne vado". Avrei dovuto levarmi quella cazzo di bandana col teschio da pirata, lasciargliela lì e dirgli: "Guarda che sta stronzata non attira i clienti, almeno il locale fosse a tema. Ci vediamo domani. Passo a prendere i soldi. Fatti i conti prima perchè mi vergogno a stare in un posto come questo."
Potevo davvero farlo. Avrei avuto in po' di casini per farmi pagare, ma potevo.
Il ragazzo indiano no! Era in uno stato a cui si poteva solo piegarsi a tutto.
E quell'ignorante, che si sentiva superiore e voleva rispetto, l'aveva capito e lo usava.
Per lui non era nulla, neanche un ricordo. Perché in fondo lui evidentemente quando stava per morire aveva visto qualcosa che gli aveva cambiato tutto. Valeva meno lui per terra che non una sua pizza.
Se no probabilmente quel ragazzo sorridente avrebbe lasciato cadere i suoi soldi, si sarebbe ripreso le rose, tirandole fuori una ad una dalla meringata e l'avrebbe guardato, come si fa per far capire ai bimbi che non si ci deve comportare così. Non va bene, non è bello. E senza fare casino l'avrebbe lasciato nella merda.
Sarebbe stato veramente bello. Ma ormai non era che una mia fantasia, mischiata alle parole della gente che mi stava attorno e parlava tranquilla, ignara. Tutto era ancora sepolto dal bujo.
Nulla era accaduto per i clienti , seduti così vicini a quella cucina. Nulla che potesse turbare le loro cene.
"Ma il rispetto non lo si chiede, lo si dimostra." Mi chiedevo che cazzo volesse dire una frase del genere. Dimostro che mi devi e come devi darmi rispetto. Forse proprio quello che il maiale mi aveva fatto vedere.
Per diecimila. Per diecimila lire l'aveva mandato via.
Ma la serata era andata avanti. Normalmente secondo i ritmi del lavoro. Ognuno con i suoi pensieri silenzioso a servire. Sorrisi finti ai clienti. Per gli altri intorno quella scena era come se non fosse mai avvenuta. Lui quando mi incrociava mi sorrideva, piegando la testa, quasi a dirmi: "Vuoi dirmi ancora qualcosa a riguardo di prima?"
Io non avevo saputo parlare. Mi facevo rubare i sentimenti dal lavoro.
Subito avevo creduto: " Ma guarda sto facciadimerda, ha già scordato tutto!"
Invece voleva provare se avevo il coraggio di dirgli qualcosa. Se mettevo in discussione che lui era il capo. Ma sto stronzo, sicuro, quella scena non l'avrebbe mai fatta davanti ad un tavolo dei suoi clienti. Mangiavano indifferenti a tutto quello che c'era stato . Inconsapevoli. Probabilmente proprio come lo ero stato io, nell'attimo in cui sorridevo, mentre Anastasia scivolava sull'asfalto.


Era un po' che non vedevo Anastasia. Quella notizia mi aveva investito. Non ricordo dove fossi stato per non averla più vista in quel periodo.
"Forse ero via?" Mi chiedevo. "No!" Tutt'altro. Da agosto ero di nuovo bloccato ad Imperia, e passavo l'ultimo periodo d'estate a lavorare. Ma in fondo non perdevo molto, tranne le solite serate. I soliti pomeriggi in piazzetta.
"C'ero. Eccome se c'ero." Evidentemente non ci stavo dentro.
Sì, da quando avevo iniziato a lavorare, i miei rapporti sociali si erano confusi e limitati. Avevo davvero poco tempo per stare in giro. La notte finivo tardi, verso le due. La città era completamente muta. Pigliavo i cornetti e le focaccine che erano avanzate e volevo, potevo solo andarmene a casa a rilassarmi nel letto, a leggere e mangiare. Mi accorgevo che quel poco che mi rimaneva lo passavo con quelli con cui normalmente già stavo di più.
Come un'inconscia selezione degli amici.
Avevo lentamente dimenticato gli altri.
Vendevo il mio tempo in cambio di soldi. Prostituivo le mie emozioni, rinunciandoci.
Ci pensavo spesso in quei giorni. Ero sempre in motorino, sempre di fretta. Quando uscivo prima di andare a lavorare avevo sempre poco tempo. Schizzavo da una parte all'altra.
Nel traffico, in ritardo, guardavo l'orologio. Pensavo a mia madre che ora era serena e non mi vedeva più come un apatico disoccupato senza alcuno stimolo e scopo. Magari ne parlava pure con altre signore per aumentare la sua tranquillità. Discorsi del tipo: "Ma sì cara! Lavora, si mette i soldi da parte, è più tranquillo." Magari la rassicurava un amica. "Lo capirà meglio quando potrà comprarsi la macchina che voleva. Allora vedrai che sarà più soddisfatto e felice, non preoccuparti."
Ma certo! Almeno quel tipo lì di cui stavano parlando, che non sono io, ha trovato un modo di sopravvivere. Solo dimentica piano le vecchie emozioni. Ora so come uno può accettare di uscire andare al cinema, sempre nello stesso pub: gli basta perché non è lavoro e può rilassarsi. Gli basta perché non ha più la forza di fare nulla la sera. Rinuncia a sé stesso, come se un enorme organismo psicosociale lo inglobasse. Nella mia città era fin troppo facile e rischioso ammalarsi di questo. Io non volevo scordare, e preferivo infantilmente continuare a sognare.
Non volevo che la mia mente si addormentasse, e si svegliasse senza aver sognato. Ogni notte la invitavo ad accompagnarmi nelle nostre passeggiate. Io e i miei amici eravamo all'opposto, così allo svacco che divertirci, non fare nulla, cazzeggiare, era la routine, andare in piazza lo sfogo, la tregua dal nostro lavoro cazzeggio. Per non farmi inglobare da Blob dovevo sbattermi. Fare cose. Levarmi da quel cazzeggio. Quel cazzeggio era Blob.
Io mi stavo lentamente risvegliando dalla distrazione in cui il lavoro mi aveva immerso, dal cazzeggio cui ero abituato. Non dovevo permettere alla stanchezza di chiudermi. Ero solo io a condizionarmi. Invece mi stavo facendo rapire, senza accorgermene.
Anastasia era come la mia sorellina. Io l'avevo scordata solo per il poco tempo libero. L'ultima volta che eravamo assieme stavamo passeggiando. Era tipo un mese prima, lei mi seguiva leggermente dietro. Mi ero voltato a salutare uno, e guardandola avevo pensato "Vorrei abbracciarla." E quando le ero andato incontro lei veniva verso me con un braccio disteso.


Eppure in quei giorni, in cui lavoravo, l'avevo persa.
Aveva passato undici ore senza capire nulla. Undici ore di dolore senza Dio e rivelazioni. Nella luce e nel bujo.
Undici ore di dolore, senza riuscire a pensare ad altro, se non al dolore. Forse senza neanche rivedere la sua vita nel classico flash back. Undici ore nelle quali i medici non ci capivano un cazzo.
Undici ore prima che si accorgessero della sua emorragia interna. Undici ore prima che le incidessero la pancia, recidendo i muscoli, e le asportassero interamente la milza.
Un ora sola, prima che il suo corpo morisse. In un momento in cui io sarei stato lontano, felice, ignaro. Senza sapere, senza sentire nulla.
Continuavo a pensare a dove fossi il giorno del suo incidente. Pensare a cosa stessi facendo. Magari ero a lavoro, che stavo stendendo monotonamente le tovaglie e i copri macchia. Chissà se in quell'attimo avevo avvertito qualcosa. Anche leggerissima, solo una sensazione di disagio o fastidio. Ma non riuscivo a ricordare.
Era come se volessi che il suo corpo, o la sua mente, in un momento così profondamente distruttivo si ricordassero di me. Ma non per chiedermi aiuto. Solo per potermi vedere, farsi sentire salutarmi prima di lasciarmi.
Assurdo.


Mi avevano detto che Anastasia si era sfracellata in motorino. Senza nessuna emozione.
Aveva avuto un frontale con un Porsche che aveva invaso la sua corsia, su per una delle tante troppo strette stradine intorno a casa sua.
Era scivolata veloce sull'asfalto. Lo scooter affianco a lei.
Si era rialzata, confusa. Voleva rimettersi in sella, andarsene via da sola.
Diceva di star bene. Aveva le braccia, il fianco e le gambe che le sanguinavano per le abrasioni. Barcollando aveva raccolto lenta il casco, facendo fatica ad afferrarlo. Nel chinarsi i capelli le erano scivolati sul viso.


I tipi della Porsche erano scesi. L'avevano soccorsa. Volevano portarla in ospedale. "No...No… Ho già avuto un altro incidente. Sto bene, sto bene." Le avevano subito prestato aiuto. Ma lei insisteva.
"Sto bene, sto bene" "No. Ti accompagniamo noi. Non preoccuparti. Vieni, andiamo in ospedale."


In ospedale. In quei giorni ero stato a trovare un amico in ospedale. Avevo salito quelle scale, poi le avevo scese. Avevo incontrato il mio amico C. poco prima che venisse ricoverato. Era davvero preoccupato. Era venuto in piazzetta, per salutarci. Aveva la faccia gonfia. Gli occhi velati di giallo. Soffriva di reni.
"Oh, ciao com'è?" Mi aveva salutato sorpreso di vedermi a Imperia.
"Mah! Sempre uguale. Sempre Imperia. E tu?!"
"E' un periodo davvero di merda, guarda!" E abbassando la testa l'aveva scossa leggermente. Quella frase penso che se la sarebbero sentiti tutti di dirla in piazzetta. Abbiamo sempre uno scazzo che unito ai cazzi ci tiene giù. Ma lui era sincero. Aveva la franchezza di chi avrebbe rifiutato volentieri di dire quella frase. Era sconsolato.
"Perché? Cosa ti è successo?" Anche se potevo immaginarlo dal suo aspetto non mi sentivo di chiedergli se fosse per i reni.
Era come dirgli "Ah! Sei ridotto una merda! Hai male hai reni? Vero!?"
Così mi aveva risposto "Ehh...è un periodo che non va tanto bene. Non sto per niente bene." Mi aveva detto quelle frasi con uno spiccato accento ligure, imperiese, che me le aveva fatte sentire ancor più lamentose.
"Ma come?! Non eri stato a Milano ed era andato tutto bene! No?!"
"Si però... ora non va per niente bene." Sorrideva forzato. "E così probabilmente devono mettermi in osservazione." Restavo in silenzio quando mi si dicevano cose così direttamente. Non sapevo cosa dire. Mi venivano su tanti pensieri. fissavo il vuoto. Stavo ancora zitto. Ero seduto sui gradini.
C. mi aveva toccato il ginocchio senza chinarsi e mi aveva detto "Vado a fare un giro. Guardo se c'è qualcuno. Ci vediamo dopo." C'eravamo rivisti alcuni giorni dopo in ospedale. Reparto di nefrologia. Ero passato davanti al reparto di Anastasia senza sapere che si trovasse là.


Un mesetto prima aveva avuto un altro incidente, sempre in motorino, con una sua amica danese dietro. Si erano infilate con una ruota nel canaletto fra la corsia e il muro. Non si erano fatte male. Non tanto, ma il motorino si era distrutto.
Così si era trovava di nuovo ad alzarsi col motorino scassato. Anche lei era scassata stavolta. "No..No..Sto bene. Davvero grazie."
"Ma no! Aspetta, stai ferma ti portiamo in ospedale!"
"No, non c'è problema." Aveva barcollato verso il motorino. Poi era caduta. Senza sensi. I capelli le erano scivolati sul viso.


I capelli mi scivolano sul viso. Mi passa le mani veloci in mezzo a sparpagliarmeli. Ho caldo. Me li taglia e mi si appiccicano sul collo sudato. Fa ancora caldo anche se è settembre inoltrato. La stagione è finita e io non lavoro più.
"Finito!" Mi dice passandomi la mano fra i capelli.
Ho tenuto gli occhi chiusi mentre me li tagliava, lasciandomi spostare la testa. In silenzio, ripensando a come erano andate le cose negli ultimi due mesi. Anastasia è appena uscita dall'ospedale. Ha bisogno ancora di alcuni giorni per rimettersi.


C'eravamo dati appuntamento la prima volta che era uscita, appena dimessa. Io la chiamavo 'Nasty. Era l'abbreviativo danese del suo nome. Ero in ritardo. Al solito. Mentre parcheggiavo il motorino in piazzetta me l'ero vista venire incontro. Lenta, zoppicando come se non lo facesse per i piedi o le gambe. Si teneva un fianco e stava tutta piegata da quella parte. Le avevano asportato totalmente la milza. Trentanove punti.


Ora se ne stava tranquilla. In piedi dietro a me a tagliarmi i capelli. Nel frattempo io avevo guardavo fuori dalla finestra, fisso, gli ulivi coperti dal sole e dal caldo, vedendoci proiettato su un filmino di tutto quello che era successo. E che non sapevo fosse successo.
"Ma hai visto una luce?"
"No."
"Ma mentre eri svenuta?"
"No."
"E mentre ti operavano? Almeno quella della sala?"
"No. Perchè?"
"Niente. Così. Non ha importanza. Ho parlato con una persona che ti direbbe che non sei stata vicino alla morte. Che non hai capito nulla."


Un racconto sulle piccole cose che possiamo scordare, ma che ci fanno stare bene e vivere. Senza entrare ed essere assorbiti, e appartenere a schemi chiusi.


NOTE
(1) Colui che cerca di convincerti, o intortarti coi propri discorsi. Sostanzialmente una persona fastidiosa.



Danzio Bonavia OPM (Imperia, 1978) è studente alla facoltà di Letterature e Culture Comparate di Torino. Ha vinto alcuni concorsi letterari, e pubblicato racconti e poesie su siti e riviste italiane (Sagarana, Prospektiva e altre).
Nel 1998, insieme a D. Danio e V. Patti, crea il gruppo di scrittura Opiemme Poesie, con l'obiettivo di avvicinare un pubblico giovane alla lettura della poesia, attraverso la sua innovazione, mediante il ricorso a diversi codici di comunicazione (pittura, web design, aerosol art, musica, grafica, fotografia, animazione video).
Con l'OPM ha partecipato a vari spettacoli di musica e poesia. Durante i readings le letture sono di volta in volta accompagnate dall'improvvisazione di band con diverse attitudini musicali, o da basi pre-campionate. Alcuni di queste "poesie da ascoltare" si possono trovare sulle pagine di www.voices.it. Contatto: danziopm@yahoo.com






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