LA
PREGHIERA DEGLI ALTRI
Amor
Dekhis
Se
mia madre si fosse imbattuta in me mentre facevo i gesti dei cristiani
in una messa, avrebbe perso ogni lucidezza e probabilmente si
sarebbe beccata un bell'infarto. Non sarebbe riuscita a immaginarsi
un mio tradimento nei confronti della sua educazione a me impartita,
né l'abbandono della mia religione e l'eventuale conversione
a un'altra. E visto che la mia missione consisteva solo nell'ottenere
il titolo di studio, non avrebbe fatto che giudicarmi matto, perché
non avevo mai badato alla mia, e mentre invece seguivo "la
preghiera degli altri". In quel giorno in cui mi alzavo e
mi sedevo seguendo gli ordini dell'imam cristiano, la decisione
di imitare tali mosse, mi fu dettata, con convinzione, dalla mia
propria riflessione: stavo soltanto rendendo omaggio al signor
Cappelli. Poiché il Profeta Mohammed disse: la riflessione
di un'ora vale più dell'adorazione di mille anni. Ed
io riflettevo ogni giorno, ciò era la mia fede. Che fossi
in un altro paese, era una ragione in più. In tanto pero'
nessuna giustificazione avrebbe fatto fronte alla sentenza di
mia madre che, all'istante e per sempre, mi avrebbe dichiarato
figlio rinnegato.
Ma ormai eravamo divisi dalla lontananza, dal tempo; e dalla mia
partenza l'avevo vista poche volte. Al momento della preghiera
degli altri, i propositi di rinnegamento non erano presenti in
mente.
Deciso di voler trovare un altro posto per la mia vita, dovevo
preparare il mio cervello soprattutto a essere aperto quanto a
essere pronto io a cavarmela con lo studio, e se necessario
con un piccolo lavoro, nel caso la borsa che lo Stato mi offriva,
si rivelasse insufficiente. Dovevo essere consapevole che il sacrificio
avrebbe costituito elemento fondamentale nel mio comportamento.
Una volta a destinazione, la proclamazione della rivoluzione al
mio cervello, si sarebbe tradotta in atti concreti.
Nelle settimane che precedevano la mia partenza, vissi un conflitto
nella mia mente. Da una parte, di fronte a una tale impresa che
affrontavo per la prima volta, e che non ero sicuro di riuscire
a portare a termine, l'incertezza mi dava una sensazione d'angoscia.
Dall'altra, una curiosità piena di fascino, una carica
dentro di me, mi dava coraggio e mi spingeva ad affrettare i tempi.
Il paese di destinazione era l'Italia, e mi informai abbondantemente
presso le rappresentanze diplomatiche e culturali relative, nella
capitale Algeri. Oltre all'Ambasciata per ragioni burocratiche,
presi a frequentare anche l'Istituto di Cultura Italiana. La principale
attività di quest'istituzione consisteva a impartire la
lingua italiana a vari livelli, ma io mi limitavo a curiosare
dietro i dépliants, o vedere qualche film che documentava
le caratteristiche del "Bel paese". Feci conoscenza
con il personale. Colui che si occupava degli affari culturali
presso il consolato e quindi degli studenti in cerca del visto,
lo incontravo spesso all'Istituto. Aveva una Cinquecento, che
mi sembrava tanto piccola, e scherzando, gli chiesi se fosse un
giocattolo di suo figlio; da quella volta egli la chiamava "il
giocattolo", quando ne parlava. Nel frequentare quell'ambiente,
il mio desiderio di partire cresceva ulteriormente. In coordinazione
delle due istituzioni, ottenni l'iscrizione accademica a Firenze.
Nel complesso a casa mia non ebbi incoraggiamenti. La famiglia
mostrava una certa indifferenza alla mia impresa, giudicandola
inutile. Mia madre che soprattutto voleva tenermi vicino, cercava
di impedirne la realizzazione.
- I paesi degli altri ti infliggono la loro maledizione. Ricordati
che lo straniero è come un tambur di un'orchestra, tutte
le botte del chiasso gli finiscono addosso.
Probabilmente mia madre immaginava l'estero come una superficie
ruvida e me come un fiammifero che, al primo attrito, poteva incendiarsi.
Traduceva la sua contrarietà al mio progetto in consigli
benevoli. Ma ormai era inutile che cercasse di soffocarmi l'idea,
perché ero determinato a proseguire. Forse esagerai quando
risposi con pochi apprezzamenti ritenendo incolta lei, e saliva
persa i suoi consigli.
- Mamma, tieni conto che i tempi sono cambiati, ormai siamo in
un mondo piccolo. Piccolo come un paesino ai tempi del bisnonno.
I nostri ragionamenti su questo tema parevano svolgersi in due
secoli diversi, mia madre non avendo in testa quello presente
in cui gli aerei hanno ridotto all'irrilevanza l'ostilità
dei confini e hanno rimpiccolito la sfera terrestre. Non solo
poi l'aereo; la radio, il telefono, la televisione, il computer,
mezzi efficaci, dovrebbero consolidare la speranza di coloro che
aspirano alla vicinanza nelle mentalità e la pace fra i
popoli. E a lei questi argomenti erano estranei.
- L'isolamento del passato,- le dicevo,- ha fatto sì che
si differenziassero le caratteristiche di ogni zona su questa
Terra, si moltiplicassero i linguaggi, e si creassero delle religioni
proprie. L'isolamento porta alla spaccatura, alle nemicizie...
Da molti punti di vista, e soprattutto avendo fatto degli studi,
ero convinto che la mia visione sul mondo e sulla vita, aveva
più lucidità rispetto a quella sua. Con i suoi interventi
rivolti a convincermi, a ripensarci sulla mia idea, non faceva
che confermare la sua qualità di analfabeta. Ormai avevano
influenza scarsa sull'andamento delle cose e costituivano semplici
detti che, tutt'al più, si erano verificati nel passato.
Con poco impegno, ne contestavo il contenuto. Ma lei è
un genitore, un elemento sacro e straordinario per la persona,
che non si può deludere; così per il rispetto materno,
non esitavo di trattarla bene e soltanto bene. Tanto più
che le cose che diceva, non mancavano di ricchezza. Talvolta ci
rimanevo tanto stupito, che non potevo disconoscere un certo valore
culturale. Capendo le sue preoccupazioni, le avrei voluto dare
un aiuto, senza pero' annullare naturalmente le mie intenzioni.
L'unica via che mi rimaneva era di sdrammatizzare tali preoccupazioni,
prendevo il fatto dal punto di vista ironico.
La battaglia che aveva condotto mia madre, era destinata al fallimento.
Quando giunse il momento, da credente e rassegnata a tale esito,
ella pregò Dio di occuparsi della mia protezione.
- Allora non c'è bisogno che tu ti preoccupi, Dio ci pensa.
Al nome di Allah, e ho creduto in Allah, e conto su Allah...
Alla vigilia della partenza, mi insegnò i cinque versi
che avrei dovuto recitare al momento di uscire dalla porta di
casa. Secondo lei, recitandoli - poiché in questa maniera
uno si rivolge a Dio, e lui lo ascolta - questi versi mi proteggevano
finché non sarei ritornato a casa. Io che ero giovane,
sano e con un po' di senso del rischio, credevo solo nelle cose
che vedevo, che toccavo, qualche disprezzo provavo verso le cose
inconcrete.
- E se non lo faccio?
- Non dire così, non dire così!
Mia madre si stava arrabbiando, ed io, per non portarla a tal
punto, tagliai corto. La ascoltai a tutt'orecchio.
- Quando avrai concluso queste parole di Dio, il primo passo lo
devi fare con il piede destro.
Finii per imparare a memoria i versi, e promisi di recitarli prima
di uscire di casa la mattina successiva, anche se non ero del
tutto convinto di poter applicare alla lettera la medesima raccomandazione.
Ma la notte a letto, il sonno mi abbandonò improvvisamente
e tutte le immagini variopinte del viaggio giravano nella mia
mente emozionata. Talvolta mi sembrava tinto di rosa, quel mondo
che avrei raggiunto il giorno dopo, ma il pessimismo di mia madre
contribuì a crearmi pensieri cupi circa le difficoltà
che avrei incontrato. Rievocando le mie conoscenze acquisite negli
ultimi tempi, circa l'organizzazione sociale, e il livello culturale
che lì regnava, le preoccupazioni che diventavano anche
mie, si riducevano ai problemi di ordinaria vita. Intanto, a tratti
regolari, mi ritornava a ronzare negli orecchi, al nome di
Allah, e ho creduto in Allah, e conto su Allah, niente possibilità,
niente forza senza la volontà di Allah, il più Alto
ed il più Grande. Ed io, che altrettanto recitavo, divenni
sempre più serio a mantenere la mia promessa. La notte
si allungava ed il mio sonno si scordava che io avrei dovuto essere
in forma per affrontare il viaggio; la stanchezza lo vinse solo
agli sgoccioli delle ultime ore, e ne dormii appena tre.
Non era così facile pensare a recitare nella confusione
di tutti i membri della famiglia che si precipitarono a salutarmi,
la mattina. All'ultimo momento, mia madre mi allontanò
dalla mischia, mi voleva dire ancora qualcosa.
- Mi raccomando, non dimenticarci! Mandaci una lettera almeno
ogni mese, non dimenticare la tua famiglia, il tuo paese, e soprattutto
la tua religione.
Avrebbe potuto continuare a darmi raccomandazioni illimitate,
che da quando era al corrente della mia intenzione, aveva già
ripetute per una quantità irragionevole di volte. Mi distrassi
un po'. E riprendendo, cercai con tutti i mezzi di evitare ogni
disordine alla mia uscita non solo per essere in sintonia della
promessa, ma anche perché adesso ne sentivo proprio il
bisogno. Salutati tutti, ebbi la totale lucidità di scegliere
il momento conveniente.
- Al nome di Allah, e ho creduto in Allah, e conto su Allah...
recitai a voce scarsa, e lanciai il piede destro fuori l'uscio.
L'operazione venne realizzata alla lettera, e ne ebbi un sollievo
di soddisfazione. Ormai giunse il momento in cui avrei lasciato
per lungo tempo un pezzo di me, la mia famiglia, gli amici, i
vicini e tutto il mio paese. Fu un elemento nuovo, denso, a insediare
la mia mente, ma già nel mezzo del viaggio scomparve.
Raggiunta la destinazione, anche ciò che mia madre mi aveva
raccomandato, mi rimase solo un ricordo affettuoso. E l'immagine
con la quale ella inquadrava l'estero, la scartai presto dalla
testa. Nei primi anni non mi coinvolsi nel determinare le differenze
legate alle mentalità. Tante cose da vedere non mi permettevano
di approfondire questa ricerca. Vedevo la mia presenza dal lato
pratico, per condurre la mia vita con facilità, e basta.
Con tale ottica, fra il mio paese e quello "ospitale",
non avvertii una grande differenza, se non al livello materiale:
lo sviluppo economico, l'ordine nelle città, la ricchezza
delle persone, e i prezzi alti che non potevo toccare. Osservai
invece fin dall'inizio che gli italiani parlavano abbastanza e
spesso ad alta voce. In genere, insieme a qualche compaesano,
sull'autobus o in un locale, facevamo come si usa da noi, la conversazione,
che non doveva superare l'udito della nostra cerchia. Adattarsi
al modo locale, con il quale ci scontravamo ogni giorno, era un
po' penoso.
- Tanto vale metterci a parlare anche noi ad alta voce, dissi
una volta.
- Io veramente non ce la faccio, cioè non oso.
- Ma quando non c'è niente da nascondere...
Mi chiesi se fosse proprio una caratteristica degli italiani,
o se fossi io che appartenevo a un popolo così laconico,
avaro con le parole, e mi misi a rifletterci sopra. Mi posi altre
domande un po' più profonde; forse non dovevo andare soltanto
dietro le cose concrete, pensai senza impegno su queste considerazioni
complesse. Del resto la ragione della mia presenza era lo studio,
al cui termine avrei di certo preso il via del ritorno.
Invece non ritornai. Dopo due anni di alloggi precari tra pensioni,
camere divise e qualche mese in una tenda al campeggio, ebbi la
fortuna di trovare una casa dove rimasi a lungo. Il che mi permise
di terminare lo studio con più agio e soprattutto di vivere
nell'ambito di un vicinato, e con il tempo giunsi perfino a scambiare
piccoli regali o essere invitato a cena da qualcuno.
La signora Fossi mi trattò come un figliolo fin dai primi
tempi. Iniziò in occasione della Pasqua, quando da lei
ricevetti una bottiglia di spumante e una pizza fatta in casa.
Mi raccontò dei tratti della sua vita, della sua bravura
nel campo della sartoria, di cui andava molto fiera.
- Pure il Marchese si fece fare gli abiti da me!
Ricordo con grande affetto il povero signor Cappelli così
loquace, all'italiana. Quando lo incontravo per le scale, nasceva
sempre un discorso di almeno venti minuti; ci scambiavamo opinioni,
informazioni e, perché no, anche battute di carattere leggero.
Era piacevole incontrarlo per le scale, anche se delle volte non
era conveniente, soprattutto se si aveva da fare o ci si apprestava
a prendere l'autobus. La signora Fossi abitava un piano sopra
di me, da molti anni viveva sola ed ogni domenica andava a visitare
la tomba di suo marito. Mentre un piano sotto di me, abitava il
signor Cappelli, insieme a sua moglie, e i figli stavano in una
altra zona. Tutti e due mi chiedevano spesso se mi trovassi bene
a Firenze.
Le mie limitate constatazioni dell'inizio sul lato materiale,
si estesero ai comportamenti sociali e culturali, rapporti che
legano l'uno l'altro e l'individuo con la società. Apparentemente,
anche qui non trovavo una grande differenza rispetto all'idea
che avevo della mia gente. Ma certe sottigliezze, naturalmente,
approfondendo l'argomento, se ne potevano cavare di qua e di là.
I miei incroci con il signor Cappelli per le scale, si moltiplicavano.
Invece la signora Fossi, che invecchiava adesso più velocemente,
la vedevo poco; tuttavia la sentivo spesso ripetere con voce ancora
vigorosa, a qualcuno che suonava il campanello, "chi è,
chi è?"
Quando andavo a trovarla mi trattava con cuore; si precipitava
sempre a fare il caffè, anche se lo rifiutavo per evitarle
fastidi.
- Lo vuoi corretto? Un pochinino di liquore, lo vuoi, il liquore?-
Ella pensava al mio piacere. - Te, l'alcol, lo bevi? Mi chiedeva.
Lei che è cattolica praticante, dall'alcol, passava subito
alle domande sulla mia religione. Mi chiedeva per l'ennesima volta
se ero maomettano.
- Sì, sono musulmano.
Era alquanto curiosa di saperne qualcosa. Ma trattare la religione
non era mai stato il mio forte. E le basi della mia vita erano
ben altre. Tuttavia ne raccontai quel che sapevo.
- Sai che non è come la pensavo, la vostra. Ma allora è
quasi uguale alla nostra.
Rispondevo annuendo, reticente; in verità avrei voluto
dire che le persone sono uguali nei sentimenti, nei dolori, nelle
gioie. Ma visto che, piuttosto che discutere su Dio e il mondo,
con la mia visita volevo solo informarmi sulla sua salute, la
mia incapacità di fornire risposte esaurienti, mi costringeva
a rimanere piuttosto in superficie, tanto che lei passava da un
argomento all'altro, come al solito.
Fu merito delle scale e dei pianerottoli che conobbi la maggior
parte del vicinato, i loro nomi, come erano composte le famiglie,
le loro provenienze, spesso toscane, dove stavano i loro parenti;
assistetti alla crescita dei bambini, dalla prima infanzia all'adolescenza.
I miei rapporti crescevano oltre il vicinato, scendevano in quartiere,
nei bar, nei negozi e nelle numerose officine. Le facce a forza
di incontrarle ripetutamente, acquistavano tratti familiari, e
non mi ricordo più quando e come conobbi l'una o l'altra.
Ci si salutava sempre, scambiando le battute. Molti degli avvenimenti
che riguardavano gli altri, riguardavano anche me.
Spesso la signora Fossi costituiva il motivo principale di incontri.
Giunta ad una vecchiaia poco controllabile, di tanto in tanto
combinava qualcosa che richiedeva aiuto. La prima volta, essendo
distratta dall'impegno di spostare un armadietto nel corridoio
la cui posizione non le piaceva, ella finì per scontrarsi
con la porta, e cadendo, si ferì alla gamba. Perse molto
sangue macchiando una grande parte del pavimento. Di seguito ci
trovammo ammassati in molti per darle una mano: chi chiamò
l'ambulanza, chi pulì il pavimento, mentre lei, dopo lo
choc iniziale, stava a letto con la gamba allungata e sparava
battute lo stesso divertenti. Mostrava un coraggio ammirevole,
e, dopo che fu effettuato il controllo dai medici e ripartita
l'ambulanza, non si curò più tanto della propria
gamba, quanto sentì il bisogno di informarsi sui presenti.
Seduto al capezzale, il signor Cappelli, che era molto più
giovane di lei, la trattò come una piccola.
- Non ascolta mai,- disse, dandole dei colpetti affettuosi al
capo.- Come devo fare con te? Ti ho sempre detto di non occuparti
delle cose troppo pesanti per te, l'armadio non è un compito
tuo. Questa qua, l'è tremenda, non vuole ascoltare i miei
consigli!
Lei non gli dava retta, saltava da una domanda all'altra, a cambiare
ed evocare discorsi, a raccontare faccende della sua gioventù,
del suo lavoro da sarta. Ora si lamentava di averci provocato
disagi correndo a scusarsi con frasi eleganti, ora senza accorgersi,
affermava con vivo accento, il suo interesse per l'incontro. In
quella confusione, con tutta la gente intenta a occuparsi di lei,
la signora Fossi si trovava bene; ella propose di fare il caffè
per tutti. Ma il caffè non si fece, perché ci si
perse nelle chiacchiere.
Quell'occasione diede inizio ad un ciclo di sventure per l'anziana;
la sua gamba non guariva, era sempre tenuta fasciata. Un'infermiera
doveva passare a vederla ogni giorno. A più riprese venne
ricoverata all'ospedale. A casa di tanto in tanto, provocava comunque
dei piccoli incidenti. Dopo quella persistente ferita, seguirono
un incendio nella cucina, poi lo scoppio della lavatrice che inondò
la casa.
Se gli incidenti della signora Fossi facevano radunare gli inquilini
del palazzo, e comportavano nella maggior parte del tempo un pizzico
di divertimento, nessuno si aspettava, che un giorno, incontrarsi
con la sorte più triste sarebbe toccata al signor Cappelli.
L'annuncio della sua morte provocò rammarico in tutte le
anime. La sua passeggiata in biciclette nei dintorni del quartiere,
fu fatale. Venne investito da una grossa macchina, ed ucciso sul
colpo. A sentire la brutta notizia sulle scale dove con lui avevo
scambiato un'enormità di conversazioni, rimasi paralizzato.
Per realizzare l'accaduto, dovetti alquanto sforzarmi.
La messa funebre si doveva svolgere nella chiesa del quartiere.
Io non volevo mancare. Di un umore fosco, entrai esitante. La
chiesa era piena. Oltre ai vicini del palazzo e quelli che svolgevano
attività nel quartiere, vi si era radunata molta gente
che non conoscevo né di vista né di nome. Fu la
prima volta che assistetti a una celebrazione del genere, in un
luogo sacro diverso da quello della mia fede di nascita. Non provai
nessun turbamento per questo. Mi misi nell'ultima fila della navata
laterale. Il discorso del prete era già iniziato. Conoscevo
tutti i termini della predica ma non riuscii a concepirne il contenuto
fino in fondo. Una strana sensazione non mi dava tregua. Intravidi
la signora Cappelli con i parenti seduti in prima fila; solo la
bara del defunto coperta di fiori e nastri dorati, li separava
dal prete. Questi, dopo un lungo intervento, invitò la
comunità ad alzarsi a più riprese. Io feci altrettanto.
Partecipavo alla preghiera senza rendermi conto di non essere
uno di loro: dimenticai per un istante le mie origini. Di fronte
alla salma del signor Cappelli, penso che sia stato il miglior
omaggio da rendere alla sua persona. L'avvicinamento agli altri
elimina molti pregiudizi. Al mio posto, mia madre non avrebbe
fatto la stessa cosa? In conclusione, si fece il saluto ai familiari
del defunto. Seguii gli altri che, con calma, dicevano qualcosa
alla vedova Cappelli. Io feci altrettanto; spontaneamente mi vennero
delle parole di conforto. A quel punto percepii a fondo ciò
che volevo dire alla signora Fossi: che ad essere uguali sono
i sentimenti degli uomini, non le religioni.
Cominciai a confondere le somiglianze fra le persone. Mia madre,
mio padre, i vicini di casa mia da una parte, il signor Cappelli,
la signora Fossi, ed altre conoscenze dall'altra, non costituivano
due lati distinti, ma per me si sostituivano. La rivoluzione al
mio cervello, progettata in Algeria, non richiedeva sforzi ingenti.
Dovevo solo capire i gesti nel loro significato autentico, senza
interpretazioni estranee. Ovviamente non ero soggetto di conversione
ad un'altra religione. Credevo in qualcosa, in cose modeste, quelle
che non hanno confini né di spazio né di fede, valide
qua e là, che mi inserissero senza aver perso un pezzo
di me stesso, tra quella gente modesta e umile, che si addolora
che si emoziona, che prova gioia, come la mia.
Amor
Dekhis, nato a Babor (Algeria), il 22/09/1956. Il racconto
La preghiera degli altri è stato scritto originalmente
in lingua italiana.
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