LA SIGNORA GUILHERMINA, MIA MADRE

São Moniz Gouveia


Quando tornava dal medico o dalla messa, la signora Guilhermina si fermava a casa nostra. Quei tragitti la stancavano molto, e siccome la nostra casa azzurra si trovava a mezza via, si fermava sempre all'altezza del nostro cancello a chiamarmi. Mi ricordo di un pomeriggio di sole. Una florida siepe di eriche circondava la casa e le acacie rinverdivano contro il cielo chiaro. La signora Guilhermina portava intorno alla testa un fazzoletto castano con fiorellini color d'arancio che contrastavano con la stanchezza delle sue rughe. Ogni suo vestito era vecchio, tante volte rimodellato secondo le mode da mia madre in cambio di pochi scudi.
Quel pomeriggio la feci sedere nel cortile, presso la porta della cucina. Le preparai una cioccolata calda che lei bevve a piccoli sorsi rumorosi, alternati alla respirazione ansimante. Il medico le aveva diagnosticato un cancro al colon che avrebbe dovuto essere operato. Per giunta era sempre stata diabetica. Ma aveva paura di morire. Le costava fatica soltanto pensare all'idea. Non le usciva dalla testa. Quando il signor Adelino mancò, già allora si prese molta paura. Ma si attaccava a Dio. Solo che ora avvertiva un dolore al cuore. Pensava che fosse arrivato il suo turno. Aveva timore di addormentarsi in quella sua casetta lungo la strada. In inverno, quando mancava la luce e lei non sapeva bene cosa fare, senza nessuno che le fosse caro. Morire, morire era quel che piú la spaventava.
A quel tempo io leggevo La vita dopo la vita e pensavo che avrei potuto aiutarla citandole alcune parti del libro e descrivendole tutte le esperienze che consideravo "celestiali". La signora Guilhermina non piangeva piú. Restò muta e io la sentivo ansimare, aprire la cassetta di tabacco e aspirare quella polverina gialla che non si capiva bene a cosa servisse. Il problema è João. Se io muoio chi si occuperà di lui. Ho mia figlia sposata che di tanto in tanto viene a trovarmi. E il poveretto non riesce a far niente senza di me. Le assicurai, con l'esperienza e la vasta cultura che può avere una tredicenne, che sua figlia si sarebbe occupata di João. Lei aveva un pessimo carattere, ma non avrebbe certo rifiutato di prenderselo in casa. Quando sarebbe stato necessario, lo avrebbe ricoverato da qualche parte, come purtroppo era già accaduto spesso, aggiunsi io. La signora Guilhermina aveva bisogno di parlare. Generalmente tutte le persone che mi stavano intorno assumevano prima o poi ai miei occhi i contorni di casi esemplari per la psicoanalisi. Era l'arroganza dei miei tredici anni. Consideravo ogni persona come un esperimento scientifico, senza distinzioni, ogni conoscenza era buona per un'applicazione della psicologia clinica. Una delle cause responsabili di quella fissa era certamente il sapone azzurro che mia madre comprava in drogheria. Un'altra era poi il vecchio foglio di giornale con un articolo su Freud e la psicanalisi, in cui il sapone era avvolto. Ma lo giuro, la paura di morire della signora Guilhermina mi dava davvero i brividi, insieme alla povertà in cui viveva, e a quel suo cane che beveva solo caffé.
Ogni volta che la andavo a trovare sentivo i suoi latrati, lo trovavo tutte le volte piú magro della precedente, tutte le volte più triste. La signora Guilhermina non sapeva prendersi cura del cane, né di nessun altro animale. Aveva delle galline bizzarre, col pennacchio e il collo spennati. Stranezze in cattività. E mi pareva una crudeltà la vista del pesce rosso incastrato in un barattolo di caramelle. Il pesce ogni volta era più grosso e il barattolo sempre piú piccolo.
João era un altro ostaggio. Un povero disgraziato che tutti chiamavano cretino. Io lo trovavo interessantissimo e molto bello. Lui viveva in un altro mondo, vedeva cose che nessun'altro poteva vedere. Si inginocchiava davanti alle acacie perché qualcuno lassú gli ingiungeva di farlo. Non sapeva far di conto, la madre aveva deciso di non mandarlo nemmeno alla scuola elementare. Scompariva alla vista quando uno meno se l'aspettava. Si nutriva d'aria e di latte. La signora Guilhermina gli scaldava ancora il biberon, attaccato al quale si addormentava come da bambino. João aveva ventiquattro anni. Decisi di innamorarmi di lui. Era il mio miglior caso di psicanalisi, e in futuro avrei potuto analizzarlo dovutamente. Bastava solo crescere. Perché ero una ragazzina senza seno e le mie gambe assomigliavano a due brevi scope a locomozione autonoma, lui non mi avrebbe mai considerato come potenziale fidanzata. Quando veniva a passeggiare dalle parti di Santo ci sedevamo al cancello della nostra casa azzurra. Osservavamo le macchine che passavano. A volte si inclinava verso di me fissandomi negli occhi, e io mi spaventavo. Solo alcuni anni piú tardi compresi perché si inclinava cosí.
Un giorno mi raccontò di aver visto vicino alla nostra casa due bambine molto piccole, non piú alte di un fiore, vestite splendidamente, sembravano principessine. Una aveva in mano una pera, l'altra un'ostia. Fuggivano da qualcuno. Subito dopo vide uno stallone. Erano cosí piccole, le bambine, che facevano fatica ad attraversare la strada, lui aveva paura delle macchine che passavano. Ma loro camminavano come se le macchine non esistessero. Lo stallone si avvicinava. Era nero come fosse stato di velluto pulito, brillante. Correva dietro alle bambine in mezzo alla nebbia che si addensava. In groppa allo stallone apparve una donna. Adulta, vestita di nero, anche lei splendente di oscurità. Lo stallone cominciò a rampare nell'aria, all'altezza dei suoi piedi, di fronte a lui. Il mantello della donna gli sfiorava il viso. Freddo e umido. La donna cominciò a crescere, a dilatarsi fino a raggiungere l'altezza di João, e spiccò il volo, volò oltre le nuvole fino a scomparire nella sera. Le bambine si erano dissipate tra le corone di Arrigo...

Dopo quel giorno non vidi piú la signora Guilhermina. Una sera udii dei passi venire da fuori. Dalla finestra intuii il silenzio brutale e pesante dei funerali. Passava della gente, una folla enorme vestita di nero, tutti i parenti della signora Guilhermina al seguito del carro funebre. João marciava nel mezzo. Sorrideva. Mi accennò un bacio proprio li nel mezzo di tutta quella folla. Tutti passavano e nessuno parlava. Esalavano un odore di naftalina e riverenza. La signora Guilhermina era morta in ospedale. Tutti i parenti la accompagnavano alla sepoltura. L'eternità acquistava la forma di una cassa da morto, e lo sguardo di quella gente metteva a disagio. Era uno sguardo sgradevole che ingoiava tutti i sorrisi e incuteva intorno una lugubre tristezza.
Avrei voluto offrirle un sogno di morte diverso da quello che lei aveva vissuto come un incubo. Se mi fosse riuscito ora lei starebbe certo attraversando un tunnel luminoso, per incontrarsi con gli angeli e sorbire una tazza di cioccolata col signor Adelino. I loro letti ora resteranno vuoti. La casa silenziosa. Il candelabro sul comodino che si era spento improvvisamente in quella notte tempestosa, e si era acceso quando poi lei aveva chiesto a Dio che le desse un segno, ora si sarebbe definitivamente riacceso per il suo arrivo in cielo. La strada in quel momento era un unico scalpiccìo, passi di scarpe lucide e incerate. Sparirono tutti dietro la curva. Le centinaia di passi, la signora Guilhermina e tutte le macchine che seguivano il corteo. Mi segnai e mi infilai a letto tremante di freddo. La morte contempla tutti i disagi. La morte obbliga a rispettare chi se ne va. La morte perpetua l'agonia di chi resta. Lascia tutte le questioni aperte. Lascia tutti i gesti senza significato. Saccheggia tutti gli obiettivi. La signora Guilhermina mi aveva lasciato molte domande da porle.
Passate alcune settimane già non pensavo piú a João. Pensare a lui era come pensare alla madre in decomposizione e non riuscire a vedere piú niente al di fuori del corteo funebre. Decisi di innamorarmi dell'intellettuale della nostra classe. Ero in una fase di osservazione. Attraverso testimoninze minuziose di mia sorella maggiore e non solo dalle sue testimonianze, ma anche attraverso l'analisi dei suoi sintomi e l'osservazione attenta dei comportamenti anomali, conclusi che una persona innamorata ripeteva il nome del suo amato e avvertiva il bisogno ricorrente di trascriverlo dappertutto, nonché di accrescere il proprio nome col futuro cognome da sposata; l'innamorata conosceva inoltre del suo amato l'età, la professione, il segno zodiacale, lo stato civile e i gesti tipici. In piú rideva molto, risate sonanti quando si parlava di lui. E arrossiva. Cosa che a me ancora non riusciva, seppure mi esercitassi. Mettersi a correre spesso verso casa contribuiva parecchio a creare l'effetto "imbarazzo generale", una stupidaggine dietro l'altra. João non sapeva leggere. Perciò non aveva senso scrivere il suo nome. Come concretizzare il nome di una persona che non sa leggere? Se anche avessi scritto il suo nome sul muro di casa, come avrebbe potuto comprendere il valore della mia passione? João si andava trasformando in una parvenza di idiota, con in una mano il biberon e nell'altra dei fiori. Ma io lo amavo. Amavo la sua vulnerabilità, le sue visioni, la tenerezza dei piccoli gesti e la sua pazzia. La signora Guilhermina, diceva, è mia madre. Signora, Guilhermina, mia madre. Mia madre. Sento ancora la sua voce, quando diceva mia madre. E la abbracciava teneramente, per sempre, come lui diceva. Nell'Apocalisse solo l'Agnello poteva leggere il libro. João diceva che Dio gli spiegava tutto da un libro enorme, vagando tra le stelle, prendendolo per mano.
Tre anni dopo la morte della signora Guilhermina, João ritornò a casa. Era restato ricoverato per molti mesi. Ora però avrebbe vissuto da solo. Fatima compariva solo per rimproverarlo, o per parlare della madre, e lo costringeva a fare cose bizzarre. João non aveva bisogno di cucinare. Scaldava il latte e via. Tutto fatto. Quando passava da me, mi dava un buon giorno secco ma senza slancio. Si lamentava di tutto, degli odori in casa, delle manie della sorella, e poi proseguiva, proseguiva per la sua strada con molta fretta. Non si guardava indietro ma in fondo alla curva, prima di scomparire definitivamente, sollevava il braccio e gridava "a dopo". Al ritorno, apriva il cancello e bussava alla porta. Era mal vestito e sbrindellato. Diceva che aveva molta paura di tutto, di tutto e della sorella. Io pensavo, cose normali...
Trascorse un anno cosí, a vederlo passare di tanto in tanto. La polmonite non mi concedeva tregua ed ero costretta a restare sempre in casa. Mia madre rientrava con tutte le storie di Santo cotte e pronte per essere servite. Si parlava di tutto. Pettegolezzi. Dalle morti per investimento ai matrimoni delle ragazze piú grandi. Si parlava delle lapidi che si rovesciavano nel cimitero, di fattucchiere e stregoni, della piscina che mio padre voleva costruire di fronte a casa, di João e dei gatti che io portavo a casa. Avevo collezionato già dodici gatti e mia madre non era d'accordo di trasformare il nostro lare in una società per la protezione degli animali domestici.
E un giorno si aggiunse anche un cane. João passò da casa, dicendo che la signora Guilhermina non voleva che lui tenesse l'animale. E lo aveva portato da me. Un cane davvero piagato, con gli occhi da martire, frustrazioni sessuali e traumi infantili, passò a far parte degli inquilini abituali dell'aia. E João cominciò a passare quasi tutti i giorni. Aveva già 28 anni e non c'era modo di distoglierlo dal biberon. Quando è che lo lasci? Un altro giorno. La signora Guilhermina, mia madre, non pensa che sia tempo. Quando comincerà a preparare la minestra come si deve, allora potrò smettere di bere il latte. Io pensavo che diventava ogni giorno peggio, ma non glielo dicevo. Un mese dopo questo interessante dialogo con João, incontrai Fatima in drogheria. Comprava il sale. Perché compri tanto sale, ragazza mia? È per João. Vuole fare una minestra per la madre, rispose lei arrossendo. La padrona della drogheria mi scrutò per un attimo. Ci scambiammo uno sguardo complice e pietoso. Povero idiota. Ci dicemmo. Fatima se ne andò con più di cinque chili di sale. Nessuno osava dire niente. João era scemo. Doveva preparare la minestra per la madre. Un giorno lo vidi passare. Gli corsi dietro. João! Si fermò e aspettò che lo raggiungessi. Allora. Cosa fai? Ti fermi a chiacchierare un po'? Non posso. Mia madre, la signora Guilhermina mi sta aspettando. E si allontanò lasciandomi ancora una volta estenuata per i tanti interrogativi. Aveva ancora nostalgia del tempo in cui la signora Guilhermina era viva. Da quando se ne era andata, il figlio non ne prendeva una, secondo i racconti della sorella alla padrona della drogheria. Diventava sempre peggio. Aveva sbarrato la stanza della madre. E io ero sempre piú distante e fredda verso lo spirito che lo animava, verso la tenerezza che sentivo prima nei confronti della sua purezza.
Immersa in altre occupazioni e sempre meno ricettiva verso i tratti di creatività insana di João, persi il conto delle volte che passò da casa e batté alla porta. Facevo finta di non esserci. In qualche maniera smise di esistere come essere umano. Tutta quella fragilità, quell'incanto, la mano sopra la mia, era tutto una scemenza. Mi rifiutavo di accettare la tenerezza che emanava. Volevo essere diversa, volevo essere calcolatrice e dura. La vita? I libri possedevano vita. La sua mente no. Era per me molto piú semplice ignorare la miseria degli altri per non riconoscere la mia. In lui tutto era fragile, e in me pure.
Come sarebbe andata se io, quel pomeriggio in cui lo vidi passare e mi nascosi dietro alla siepe, lo avessi invece chiamato e accompagnato? Oggi non sarebbe stato internato. Nessuno lo avrebbe portato via da lí, da quel posto che era il suo. La signora Guilhermina, mia madre. La signora Guilhermina, mia madre. La signora Guilhermina, mia madre. Poco piú tardi Fatima bussò alla nostra porta. Disse che era venuta a trovarlo a casa. Era preoccupata per lui, non era che non si preoccupasse, ma aveva anche i suoi problemi. Aveva dei figli da crescere e un marito ubriacone. Non poteva fare di piú. Non poteva portarsi a casa il fratello, che gli avrebbe causato ancora piú problemi, con i figli indiavolati che le erano toccati in sorte. Non poteva, no signore. Per questo passavano i giorni e lui non riappariva, non poteva immaginare che lui avrebbe fatto una pazzia del genere, non si sapeva come. Chi poteva immaginare che il sale che le aveva chiesto era per quello. Per l'amor di Dio? Chi poteva pensare una cosa del genere. Ma poi anche lui che non la lasciava entrare nella stanza della madre. La signora Guilhermina mia madre sta dormendo. Teneva la porta chiusa a doppia mandata. Chi è che poteva entrare. Manie da pazzo, sono manie da pazzo. Non si devono contrariare. La signora Guilhermina sta dormendo. Devo tornare a casa. La signora Guilhermina non vuole che resti fuori quando fa buio. Alla signora Guilhermina non piace restare da sola. La signora Guilhermina ha bisogno di un po' di sale. Chi l'avrebbe potuto scoprire? Ma avevano dovuto ricoverarlo perché aveva smesso di mangiare - poiché anche la signora Guilhermina non voleva piú, siccome la signora Guilhermina non può mangiare, neanch'io allora posso mangiare. Dovettero portarlo via. Chiamarono un'ambulanza a Santa Cruz e lo portarono in ospedale. Lo trasportarono anche al pronto soccorso di Machico, ma lí non potevano fare nulla. Dicevano che forse era anemico e forse entro pochi giorni sarebbe potuto anche morire. Un medico domandò anche se si drogava. Immaginati, figliola. João un drogato. Lo hanno ricoverato all'ospedale e se Dio vuole tornerà a casa sano. Mio marito mi ha assicurato che non lo picchierà e anche i bambini non vogliono che lo zio muoia. Lui ci aiuta a fare disegni per la scuola. Non lo prenderanno in giro, che Nostro Signore non vuole. Ed è peccato prendere in giro gli scemi. Solo Dio sa perché nascono cosí.
Fatima continuava a parlare e mi lasciava sempre piú perplessa. Piú avanti cominciò a sorridere e compresi che avrebbe voluto dirmi ancora qualcosa. Ma cos'è che è successo, Fatima. Dimmi. Avevi bisogno di qualcosa. Sapessi, signorina, se tu sapessi quello che ti vorrei chiedere, se tu sapessi. Fissava le punte delle scarpe infangate. È che ho bisogno di riflettere su quel che devo fare. Ho bisogno di riflettere. Aiutami. Aiutami, piccola. Mi chiese di accompagnarla a casa della madre, che Dio la mantenga, era una donna buona, che a me non mi è mai mancato niente, ma se lei potesse vedere quel che lui ha fatto, se lei vedesse cosa ha combinato quel diavolaccio. Chissà cosa dirà la gente, chissà cosa dirà. E per tutto il tragitto di quasi un'ora stetti ad ascoltare le sue lamentele. Fatima non lo voleva dire, qualunque cosa fosse. Salimmo le scale di casa, si dirigeva al piano superiore. La stanza della signora Guilhermina. È chiusa a chiave. E lui nasconde la chiave chissà dove perché non vuole che la troviamo. Non sapeva perché, non voleva entrare nella stanza da sola, ma doveva aprire, approfittare che lui non c'era per pulire un po' e vedere se c'era in giro qualche porcheria, che fino ad allora lui non le aveva permesso di entrare. E si aspettava certo il peggio. Cercammo invano un martello. Dovetti usare una sedia, perché Fatima non voleva aiutarmi. Per alcuni istanti percepii che in quella situazione ci fosse una nota di falsità, come se lei sapesse... Una botta, un'altra, un'altra ancora e la porta cedette. Con l'umidità sembrava che la stanza si fosse rivestita di un tessuto poroso. Il legno era molle. Le pareti avevano la muffa. La porta aperta rilasciò una zaffata d'aria calda pregna di terra. Entrammo. Stava facendo buio ed era difficile distinguere i contorni degli oggetti. C'era plastilina da tutte le parti. Confezioni vuote di sale da un chilo giacevano dappertutto. Sopra il vecchio letto della signora Guilhermina c'era un oggetto di forma allungata ricoperto da lenzuola di tutti i colori. Riconobbi il lenzuolo lillà di mia madre avvolto alla sua estremità. C'era ancora il candelabro della signora Guilhermina. Ragnatele e polvere. Lui non cambierà mai. E ora che cosa faccio. Hai visto tutte quelle lenzuola arrotolate. Chissà dove avrà preso tutte queste cose. Le feci un segno col dito perché tacesse. Fatima, provai ad essere delicata, Fatima, non ti spaventare. E non mi dovrei spaventare. Guarda che porcile. Fatima, se è vero quello che penso è meglio che stia zitta, perché non so cosa fare. Non ho l'età per queste cose. Cercavo di parlare come nei film, ma un buco nello stomaco mi suggeriva distintamente che era tutto vero. In capo al letto, all'altezza del cuscino, riconobbi il fazzoletto a fiori color d'arancio della signora Guilhermina. Tra il lenzuolo e il copriletto un ciuffo di capelli grigiasti. Con una gamba della sedia che avevo rotto provai tremando a scostare il lenzuolo. Quando volsi lo sguardo verso Fatima compresi tutto. Abbandonai Fatima e lo scheletro e volai per le scale in stato di instupidimento. Non la sentii gridare. Mi trovarono singhiozzante sul bordo della strada, troppo terrorizzata per camminare o fare qualunque altra cosa. Ancora oggi sogno João, e l'incubo è rappresentato da una lista dettagliata di tutto quello che non ho fatto per lui, insistentemente alternata all'immagine di Fatima che entra nel cimitero trasportando il corpo della madre.


(Traduzione dal portoghese di Antonello Piana)




São Moniz Gouveia è nata a Santo da Serra, ilha da Madeira, Portugal, a 12/1/1967.
Vive da 4 anni in Italia. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Cartas para um tenente, 1996; O templo móvel, 2002; Lupus in fabula, 2002. Partecipa dell'antologia Poeti contemporanei dell'Isola di Madera organizzata dal Prof. Giampaolo Tonini, Grafica di Venezia, 2001.





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