DIARIO
Maria
Rafart
Sabato 21 aprile - Alla fin fine volevo bene, a quella bambina.
Prima mi stava troppo tra i piedi. Volevo essere uno di quelli
che trattavano i soldi e facevano le chiamate e minacciavano e
si facevano rispettare, non fare il vigile scemotto, quello- che-cambiava-il-vasetto-pieno-di-piscio-della-pupa-e-le-portava-da-mangiare-e-dopo-richiudeva-bene-la-porta-affinchè-non-mi-scappasse.
"Se mi scappa sono morto mortissimo davvero", pensavo.
La vedevo fiacca quella pupa. Ogni giorno di più. Pereira
mi ha detto di non toccarla, ma a volte mi veniva una voglia di
farle qualcosa di carino ma mi conoscevo, sapevo come sarebbe
finita ed era meglio rimanere staccato; mi poteva venire un'altra
volta la voglia di fare quello che abbiamo fatto insieme la giapponesina
ed io e questa volta Pereira e gli altri non mi perdonerebbero,
mi ucciderebbero, questa volta. Cazzo, era da tanto che ero qui,
anche io rinchiuso per colpa di quei coglioni che non riuscivano
a strappare i soldi di questi ricconi. A volte mi veniva la voglia
di aiutare la poveretta, farle fare la doccia, darle abiti puliti,
un giornalino, cose di questo genere che si fanno per consolare
i bambini. Ma se il capo ha detto di mantenerla chiusa in camera,
cambiare il piscio ogni tanto e portarle da mangiare, è
quello che dovevo fare. Soltanto. Non gli ho mai mostrato la faccia.
Entravo sempre con la maschera, dovevate vedere la pupa, si spaventava,
sembrava vedesse il demonio ogni volta che entravo a portarle
da mangiare o a portare via il piscio. La stanza puzzava. Aveva
delle ferite in bocca, la pupa, era fiacca, il mio quartiere è
pieno di bambini con ferite sulla bocca e sulle guancia e sulle
gambe, è la loro fiacchezza che dura da quando sono nati.
Sopravvivono bene i poveri del mio quartiere, però. I figli
dei ricchi non tengono tanto come i poveri, si ammalano più
presto. Lei mangiava poco, piangeva troppo. Piangeva sottovoce.
Quando è arrivata urlava come pazza, ho dovuto zittirla,
allora ho urlato di più e gli ho dato uno schiaffone e
da allora in poi ha soltanto pianto a sottovoce. Nessuno mi ha
detto che sarebbe durata così a lungo. Mi veniva la voglia
di andarmene via ma sapevo che non potevo, con Pereira non potevo
affatto tirarmi indietro. Sembrava che il padre della pupa avesse
chiamato gli sbirri e allora tutti ci cercavano dappertutto in
tutte le favelas. "Merda" mi sono detto mille volte.
Un giorno ho visto una foto sua nel telegiornale, lei era un po'
più grassotta in quella foto. Si rimpiccioliva rapidamente,
la pupa. Un giorno ho mescolato una aspirina nell'acqua ma lei
non ha neanche finito il bicchiere, credo che non sia servito
a niente ma mi sono sentito più buono ed era quello cio'
che importava, "se i suoi non si danno da fare perdono la
pupa, questo è certo ed io non c'entro", ho pensato.
Stamattina ho ricevuto una chiamata di Pereira. Dovevo tagliarle
un pezzo alla pupa. Da spedire al padre, ecc, ecc. "Cazzo.
Pagasse senza storie saremmo tutti lontani da questo schifo di
casa in due giorni", mi sono detto. Mi stava nei coglioni
quella famiglia. Dovevo scegliere cosa tagliare, "cazzo",
ho detto, "mi sono mezzo affezionato alla pupa, cosa gli
taglio". "Un pezzo di dito", ho pensato. No. C'era
troppo sangue di mezzo. "E dopo dovrà farsi la manicure
da grande come fanno tutte le donne", ho pensato. L'orecchio.
Un pezzo soltanto. "Lo nasconderà con i capelli, dopo
pagano a un dottore bellone che glielo metta a posto con qualche
ripieno finto", mi sono detto. Ho affilato un coltello in
cucina; non era l'ideale ma era quello che avevo sotto mano, "se
lo so ne prendo uno apposta prima", ho pensato. Mi sono preso
un goccio di cachaça, mica facile entrare in una stanza
e tagliare l'orecchio a una pupa così come se niente fosse.
Ho preparato dei panni e una bottiglia di alcool e un vasetto
dove mettere il pezzo dentro, "bisogna pensare a tutto",
ho detto a me stesso, speravo che anche lei bevesse della cachaça
così le faceva meno male. Ho aperto la porta della camera
e la pupa rimaneva sdraiata. "Strano, di solito si alza e
si mette nell'angolo come una scimmietta spaventata", ho
pensato. Tutta la stanza puzzava di merda, mi è venuto
da vomitare, la puzza di merda è quello che meno sopporto
nella vita. C'era merda per tutto il materasso attorno alla pupa.
L'ho toccata con il piede, la pupa fetente. Niente. Nessun movimento.
Era ormai andata. Sapevo che era fiacca, lo sapevo. "Cazzo.
Cazzo". Ho deciso di tagliare tutto l'orecchio, tanto non
ne avrebbe più avuto bisogno e ancora c'erano i soldi di
mezzo. Ho aggrappato la testa per i capelli, mi veniva da vomitare
tanta era la puzza di merda, ero stordito dalla puzza di merda.
"Cazzo. Cazzo." La lama del coltello gli ha sfiorato
la carne, e, all'improvviso, la piccola puttana si è alzata
come un fantasma colmo di merda, mi ha aggrappato la mano la troietta,
mi sono spaventato, non capivo più niente, mi ha infilato
il coltello in pancia ed è volata via, lei e la sua merda
del cazzo attaccata sul culo apposta per beccarmi. Il mio sangue
scorre nella merda, sono sdraiato sul materasso in mezzo alla
completa merda. Cazzo. La pupa non mi poteva scappare.
Maria J. Rafart, nata nel 1963 in Brasile, a Curitiba, è
madre, avvocato, traduttrice e scrittrice; da cinque anni vive a
Vicenza. Ha pubblicato saggi e racconti in: Contraponto,
(Mandruvá, S. Paulo, Brasile, 1999), Nós Outros
(Mandruvá, S. Paulo, Brasile, 1999), Depois da Tempestade
(Esfera, S.Paulo, Brasile, 2001).
Più volte collaboratrice nei giornali Folha de Londrina e
Veja, in Brasile. Dal 2001 mantiene un sito web con consigli per
donne divorziate: www.rafart.com
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