ECONOMIA DI CANDELE
Giuseppe Berto
Gli ascari
(1) della squadra d'avanguardia camminavano sparsi e distratti
fuori dalla carovaniera, col fucile buttato di traverso sulle
spalle, tra i denti bianchi un ramoscello che masticavano continuamente.
Nel paesaggio vasto e desolato sotto il sole, andavano senza parlare
né cantare, anch'essi come assorbiti dalla calda sonnolenza
pomeridiana. Solo di quando in quando in un improvviso ammucchiarsi
di uomini nasceva un mormorio confuso ed eccitato, e ciò
significava che qualcuno aveva scoperto tra l'erba secca un vaso
di miele o di quell'aspra birra abissina chiamata teg. Allora
il graduato più vicino, muntaz o buluc basci,
interveniva gridando, e magari col curbasc (2) alzato,
e gli ascari buttavano giù in fretta quanto più
teg e miele potevano, e rompevano il vaso d'argilla prima di riprendere
correndo il loro posto nello schieramento. Teg e miele
si spargevano a terra: niente doveva rimanere indietro.
Era la terza settimana che andavano per l'altipiano in spedizione
punitiva contro i villaggi che aiutavano i ribelli, ma non avevano
ancora incontrato anima viva. Gli abitanti erano scappati, tirandosi
dietro il bestiame sui monti o nei profondi crepacci dei torrenti
dopo aver nascosto nei campi i vasi di teg e di miele. I tucul
dei villaggi erano rimasti vuoti, con qualche povero attrezzo
da lavoro, troppo pesante per portarlo in salvo. Gli ascari prima
arrivati davano fuoco ai tetti di paglia, e poco dopo tutto era
in fiamme. I cristiani copti risparmiavano le chiese, ma poi vi
passava qualche musulmano e bruciava anche quelle. Così
il XXV battaglione Coloniale, in operazioni di polizia (3) nell'altopiano
del Beghmeder-Lastà, passava, prima l'avanguardia, poi
il grosso che marciava sulla carovaniera insieme alle salmerie,
infine la retroguardia, lasciandosi indietro alte colonne di fumo
e una grossa nuvola di povere, che restavano a lungo nell'aria
calda senza vento.
Il tenente che comandava il plotone di testa si fermò,
dopo che ebbe raggiunta la piatta sommità del colle. Poche
centinaia di metri più avanti c'era il paese: una vasta
fungaia di tucul tra il verde intatto e inatteso degli
eucaliptus, e due o tre grandi chiese sulle alture, rotonde, con
gli alti muri di sassi. Un paese importante, segnato in grosso
anche sulla carta al milione. Lì egli diede ai suoi uomini
l'ordine di fermarsi secondo le istruzioni ricevute.
Le squadre d'avanguardia si sistemarono a protezione, svogliatamente,
tanto sapevano bene che non c'era pericolo. Sulla carovaniera,
uomini e muli si vennero ammassando, un po' in disordine, senza
chiara distinzione di compagnia. Come la sosta si prolungava,
molti ascari si sedettero per terra. Qualcuno tirò fuori
dal tascapane una canna bucata e cominciò a soffiarvi dentro
una melodia insistente, di poche note. Gli ufficiali arrivarono
e lasciato il muletto all'attendente, si riunivano in gruppo.
Facce bruciate dal sole, e anche i più giovani avevano
gli occhi sprofondati in una quantità di rughe, per difendersi
dalla luce. Guardavano verso il verde degli eucaliptus, col desiderio
di raggiungerlo, e ci fu chi disse qualche grossolana spiritosaggine
nei confronti del Maggiore Comandante, che si era allontanato
insieme al suo Aiutante Maggiore per studiare chissà che
cosa, tra carta e paesaggio. Era noto che il Maggiore, in passato,
aveva preso più di un madornale abbaglio con le carte geografiche,
tuttavia si ostinava a consultarle, in ogni occasione, con risultati
incerti. Poco dopo egli mandò l'ordine di scaricare le
salmerie sul posto e gli ufficiali perdettero definitivamente
la speranza di andarsi a mettere con la tenda sotto un albero.
Sempre così: per ragioni tattiche, affermava il Maggiore.
Egli era del parere, infatti, che un attacco viene sempre quando
uno meno se lo aspetta.
Sulla gobba del colle si accese l'animazione confusa di ogni arrivo.
Bisognava preparare le postazioni per le armi automatiche, condurre
i quadrupedi all'abbeverata e al pascolo, procurarsi l'acqua e
la legna per fare il tè e cuocere la burgutta di farina.
Un gruppo di ascari si appartò per macellare festosamente
una decina di buoi razziati chissà dove durante la marcia,
e subito il cielo fu pieno di una quantità di grossi uccelli
che volavano in maestosa attesa, alti sopra il sangue. Altri gruppi
s'erano messi ad alzare le tende degli ufficiali e la tenda grande
a sedici teli, che serviva da Comando Battaglione e da mensa ufficiali.
Il sottotenente medico che aveva l'incarico di direttore di mensa,
sovrintendeva a quell'operazione, rassegnato a vedere sorgere
la tenda storta, come sempre. Vicino a lui, il tenente Aiutante
Maggiore, seduto sul cofano scrittoio, compilava alcuni stampati.
Gli altri ufficiali, a gruppi di compagnia, erano andati a riconoscere
il terreno di competenza. Il sole, abbassandosi, faceva più
scuro il verde degli eucaliptus, e non si vedeva fumo salire dai
tetti dei tucul. Anche da lì, evidentemente, la
popolazione era scappata ma il paese era da risparmiare, perché
così diceva l'ordine di operazioni diramato dal Comando
Truppe. Tra poco, non appena fosse tramontato il sole, si sarebbe
levato il vento dell'est. Vento freddo, come ogni sera.
Tornando dalla ricognizione del terreno, egli andò dritto
alla sua tenda. C'era la branda fatta, senza lenzuola, ma col
pigiama messo sotto le coperte, perché non prendesse umidità.
Sulla cassetta Nasir aveva preparato il libro da leggere e la
candela, l'ultima mezza candela rimasta. Non serviva ancora la
candela per leggere, e comunque di leggere egli non aveva alcuna
voglia. Si sedette sulla branda, pensoso se togliersi o no gli
stivali. Era sicuro che, se se li fosse tolti, subito il Capitano
o qualcun altro lo avrebbe mandato a chiamare, e se li sarebbe
dovuti rimettere. Presso l'ingresso della tenda c'era il catino
e il bidone dell'acqua. Era un bravo attendente, Nasir, ma lui
non aveva nemmeno voglia di lavarsi. Guardava fuori, piegato nella
sua stanchezza. Gli ascari, a gruppi di quattro o cinque stavano
attorno ai fuochi per cuocersi il tè e la burgutta. Più
lontano, sul limite del campo, c'era una sentinella immobile,
con la baionetta inastata sul fucile. Più lontano ancora
si scorgeva il paese, i tucul già nascosti nell'ombra
e il sole basso che passava coi raggi attraverso le foglie degli
eucaliptus. Poteva anche essere bello, tutto ciò. Stette
a guardarlo a lungo, col desiderio sciocco di ricordarsene poi
per sempre, ricordarsi di quel particolare luogo e momento, per
tutta la vita, anche quando fosse tornato a casa, in un mondo
tanto diverso e lontano. Cercava di suscitare in sé una
commozione, per rendere poi più facile e individuabile
il ricordo. Una sera, tanti anni fa, davanti ad un paese chiamato
così e così, stanco dopo una lunga giornata di cammino
sull'altipiano del Beghmeder- Lastà, io ho pensato questo
e questo, e c'era il sole basso che passava tra gli eucaliptus.
Non gli veniva niente da pensare, niente di importate almeno,
e di sicuro non se ne sarebbe ricordato. Un mese fa, ad esempio.
Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordarsi dove si fosse
trovato e cosa avesse visto un mese fa. Neppure di oggi sarebbe
rimasto nulla, era la fine di una giornata come tante: si arrivava,
si piantava la tenda, e quella era la casa in cui si sostava per
una notte, in un luogo sconosciuto. La mattina presto si ripartiva
per andare altrove, e tutto ciò che si era visto e pensato
andava ad accumularsi in un passato senza dimensioni, come giorni
trascorsi in un collegio o in una caserma. Del resto, doveva ammettere
che l'attrattiva più pericolosa di quella vita era appunto
la mancanza di dimensione, dimensione anche morale, naturalmente,
e quindi mancanza di responsabilità: lasciarsi vivere,
da un giorno all'altro.
Chiamò l'attendente che stava a portata di voce, intorno
al fuoco più vicino. "Nasir", gli disse, "qua
bisogna trovare una donna".
L'ascari fermo sulla soglia della tenda ebbe un sorriso o una
smorfia che gli scoprì i denti. "E va bene",
disse.
"Vedi che non sia troppo brutta, e possibilmente non malata".
"E va bene, signor tenente", ripetè l'ascari,
e si allontanò.
Era un bravo attendente, Nasir, e sapeva non mostrare se una cosa
gli faceva piacere o dispiacere, a parte il fatto che la cosa
poteva benissimo non fargli né piacere né dispiacere.
Il suo padrone dava ordini e lui obbediva, la sua ragione almeno
temporanea di vita essendo appunto fare ciò che il padrone
gli chiedeva.
Tornò dopo un'ora, quando era già buio e avevano
suonato per la mensa. "Non ho trovato, signor tenente",
disse.
Sentì, senza ombra di dubbio che non gliene importava niente.
Tuttavia disse, un po' scherzando: "Come, Nasir? Non sei
neanche capace di trovare una donna per il tuo ufficiale?"
"Tutta gente scappata, signor tenente".
"Forse torneranno. Avranno ben visto che non vogliamo fargli
del male".
L'ascari ebbe un gesto di rassegnazione e se ne andò borbottando
nella sua lingua.
Egli uscì per recarsi a cena. Il vento dell'est si era
levato, freddo e continuo, non a raffiche. C'era una quantità
i fuochi accesi, dentro il cerchio del campo, e da qualche parte
gli ascari cantavano battendo le mani a tempo.
Alla mensa avevano già cominciato a mangiare, seduti sui
cofani delle munizioni, intorno alla tavola fatta di cassette
sovrapposte. C'era il Maggiore Comandante del Battaglione, al
centro, e poi a destra e a sinistra in ordine di grado e di anzianità,
gli ufficiali: i capitani comandanti, le compagnie, i tenenti,
i sottotenenti. Il suo capitano lo guardò con rimprovero
per il ritardo, ma non disse nulla. Anche lui si mise a mangiare
con serietà, laboriosamente, la carne gommosa delle bestie
appena macellate. Al paletto centrale della tenda era legato il
lume a petrolio del comando e si scuoteva senza sosta come la
tenda era mossa dal vento.
Sotto gli occhi del buluc basci anziano, i quattro ascari
camerieri, in giacca bianca e guanti bianchi, andavano e venivano
senza rumore coi piedi nudi. C'erano bistecche, fegato, cervello
e rognoni, finché uno ne voleva. Dopo la carne portarono
frutta secca, mandorle e noci e dopo il caffè incerti bicchieri
di stagno che bruciavano la bocca e avevano una puzza particolare.
Anche di caffè ce n'era finché uno ne voleva, ma
soltanto il primo bicchiere era zuccherato perché lo zucchero
scarseggiava e chissà mai quando il Battaglione sarebbe
arrivato ad una sussistenza per prelevarne dell'altro. Così
stavano a bere caffè amaro e a chiacchierare, sempre i
soliti discorsi sulle operazioni di polizia, sulle informazioni
politiche, sugli aumenti delle indennità e degli stipendi,
sulle donne bianche e negre. Uomini messi insieme dal caso, fra
i quali raramente si stabiliva una vera intimità. In un
certo senso, era il lume a tenerli uniti in quella tenda, per
quanto fosse un povero lume traballante. Ma tutti erano a corto
di candele e perciò le risparmiavano, rimanendo al Comando
fino all'ora di dormire. Egli però si alzò e fece
un rapido saluto verso la comunità dei superiori, sperando
che nessuno lo notasse.
"To', scommetto che ha trovato una donna!", esclamò
invece l'Aiutante Maggiore.
Egli si limitò a fare un cenno per negare.
"Dopo veniamo anche noi!" gli gridò dietro il
medico. Lui lasciò ricadere il lembo della tenda e mosse
i primi passi incerti nel buio. Molti fuochi si erano spenti e
gli ascari non cantavano più. Camminò verso la sua
tenda, ma non col proposito di andare a dormire. Sarebbe invece
uscito dal campo, per camminare controvento sulla gobba del colle,
nell'oscurità eccitante con le grida degli sciacalli, e
lamento di iene, e presentimento di un pericolo vicino. Forse
la commozione gli sarebbe venuta camminando tutto solo fuori dal
campo.
L'attendente Nasir era rimasto vicino al fuoco e lo raggiunse,
vedendolo passare. "Trovato, signor tenente", disse.
Era chiaro, anche se ormai alquanto sconcertante, che aveva trovato
una donna. Rinunciò pertanto alla passeggiate e all'emozione
che avrebbe potuto ricavarne. In fondo, anche da una donna era
possibile ricavare un'emozione, benché poche donne ricordasse
di tante che ne aveva avute. Queste donne negre, naturalmente.
Accese un fiammifero, entrando nella tenda e diede fuoco alla
candela. Il vento penetrava dalle fessure, gonfiava i teli e li
sbatteva, e la fiamma piegandosi da una parte e dall'altra consumava
rapidamente la cera.
Cercò dentro la cassetta qualcosa per fare un riparo intorno
alla mezza candela, sarebbe durata almeno un'ora, avendone buona
cura.
Soltanto dopo prestò attenzione alla donna. Stava seduta
per terra, con la schiena appoggiata al ferro della branda, la
testa interamente coperta da una futa di un bianco molto sporco.
Di solito, quando venivano dagli ufficiali, queste donne si mettevano
veste e futa (4) di bucato, ma questa qui chissà mai dove
era stata pescata. "Ancì", la chiamò.
La figura non si mosse né rispose.
"Ehi, ancì, come diavolo ti chiami?",
insisté appoggiandole una mano sulla testa. Attraverso
la tela percepì soltanto il folto dei capelli. Aveva il
solito odore di burro rancido, di fumo e di sterco di animale.
Ma non era un odore nauseante. In principio, nei primi mesi d'Africa,
sì, se ne ricordava. Ora invece a quell'odore associava
immediatamente il possesso di una donna.
"Ancì, man semmà?", le chiese di
nuovo, con le poche parole amariche che sapeva.
Neanche ora essa rispose. Un po' irritato, egli le scostò
con forza la futa dalla testa. Vide soltanto un ammasso di capelli
crespi e corti, poiché essa teneva il viso ostinatamente
basso. Le mise una mano sotto il mento e la costrinse ad alzarlo.
Il volto, non molto scuro, era minuto e regolare, con gli occhi
chiusi e le labbra serrate in un'espressione di spaventata incertezza.
Sembra una bambina, pensò teneramente. Le domandò
quanti anni avesse, ma essa rimase muta. Del resto, a parte che
quella non doveva conoscere neanche una parola d'italiano, la
domanda era in ogni caso stupida, perché nessuno sapeva
la propria età in quei paesi. Abbassò nuovamente
la testa, non appena libera dalla pressione della mano di lui,
ed egli decise che in un modo o nell'altro bisognava fare amicizia.
Cercò nella cassetta del cioccolato e gliene porse un pezzetto,
mettendoglielo proprio sotto il naso. Essa lo accettò,
porgendo con un gesto grazioso le due mani unite a coppa, ma poi
rimase con il cioccolato in mano e la testa bassa, e lui dovette
spiegarle a gesti che quella roba si mangiava, e lei ancora diffidente
se ne mise un pezzo in bocca e fece due o tre inchini, e poi anche
sorrise, per far vedere che la roba le piaceva. Bene, avevano
fatto amicizia, e frattanto lui aveva visto che gli occhi erano
grandi e belli, e la bocca bella, e le mani piccole e gentili,
e nel complesso la ragazza era forse la più bella che gli
fosse mai capitata.
Aspettò che finisse di mangiare il cioccolato, poi la prese
per le braccia e la fece alzare in piedi. Era piccola di statura,
fin troppo piccola, benché a pensarci bene ciò fosse
in armonia con la sua faccia da bambina. Le disse di spogliarsi,
ma siccome lei non si muoveva, la spogliò lui stesso dopo
averle sciolto la cintura della veste. Aveva un corpo minuto,
come c'era da aspettarsi, e magro, con tutte le costole che si
vedevano, e il seno piccolo, appena pronunziato. In sostanza,
forse non arrivava neanche a dodici anni, ma in fin dei conti
non era colpa sua se una bambina di dodici anni faceva la prostituta,
e poi quelli erano paesi particolari e gente particolare, sarebbe
stato ridicolo avere scrupoli, tanto più che, così
nuda, la piccola era più che mai graziosa. Essa stava ritta
in piedi come lui l'aveva messa, senza pudore né impudicizia,
ma piena di freddo e forse anche con un po' di paura. Le fece
indossare la giacca del pigiama e non poté far a meno di
ridere perché sembrava ancor più bambina, con la
giacca che le arrivava sotto i ginocchi e le braccia scomparse
con le mani e tutto dentro le maniche. Anche lei si guardava,
e probabilmente anche lei avrebbe riso, se avesse avuto un po'
meno freddo, o un po' meno paura. Controllò se Nasir le
avesse fatto lavare i piedi prima di introdurla nella tenda, poi
le disse di mettersi in quella specie di cuccia da cani che era
la sua brandina da campo. Dovette spiegarglielo a gesti, perché
lei non capiva proprio nulla. Infine lui stesso si coricò
e subito spense la candela: bisognava fare economia.
La
candela, la riaccese poco dopo, chiamando ad alta voce Nasir.
La piccola stava nella branda con gli occhi spalancati, con senso
di colpa e spavento, non privo di meraviglia, perché indubbiamente
nella condotta dell'uomo bianco c'era qualcosa che essa non capiva.
Quando l'ascari si presentò, egli lo fece entrare nella
tenda.
"Che donna hai portato, Nasir?", gli disse. "Questa
è muta".
"Muta io non sapere", rispose l'ascari.
"Muta significa che non parla. Questa non parla, e non capisce
niente. Forse anche sorda".
Nasir fece un suono di dispiacere con la bocca. "Questa non
stare amara, stare galla(5) : sua lingua molto diversa".
Egli guardò la ragazzetta, quasi sperando che, essendo
galla e non amara, le cose potessero cambiare. "Si può
sapere almeno come si chiama?", chiese verso Nasir.
L'ascari ebbe con la ragazzetta una conversazione piuttosto complicata,
con ritorni e impuntature. Infine spiegò:"Io non sapere
molto questa sua lingua, ma suo nome si chiama Lemtà".
Lemtà era un bel nome. "Bene, Nasir", disse.
"Lemtà è un bel nome, ed anche lei è
bella. Ma è troppo piccola, troppo bambina, capito?".
L'ascari alzò le spalle con rassegnazione". Eh, questa
sola trovato".
"Ma questa è vergine", egli disse indispettito.
" Capisci cosa vuol dire vergine? Non ha mai conosciuto un
uomo".
L'ascari lo guardò, offeso dal suo dispetto. "Bene,
no?", ribatté vivacemente. "Così non stare
malata".
Egli dovette riconoscere che, almeno da quel punto di vista, Nasir
aveva ragione. "Ora va a dormire", gli disse. "Domattina
portami il caffè alle cinque".
La piccola stava nella branda, e pareva in attesa, ora che l'attendente
se n'era andato, un'attesa che era anche fatta di paura. "Lemtà",
egli le disse con ogni possibile dolcezza. "Lemtà".
Non ci fu, nella piccola, alcun cambiamento d'espressione o d'atteggiamento.
Non aveva forma di difesa, all'infuori della sua umile paura.
Ma lui non se la sentiva, in ogni caso non se la sentiva. E si
affrettò a spegnere la candela.
Dovette
riaccenderla quasi subito, perché arrivò il dottore.
E non era solo: s'era tirato appresso l'Aiutante Maggiore e Gaeta,
il tenente effettivo che comandava la terza Compagnia e spesso
assumeva, nei confronti dei subalterni anche pari grado, un'antipatica
autorità da superiore. Lemtà, prima che quelli entrassero,
aveva afferrato il lembo delle coperte e si era nascosta tutta
sotto.
"Lo sapevo, che avevi pescato una donna", disse il dottore.
"Zitto, zitto, con quell'aria da fesso", disse l'Aiutante
Maggiore, col tono di fargli un complimento.
Il tenente Gaeta, invece, s'era avvicinato alla branda e voleva
tirar via la coperta, ma la donna con le piccole mani strette
la tratteneva. Il dottore rideva. Gaeta impaziente, cominciò
a rimproverare la donna, in aramaico.
"Inutile parlare aramaico. Non capisce: è una galla",
egli disse, assurdamente sperando con ciò di fare qualcosa
che potesse essere di aiuto alla piccola.
"Buone, le galla", disse il dottore con entusiasmo".
Ne ho tenuta una per quindici giorni, quand'ero a Cobbò
col XX".
Gaeta d'un tratto si spazientì con quella che continuava
a trattenere le coperte con forza. Diede uno strappo e la scoprì
fino all'inguine. Essa si portò subito le mani sugli occhi.
Nessuno si aspettava di trovarsi davanti una bambina.
"Troppo piccola", disse l'Aiutante Maggiore, deluso.
"Fa schifo: sembra un ragno", rincarò il dottore.
Ma Gaeta non era di quel parere. "Voi non capite niente di
donne indigene", disse autoritariamente. "Queste sviluppano
presto. Altro che ragno. Mi meraviglio di te, dottore. E' un bocconcino
d'oro, un fiore appena sbocciato. Peggio per voi se fate gli schizzinosi.
Io me la porto in branda".
L'aveva presa per un braccio e tirava, per forzarla ad alzarsi,
mentre la piccola tentava di resistere. Gaeta era il coloniale
più anziano, al battaglione, meglio di lui nessuno sapeva
come andavano trattati gli ascari e le donne negre, perciò
sarebbe stato sciocco e inutile intervenire ora in soccorso della
piccola. Tuttavia era anche da vigliacchi lasciarsela portar via
così, in un certo senso lo era, e comunque egli sentiva
di dover fare almeno un tentativo. "Aspetta", disse
afferrando il braccio di Gaeta. " Io non l'ho toccata: non
è mai stata con un uomo, è vergine".
Gaeta spostò su di lui l'attenzione e lo guardò,
dapprima incredulo, poi ridendo, volgarmente.
"Non l'hai toccata? E che te la tenevi qui a fare?".
"Niente. Pensavo di mandarla via" egli disse. "Stavo
per chiamare l'attendente, che se la venisse a prendere".
"Bravo, così se la pigliava lui, e tu ci facevi proprio
una bella figura. Ma quanto tempo vi ci vuole a voi per imparare
a stare in colonia?".
Ora riafferrò la piccola con forza e la tirò per
il braccio, fino a farla alzare. Egli non disse nulla, benché
assurdamente crescesse in lui il senso di essere un vigliacco,
in tutti i modi, perché se accettava che Gaeta si prendesse
la piccola, allora tanto valeva che se la prendesse lui prima,
come era suo diritto. Invece lasciava che si rivestisse, e la
guardava, e non le vedeva il viso, solo la rassegnazione dei gesti,
pur sforzandosi di restare in dubbio che si trattasse di rassegnazione.
In fin dei conti, era del tutto arbitrario attribuire a quella
ragazzetta pensieri e sentimenti che si sarebbero potuti attribuire
ad una simile ragazzetta dalla pelle bianca, e dai capelli lisci,
e provarne compassione era una cosa del tutto fuori posto. Meglio
salvare la faccia davanti a Gaeta, invece, e davanti all'Aiutante
Maggiore e al dottore che stavano a guardare divertiti come lui
si lasciava fregare la ragazza. "Gaeta", disse con forza.
"Io la ragazza te la do. Ma in cambio voglio una candela."
"Mannaggia, mi prendi per la gola: ne ho soltanto due".
"E io ho soltanto il rimasuglio che vedi" disse indicando
la cassetta.
Non spense, dopo che quelli se ne furono andati. Non valeva la
pena di spegnere: la fiamma stava morendo da sola, in una piccola
pozza di cera liquefatta.
Dormiva, non sapeva da quanto, quando l'attendente di Gaeta venne
a riportargli la ragazza. "Detto signor tenente dare questo",
disse l'ascari tenendo qualcosa nel buio.
Egli incontrò la mano dell'ascari e prese la candela: non
pensava che Gaeta avrebbe mantenuto la promessa.
Accese dopo che l'ascari fu uscito, fissando la nuova candela
sulla cera di quella di prima. La ragazza s'era seduta per terra,
come quando lui era arrivato dalla mensa, con la schiena contro
il ferro della branda. Non s'era coperta la testa, ma la teneva
abbassata, nascondendo il viso. Cosa pensasse, era impossibile
saperlo. In ogni caso, per loro non era una cosa tanto importante,
almeno così dicevano coloro che avevano esperienza di cose
coloniali. Gaeta, per esempio. E del resto, se non l'avesse fatto
Gaeta, l'avrebbe fatto qualcun altro, forse peggio. Stese una
mano ed accarezzò la piccola sulla testa, cercando di caricare
il gesto di tenerezza. I capelli non erano troppo unti, e fossero
stati più unti sarebbe stato meglio, in quel momento, benché
non avesse assolutamente colpe da espiare, e in ogni caso fosse
assolutamente insensato espiarle sporcandosi una mano con il burro
rancido. Faceva passare i capelli sotto la palma, meccanicamente,
con un movimento che pareva aiutasse a sopportare i pensieri.
Poi ebbe voglia di guardarla, per capire qualcosa.
Ancora le fece alzare il viso, come aveva fatto prima, e la chiamò
fino a farle alzare anche gli occhi, ed ebbe davanti un volto
dall'espressione indefinibile, cui si poteva attribuire tutto
ciò che faceva piacere: indifferenza o disperazione, terrore
o meraviglia. Le sorrise, in un tentativo d'intesa, e lei non
rispose. Allora, piegandosi fuori dalla branda, armeggiò
dentro la cassetta per prendere dei talleri(6) e del cioccolato,
tutto il cioccolato che gli restava. Essa accettò con un
inchino ed annodò le monete d'argento nella cintura di
tela, insieme a quelle che le aveva dato Gaeta. Il cioccolato
invece lo tenne in mano e restò a guardarlo benché
ormai sapesse che quella roba si mangiava.
Lui non sapeva più che fare. Aveva fatto, forse, tutto
ciò che si poteva, ma sentiva che non bastava, e confusamente
una sorta di tenerezza cresceva dentro di lui, già staccata
dalla compassione. Comunque, ciò che aveva fatto Gaeta,
egli non l'avrebbe fatto. Ma accogliere la bambina accanto a sé
nella stretta branda, e scaldarla e accarezzarla dolcemente, un
po' come lui bambino nel letto grande di sua madre, questo sì
l'avrebbe voluto, soltanto questo.
Alla bambina spiegò, a gesti, che doveva spogliarsi e tornare
nella branda. Essa si rialzò, docile. Depose il cioccolato
sulla cassetta e poi guardò lui, interrogativamente, mentre
si disponeva a togliersi la veste. Era disposta a tutto, si capiva,
forse perché lui le aveva dato dei talleri, o per il colore
diverso della pelle, per cui uno era padrone e l'altro servo.
Ma con che animo stesse per farlo, questo non si capiva. Con acuta
amarezza percepì che proprio non c'era modo d'intendersi,
con quella gente, né a lui bastava essere padrone per pochi
talleri o per il diverso colore della pelle. La fermò con
un gesto, poi prese una coperta dalla branda e gliela porse, facendole
cenno di mettersi a dormire per terra. Essa si inchinò
e obbedì con la stessa pronta sottomissione con la quale
avrebbe fatto qualsiasi altra cosa. E subito egli spense la candela,
ma prima guardò l'orologio: erano le tre passate, una notte
persa stupidamente.
Quando furono le cinque in punto, Nasir arrivò col caffè
e dovette chiamare più volte il suo tenente prima di potergli
affidare con qualche probabilità di buona riuscita il bicchiere
di caffè bollente. Appena fu in grado di ricordarsi, egli
guardò per terra. La piccola non c'era più, naturalmente.
Nasir stesso aveva certo provveduto ad allontanarla con discrezione,
prima che il campo fosse sveglio. Cercò invano di ricordarsi
il suo nome, un nome dolce, che di sicuro nella loro lingua aveva
un significato gentile, ma lui non lo sapeva. Ad ogni modo, se
n'era andata. Con il cervello ancora intorpidito, egli beveva
il caffè, disteso sulla branda con la testa appoggiata
al gomito, e frattanto guardava fuori attraverso l'apertura della
tenda, la confusa attività che precedeva ogni partenza.
Più lontano, il grande paese abbandonato era tutto assorbito
nella foschia addensatasi dopo il morire del vento, e la foschia
attendeva il sole per disperdersi, e per il momento era luminosa
e chiara, e soltanto gli eucaliptus e le chiese sulle alture avevano
dei contorni precisi. Poteva anche essere bello, ed egli si chiese
se chissà mai nella memoria gli sarebbe rimasto qualcosa
a ricordargli ciò che stava guardando.
Poi, finito il caffè, si alzò e cominciò
a vestirsi svogliato.
NOTE:
1) ascari: soldati delle truppe coloniali italiane
2) curbasc: scuduscio di pelle.
3) Evidentemente per rastrellare eventuali resistenti all'occupazione
italiana.
4) Futa: l'abito abissino che si avvolge attorno al corpo e alla
testa.
5) Stare galla: fa parte dei galla, una popolazione etiopica di
lingua cuscuitica.
6) Talleri: il tallero d'argento di maria teresa d'Asburgo (1717-1780)
era stato adottato dall'Etiopia come unità monetaria fino
alla conquista italiana.
(da
Un po' di successo, Milano, Longanesi, 1963, pp.11-28)
L'autore, Giuseppe Berto
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