L'ASCESA DELL'UOMO PUBBLICO
Tzvetan Todorov
La
fine della Seconda Guerra mondiale in Europa risvegliò
speranze grandi almeno quanto la catastrofe che era appena finita.
Una volta sconfitto il male, si pensava che sarebbe nato un mondo
migliore, un mondo nel quale tutte le persone potevano godere
degli stessi diritti e delle stesse libertà, e nel quale
pace e prosperità potessero costituire il destino di tutti.
Ma la delusione non si è fatta attendere: non soltanto
la devastazione causata dalla guerra aveva condannato la maggior
parte dell'Europa alla povertà, ma anche le strutture politiche
rimaste in seguito ad essa non hanno avuto risultati molto felici.
Uno dei paesi vittoriosi, l'Unione Sovietica, ha imposto a gran
parte del continente un regime repressivo non molto lontano dalla
dittatura nazista.
Quanto ai paesi occidentali, sono riusciti a salvaguardare l'ordine
democratico, ma l'egoismo, la cupidigia, e addirittura la crudeltà,
hanno continuato ad oscurare il quotidiano di ciascuno di essi.
L'enorme sofferenza generata dalla guerra sembrava non essere
servita praticamente a niente, e il mondo pareva andare avanti
più o meno come prima.
Beneficiando di un distacco critico di mezzo secolo da quel difficile
periodo, possiamo affermare che si è effettivamente verificato
un cambiamento nella vita pubblica. E' stato fatto sì un
passo (o diversi) in direzione di una maggiore giustizia, e questa
conclusione positiva resiste a molte delle critiche e delle qualifiche
che sarebbero state imposte a quel momento storico. Il progresso
in questione si applica in primo luogo al continente europeo,
ma può anche servire da incentivo in altre parti del mondo.
Come era facile immaginare, il cambiamento si è espresso
più in parole che in fatti, più in dichiarazioni
ufficiali che in manipolazioni segrete, ma anche le parole hanno
un loro potere trasformatore. Le eccezioni sono numerose e a volte
scioccanti, ma il modo in cui sono viste oggi conferma una regola
che si inquadra nell'idea di giustizia.
Una delle forme più visibili di questa trasformazione è
la condanna pubblica del razzismo. Ciò non significa che
gli atteggiamenti razzisti siano spariti; ma è pur vero
che i movimenti politici della estrema destra, eredi dei partiti
apertamente razzisti del periodo tra le due guerre, non osano
proclamare questo ideale pubblicamente, conservando anch'essi
una adesione più o meno esterna al credo comune dei diritti
umani universali. Se ricordiamo per un istante i dibattiti pubblici
di cento anni fa, potremo misurare quanto lontano siamo arrivati:
a quel tempo, molte delle migliori teste manifestavano un razzismo
assolutamente sereno.
Inoltre, si è assistito ad una trasformazione parallela
riguardo al ruolo delle donne, che per la prima volta nella storia
sono diventate soggetti politici, pari agli uomini. E c'è
di più. Gesti pubblici fatti oggigiorno non hanno precedenti
storici come nel caso di governanti che riconoscono per volontà
propria gli errori del passato e cercano di riparare i danni per
i quali si ritengono responsabili.
Questi passi nella direzione di un ideale di giustizia, sono accompagnati
da una trasformazione della narrativa sul nostro passato con la
quale siamo soliti compiacerci. E' chiaro che ogni comunità
ha bisogno di presentare il suo passato sotto la forma di una
storia piena di giudizi morali, dentro la quale essa stessa svolga
un ruolo positivo: ma la forma di queste storie può cambiare.
Fino alla metà del XX secolo, la narrativa preferita dal
pubblico occidentale attribuiva un ruolo eroico alla nostra stessa
comunità: combattevamo una lotta grandiosa e degna e trionfavamo
su nostri avversari. Negli ultimi decenni assistiamo invece ad
un cambiamento di paradigma ed oggi la storia favorita è
quella malinconica nella quale svolgiamo il ruolo della vittima.
Il
ruolo della vittima. Questo cambiamento profondo forse si
spiega con il progressivo consolidamento del modello democratico.
Del resto l'ideale eroico è aristocratico; è ovvio
però che non tutti siamo fatti della materia degli eroi,
cosicché ci accontentiamo di guardarli da lontano, come
i britannici si compiacciono dello splendore della famiglia reale.
Il ruolo della vittima, purtroppo, è invece accessibile
a tutti, e non abbiamo difficoltà a proiettarci in esso.
Ma l'usurpazione della narrativa dell'eroismo ad opera della narrativa
della condizione di vittima attesta anch'essa un cambiamento positivo:
il rafforzamento, tra di noi, dell'idea di giustizia.
Questa lenta trasformazione della vita pubblica dopo la Seconda
Guerra spiega anche la comparsa di una nuova preoccupazione: la
riparazione non soltanto delle ingiustizie attuali, ma anche di
quelle fatte nel passato. Tale risarcimento ha già assunto
diverse forme, modificate dal contesto storico e politico di ogni
paese; e i libri che discutiamo qua cercano di valutare la maggior
parte di questi tentativi.
Bisogna dire subito, prima di entrare nel dettaglio, che il quadro
è tutt'altro che roseo. I mezzi usati per fomentare la
causa della giustizia a volte creano ostacoli nel suo percorso,
e le riparazioni scelte a volte creano problemi non meno seri
di quelli che dovrebbero risolvere. Nonostante ciò, l'esistenza
stessa di questi tentativi costituisce la prova di un timido avanzamento
nella concezione dei diritti umani - e, in questo campo terribile,
un piccolo miglioramento è già una gran cosa.
Misure
punitive. La riparazione di ingiustizie passate viene ricercata
in tre modi principali. Il primo nella legge, nella sfera giudiziaria,
e ha come bersagli antichi criminali. La punizione è determinata
da un tribunale incaricato di giudicare il passato. Il secondo
riguarda la vita pubblica della comunità e utilizza gli
strumenti di politica o di cultura per offrire dei compensi simbolici
o materiali alle vittime. Il terzo riguarda la comunità
nel suo insieme, mirando a restaurare l'unità di una società
segnata, definendo la verità riguardo al suo trascorso.
Il più notevole tra tutti i mezzi che possono essere utilizzati
coincide con le Commissioni di inchiesta, come la Commissione
di verità e riconciliazione del Sud Africa, il cui campo
di applicazione è la memoria collettiva della comunità.
Questi diversi interventi in nome della giustizia sembrano anche
avere i loro continenti prediletti: l'Europa continentale predilige
la riparazione giuridica, il mondo anglosassone, dal nord America
fino alla Nuova Zelanda, ha la tendenza a pagare per compensare
le vittime, mentre l'Africa, l'America latina e parte dell'Asia
preferiscono le Commissioni di inchiesta.
Ma queste divisioni non sono escludenti. La ricerca della giustizia
è necessaria tanto a livello nazionale quanto internazionale.
La fine della Seconda Guerra è stata seguita dall'istituzione
di tribunali, soprattutto nei paesi europei, e dall'affermazione
di misure punitive applicate contro diversi gruppi della popolazione.
Questo ha portato a iniziative di "pulizia etnica" in
proporzioni mai prima documentate: più di 15.000.000 di
tedeschi sono stati cacciati dall'Europa dell'est, centinaia di
migliaia di Polacchi dall'Ucraina, di Ungarici dalla Slovacchia,
di Albanesi dalla Grecia e così via.
Queste diverse misure volte a riparare un'ingiustizia all'interno
di ogni paese sono ricercate da una serie di esperti in The Politics
of Retribution in Europe (La politica della punizione in Europa,
org. di Istvan Deak, Jan T. Gross e Tony Judt, Princeton University
Press)
Molti tribunali sono stati creati durante questo periodo di "purificazione",
e l'analisi di essi, fatta oggi, genera sentimenti misti. Il problema
generale è riassunto in termini contundenti da Tony Judt:
" Come punire decine di migliaia di persone, forse milioni,
per attività che erano approvate, legalizzate, e addirittura
incoraggiate dalle istanze di potere?". Il principio di giustizia
è l'applicazione della legge- non esiste delitto senza
legge né punizione senza legge -, ma la legge non ha proibito
quegli atti oltraggianti. Devono le scelte politiche del passato
essere punite perché non sono più in vigore? Devono
tutti i membri del partito fascista in Italia essere castigati,
quando l'affiliazione al partito era obbligatoria per tutti i
funzionari pubblici?
La Giustizia si adatta a questa sfida in modo imperfetto. Essa
comincia trasgredendo uno dei suoi principi maggiori, nell'applicare
le leggi in modo retroattivo, e procede attraverso la contravvenzione
frequente di altre delle sue regole sacre tra cui quella della
responsabilità individuale. Organizzazioni politiche e
istituzioni sociali sono dichiarate illegali e così la
partecipazione avvenuta in esse diventa un delitto, anche quando
la persona che ha partecipato non ha fatto nulla personalmente.
Ma questa moltiplicazione dei colpevoli è moderata da una
selezione accurata tra coloro che saranno presentati alla Giustizia.
La situazione si presta bene alla designazione di criminali espiatori:
i tedeschi erano i colpevoli, dicono i collaborazionisti in tutti
i paesi occupati, mentre i tedeschi comuni affermano che i colpevoli
erano i leader nazisti. La cattiva fama, molte volte, conta più
degli atti veramente commessi; la punizione è inflitta
a titolo esemplificativo. Un'illustrazione della relatività
di questa giustizia è trovata nella disparità delle
sentenze imposte per gli stessi delitti, a seconda del periodo
in cui sono state imposte. Nel '45 - '46, la sentenza di morte
era comune. Due anni dopo, i colpevoli degli stessi delitti se
la cavavano con condanne puramente formali.
Questi tribunali riparatori erano imperfetti, senza dubbio- ma
sembravano anche necessari. La maggior parte della popolazione
aveva preso parte a qualcosa che in quel momento appariva essere
un errore - peggio ancora, un delitto - ,e, per liberarsi di un
diffuso sentimento di colpa e poter vivere la vita con il cuore
leggero, le persone dovevano eseguire un salasso, un espurgo,
un sacrificio rituale, dopo il quale si sarebbero potute dichiarare
innocenti e pulite. In ultima analisi è stato giudicato
meglio che le istituzioni della Giustizia intraprendessero un
lavoro di espiazione piuttosto che permettessero che l'esorcismo
della colpa degenerasse in linciaggi e violenze di massa, anche
se ciò che è accaduto non è stato, strettamente
parlando, un'operazione di giustizia.
Tribunali
dei crimini di guerra. E cosa dire della Giustizia internazionale?
Il libro di Gary Jonathan Bass, Stay the Hend of Vengeance (Ferma
la mano della vendetta, Priceton University Press), in cui si
opera una buona ricerca, è un'ottima introduzione a questa
seconda pratica giudiziaria. Il suo tema sono i tribunali dei
crimini di guerra. Bass dimostra, per cominciare, che questa forma
di giustizia non è stata inventata a Nuremberg, come si
è soliti credere. L'autore situa i primi indizi di tale
pratica nel periodo successivo alla sconfitta di Napoleone a Waterloo
e analizza alcuni tribunali che sono finiti male: a Costantinopoli,
nel 1919, quando i turchi sono stati ritenuti colpevoli del genocidio
armeno
(in questa occasione è stata coniata l'espressione "delitto
contro l'umanità") e a Lipsia, nel 1921, dove i tedeschi,
a partire dal Kaiser Guglielmo II, sono stati ritenuti responsabili
della Prima Guerra mondiale.
Per concludere, Bass esamina il caso più recente e più
familiare di Nuremberg, e anche quello del tribunale internazionale
dell'Aia, dove vengono giudicati i leaders politici e militari
responsabili della frammentazione della Jugoslavia e degli errori
perpetrati sulla sua scia. Nonostante presenti molti dei suoi
punti deboli, Bass è un difensore accanito di questo tipo
di tribunale. Afferma infatti che tale strumento di giustizia,
imperfetto che sia, è preferibile alla vendetta individuale:
cosa vera, ma certamente le due forme di intervento citate non
esauriscono il campo delle possibilità legali e morali.
Afferma anche che soltanto i governi liberali praticarono questa
forma di giustizia, e da ciò deduce la virtù della
pratica. Ma la sua deduzione presuppone che tutto ciò che
i governi liberali facciano sia buono - una premessa discutibile.
Credo che potremmo appoggiare governi liberali con entusiasmo,
ma allo stesso tempo, continuare a criticare alcune delle loro
scelte politiche.
La condanna giudiziaria dei leader politici e dei militari tedeschi
alla fine della Prima Guerra mondiale è, riguardo a questo,
piuttosto spiazzante.
Con il distacco prodotto da ottanta anni di distanza, non è
per niente chiaro se il governo e l'esercito tedesco abbiano avuto
una parte di colpa più grande della sua controparte francese;
l'unica differenza significativa è che i francesi hanno
vinto la guerra e i tedeschi l'hanno persa. Ma i governi francesi,
britannici o belgi ci tenevano a sommare alla sconfitta militare
una sconfitta legale. Nel farlo, rivelarono che i grandi principi
della Giustizia potevano servire come semplice camuffamento per
una politica di interessi propri. Qualche anno più tardi,
non essendo totalmente convinti che lo sforzo fosse compensato
dal risultato, gli alleati rinunciarono alle accuse. Il tribunale
di Lipsia è stato un fiasco.
Ma la storia di questo tentativo ha alcune lezioni utili da offrire.
Lloyd George, primo ministro britannico, diceva che "la guerra
stessa è un crimine contro l'umanità", e, in
una riunione del Consiglio di guerra dell'impero, il procuratore
generale ha ritenuto il Kaiser "personalmente responsabile
delle morti di milioni di giovani". Con queste affermazioni,
lasciarono capire che sottoscrivevano ideali utopici ingenui e
potenzialmente pericolosi con i quali speravano di far guarire
definitivamente tutta l'umanità dai suoi mali, come la
pratica della guerra e cercavano di attribuire la responsabilità
di quest'ultima alla volontà di un unico individuo.
I risultati sono stati molto negativi. Il tribunale di Lipsia
non è riuscito a impedire che fossero commessi delitti
futuri. Al contrario: ha regalato ai tedeschi nazionalisti una
ragione per riprendere la lotta e ha anche compromesso l'idea
di un organo di Giustizia internazionale imparziale. In paragone
a Lipsia, il tribunale di Norimberga, un quarto di secolo più
tardi, è stato un grande successo. Ma ciò è
accaduto perché le circostanze erano esse stesse cambiate.
Diversamente dalla Prima Guerra mondiale, originata dalla rivalità
tra le grandi potenze, la Seconda Guerra è stata iniziata
attivamente da una soltanto delle parti coinvolte, cosicché
la colpa della Germania Nazista era molto più ovvia, più
reale. Le immagini dei lager evocavano condanne morali unanimi.
Guerre
di aggressioni. La Germania era inoltre occupata e i suoi
leader erano stati fatti prigionieri. La questione che ha preceduto
Norimberga non era "Devono i leader nazisti essere puniti
o liberati?" quanto piuttosto " Devono i leader nazisti
essere giustiziati senza un processo o devono essere giudicati?"
.
Stalin pendeva per la prima opzione e offrì i suoi servizi
per eliminare cinquanta o centomila di loro - dopo tutto, avevano
l'esperienza necessaria. Il segretario americano del Tesoro, Henry
Morgenthau Jr., ha lanciato la crudele proposta di deportare parecchi
milioni di tedeschi dall'altro lato del pianeta; ricordando che
i turchi sì, sapevano trattare bene le popolazioni straniere.
Churchill e Roosvelt considerarono addirittura la possibilità
di castrare tutta la popolazione maschile della Germania. E' stato
soltanto l'ostinato attaccamento alla legalità del Segretario
di guerra americano, Henry Stimpson, a rendere possibile che i
processi nel tribunale di Norimberga fossero condotti con gli
accusati aventi la garanzia di avvocati di difesa, l'obbligatorietà
delle deposizioni dei testimoni, e la possibilità, da parte
degli accusati, di essere assolti.
L'aspetto più preoccupante del tribunale di Norimberga
è che il genocidio degli ebrei e delle altre popolazioni
- quello che chiamiamo "crimine contro l'umanità"
e che, precisamente, ci sembra essere stata la ragione più
valida per l'instaurazione di quella giurisdizione di eccezione
- ha svolto un ruolo soltanto periferico nelle procedure. La principale
accusa fatta ai leader nazisti puntò verso una direzione
totalmente diversa: loro sarebbero stati colpevoli di aver condotto
una guerra di aggressione. E' vero, con certezza, che la Seconda
Guerra mondiale è stata scatenata dalle politiche aggressive
della Germania, ma è ugualmente vero che le altre grandi
potenze non esitarono, in altre occasioni, a provocare esse stesse
guerre di aggressione.
Quanto all'Unione Sovietica, nella quale milioni di persone sono
state condotte alla morte da un regime non meno repressivo di
quello di Hitler, essa ha condiviso le politiche aggressive della
Germania per qualche tempo, occupando la parte orientale della
Polonia mentre Hitler conquistava la parte occidentale. Per questa
ragione, come osservò Judit Shklar, era un " progetto
di valore dubbio" condannare qualcuno legalmente per aver
combattuto in una guerra ingiusta. La stessa presenza dei sovietici
a Norimberga creava un problema. Stalin non era meno criminale
di Hitler. La differenza è che uno di loro aveva vinto
e l'altro era stato sconfitto.
Norimberga, a sua volta, ha condannato accusati che non avevano
violato leggi in grande quantità e ha punito alcuni di
loro per delitti collettivi. Nonostante ciò, l'effetto
generale di Norimberga è stato positivo. Poiché
c'è qualcosa di veramente nuovo nei crimini totalitari,
nei crimini dello Stato, che il vecchio codice legale non aveva
contemplato, e l'introduzione nella legge del concetto di crimini
contro l'umanità è stato un modo per rimediare a
questa mancanza. Oggi non possiamo più affermare di non
sapere che certi atti siano criminali, a prescindere dalle leggi
del paese in cui sono stati commessi. Il tribunale di Norimberga
ha contribuito anche alla trasformazione della Germania in un
paese democratico, per quanto, trent'anni più tardi, una
nuova generazione avrebbe avuto bisogno di questionare la condotta
dei cittadini comuni nella Germania di Hitler, e non solo la condotta
dei suoi leaders.
Quasi cinquant'anni dopo Norimberga, nel Febbraio del 1993, un
nuovo tribunale di crimini di guerra è stato creato nell'Aia
per giudicare i responsabili dei crimini di guerra in Jugoslavia.
Sarà giustificabile la creazione di questa nuova istituzione?
La risposta non è ovvia. Come ricorda Bass, con tutta ragione,
questo tribunale non è stato creato semplicemente in funzione
del desiderio di vedere la giustizia prevalere. Oltre a questo,
è infatti risultato incidente il rifiuto da parte delle
potenze occidentali di intervenire militarmente e anche politicamente
in Bosnia. L'opinione pubblica è stata sensibilizzata dalle
immagini di sofferenza diffuse quotidianamente dalla televisione,
e il tribunale è stato creato per alleviare un po' il peso
della coscienza.
L'assenza di entusiasmo politico per il tribunale rese più
difficili i suoi sforzi: mancarono i mezzi materiali di cui necessitavano,
i governi occidentali si rifiutarono di cedere i loro soldati
per operazioni rischiose di catture dei sospettati e, in una situazione
di conflitto ancora in corso, era difficile ottenere testimonianze
affidabili.
Le azioni del tribunale durante la crisi del Kossovo, nemmeno
gli valsero l'appoggio unanime. Accusare Milosevich e altri leaders
jugoslavi di crimini contro i civili mentre la Provincia era bombardata,
è stata un'impresa piuttosto discutibile. Il tribunale,
finanziato e sostenuto dai paesi occidentali, accusò l'Esercito
del nemico dell'Occidente di crimini di guerra. Quindi, non si
può affermare che siano state rispettate le condizioni
di una giustizia imparziale. Nel formulare i termini di accusa,
l'avvocato responsabile, Louise Arbor, conquistò l'attenzione
dei media, ma compromise l'idea di giustizia, nel trasformarla
in strumento ausiliare per il conseguimento di fini politici e
militari.
Come altre organizzazioni di aiuto umanitario il tribunale aveva
l'obbligo di non lasciarsi coinvolgere dall'apparato della Nato.
Organizzazioni come l'Amnistia Internazionale e il Human Rights
Watch richiamavano l'attenzione per le violazioni della legge
internazionale commesse dalla Nato, ma i loro appelli in tribunale
erano ignorati. Atti che, commessi dai Serbi, erano descritti
come crimini di guerra venivano qualificati come " danni
collaterali" quando commessi dai paesi occidentali coinvolti.
Gli sforzi attuali per creare una Corte Penale Internazionale
sono altrettanto dubbi. Richard Goldstone, il giudice sud africano
che ha lavorato all'Aia, ha scritto un libro deludente, For humanity
( Per l'umanità, Yale University Press), nel quale ci rivela
più informazioni su stanze d'albergo e menù di ristoranti
che non sulla sua filosofia riguardo la giustizia internazionale.
Goldstone dice che "l'approccio infelice dell'Amministrazione
americana nella conferenza di Roma" è stato il principale
ostacolo alla realizzazione di questo progetto. Gli Stati Uniti
si rifiutano di vedere uno dei suoi cittadini accusato da questo
tribunale senza il suo previo consenso - ossia, si rifiutano di
accettare che una istituzione internazionale abbia la precedenza
sulle decisioni del governo nazionale (l'ex presidente Clinton
recentemente ha firmato un trattato ma nessuno pensa sul serio
che sarà ratificato dal Senato).
Azioni
riparatrici. Lasciando perdere l'obiezione americana, possiamo
ancora chiederci se il progetto di una Corte di Giustizia internazionale
permanente meriti o no di essere difeso. E' un'idea nobile e generosa,
senza dubbio, ma, per essere efficace, tale istituzione di giustizia
avrebbe bisogno di avere a sua disposizione una forza di polizia,
e tale forza dovrà necessariamente essere convocata da
paesi specifici e, quindi, risulterà soggetta agli ordini
dei singoli governi, che potrebbero esigerne l'esenzione dagli
obblighi collettivi (eccetto, è chiaro, nell'ipotesi in
cui fosse creato uno Stato universale così come sognavano
i dittatori totalitari della prima metà del secolo - soluzione
questa altrettanto poco allettante).
La seconda grande maniera di riparare alle ingiustizie passate
consiste nel preoccuparci principalmente delle vittime e non più
dei colpevoli. Questo tipo di azione è il tema del libro
di Elazar Barkan, The Guilt of Nations (La colpa delle
nazioni, W. W. Norton), che ha il merito di riunire casi recenti
di espiazione, tutti molto diversi tra loro, per offrire una visione
ampia di un simile approccio. Questi casi si dividono in due contesti
storici, uno di loro legato alle conseguenze della Seconda Guerra,
e l'altro, alla decolonizzazione. Il compenso offerto alle vittime
o è simbolico, o è materiale. Non dobbiamo sotto
stimare il potere del simbolismo, con la scusa che esso non fa
niente per il nostro conto bancario. Nella realtà spirituale,
psicologica e sociale, è della riparazione simbolica che
la vittima ha più bisogno, tanto è vero che la compensazione
materiale ha valore proprio in relazione al riconoscimento simbolico
che essa porta in sé.
Le vittime vogliono che il male e l'ingiustizia inflitti siano
riconosciuti, perché possano finalmente ricostruire le
loro identità; hanno bisogno della solidarietà pubblica,
in grado di conferire un qualche senso all'esperienza truce che
hanno vissuto e di trasformare la violenza che hanno subito in
un atto che la società condanni.
Il primo caso importante di compensazione materiale offerta alle
ex vittime è stata la decisione tedesca di pagare indennizzi
alle famiglie ebree private dei loro possedimenti durante la guerra,
e, più tardi, di fare lo stesso con lo Stato di Israele
- una decisione che i leaders tedeschi, capeggiati da Konrad Adenauer,
hanno preso di spontanea volontà, per quanto non mancassero
pressioni esterne in tal senso. Giudicarono che questo fosse il
prezzo necessario che la Germania avrebbe dovuto pagare per poter
reintegrarsi nella famiglia delle nazioni. Da allora, questi risarcimenti,
assommano già a più di US$ 60 miliardi.
Una
storia molto lunga. Questa evoluzione della moralità
pubblica è nuova, e anch'essa rappresenta un rinforzo dell'idea
di giustizia. Ma suscita anche problemi la cui soluzione non è
facile. Per cominciare, esiste sempre la questione su cosa vogliamo
intendere con "passato" . La storia è molto lunga
e non sempre è chiaro fino a che punto possiamo retrocedere
per cercare di riparare le atrocità del passato. Oggi,
in diversi paesi dell'est europeo, proprietà perdute sotto
il regime comunista, sono restituite ai loro proprietari originali.
Ma quanti titoli di proprietà dovranno essere restaurati?
I contadini ungarici sono stati privati della loro terra nel 1950,
nell'interesse della collettivizzazione - ma queste terre erano
state date loro nel 1945 da un governo al quale i comunisti già
partecipavano. Se una di queste decisioni è stata legittima,
perché non l'altra? E il regime anteriore a quello è
stato esso stesso una dittatura; sarà che tutti i suoi
atti devono essere considerati legittimi?
Queste domande possono essere poste in modo ancora più
contundente riguardo al mondo post -coloniale, nella misura in
cui gli atti che cerchiamo di "sfare" sono oggi ancor
più distanti nel tempo. Quando si sentono le esigenze formulate
da gruppi che parlano in nome delle antiche vittime, si ha spesso
l'impressione di essere costretti ad entrare in una macchina del
tempo, nel tentativo di cancellare la storia come essa di fatto
è accaduta, per poi riscriverla secondo i nostri principi
morali attuali.
Questi tentativi sono ancora più paradossali nella misura
in cui vengono talvolta ritrattati come fossero stati convalidati
di fronte a tribunali che sono, loro stessi, un prodotto di questa
storia, e che molte volte si riferiscono ad un passato che è
più mistico che vero. C'era uno spazio politico indigeno
che l'arrivo di Cristoforo Colombo, nel 1492, ha distrutto; deve
questo spazio essere restaurato oggi? Prima dell'arrivo dei bianchi
nelle Americhe, gli Indios Americani vivevano in condizioni di
splendore - che la società contemporanea potrebbe avere
l'obbligo morale di restaurare - o di povertà?
Inoltre, passati uno o due secoli, l'identificazione degli attuali
rappresentanti, di vittime e di carnefici è piuttosto problematica.
La pratica della schiavitù è stata un male, ma perché
i discendenti degli irlandesi e degli italiani che sono arrivati
negli Stati Uniti all'inizio del XX secolo dovrebbero pagare oggi
le riparazioni per essa? C'è stato qualcosa di inutile
e di falso nel gesto fatto da Clinton in Africa: lui ha chiesto
di essere perdonato per atti commessi due secoli prima, per i
quali lui non aveva alcuna responsabilità, allo stesso
tempo in cui rifuggiva la responsabilità dai suoi propri
errori. C'è un momento in cui il principio
della giustizia storica entra in conflitto con il principio della
responsabilità individuale. Riparare un'ingiustizia nei
confronti di una persona viva è un dovere, ma farlo nei
confronti di un'entità astratta è un'azione molto
meno chiara e molto meno obbligatoria.
In tutti questi conflitti, i diritti dell'individuo si scontrano
con i diritti del gruppo. In un passato piuttosto lontano dei
popoli colonizzati, gli individui non avevano voce attiva; erano
costretti a sottomettersi alle decisioni del gruppo. Ma sarà
legittimo ricreare oggi tali situazioni? Nei nostri giorni un
discendente dei Sieoux avrà il diritto di accettare un
indennizzo per le sue terre rubate e di conseguenza di rinunciare
al diritto che il popolo dei Sieoux avrebbe dovuto avere su queste
terre? Un artista individuale ha il diritto di adattare un patrimonio
culturale tradizionale per i suoi fini personali o dovrebbe dedicarsi
alla preservazione di tale tradizione, a rischio di vedersi accusato
di genocidio culturale?
A volte la fedeltà alla storia può trasformarsi
in una forma di oppressione. Queste esigenze di mantenere o di
restaurare il passato sembrano non prendere in considerazione
il fatto che tutte le tradizioni vive cambiano e che soltanto
le culture morte rimangono intatte. La recente promozione dei
diritti dei gruppi non è necessariamente un progresso:
un individuo ha il diritto di praticare la cultura che sceglierà,
di partecipare a questo gruppo piuttosto che all'altro - ma avrà
anche il diritto di liberarsi dalla pressione di qualunque gruppo.
Per concludere, esitiamo nel ratificare una identità permanente
con la condizione di vittima. Il nostro mondo, che si compiace
in tutto ciò che è sentimentale e brama per lo spettacolare,
conferisce uno spazio privilegiato al soffrire. I protagonisti
di situazioni di conflitto sanno questo benissimo e cercano di
ottenere la solidarietà generale esibendo le loro ferite
dinnanzi al mondo e, a volte, arrivando al punto di attaccare
le proprie posizioni perché i danni suscitino compassione
e solidarietà in suo favore. Ma la sofferenza di un gruppo
non prova che la sua causa sia giusta, e la compassione, da sola,
non può assumere il posto della politica. La vita comunitaria
ha bisogno di basarsi non sulla quantità di dolore subito
da questo o quel gruppo di persone, ma sull'uguaglianza dei diritti.
Riconciliazione
con il nemico. Inoltre una persona che si vede esclusivamente
come vittima molte volte si mantiene indifferente alle proprie
responsabilità e alla sofferenza che essa stessa può
causare. Essa si contenta di sperare che la giustizia sia fatta.
"La vittimizzazione conferisce potere alla vittima",
come osserva Barkan, e ce ne sono molte che si dispongono a profittare
di questo potere. La cosa a volte degenera trasformandosi in una
competizione per vedere chi ha sofferto di più. Così,
alcuni ebrei americani negano che i Nippo-americani chiusi nei
lager durante la Seconda Guerra mondiale possano utilizzare l'espressione
"lager" e contestano il diritto degli americani di origine
armena di parlare di "genocidio".
Riconoscere i propri errori e punti deboli ci mette in condizione
di coinvolgerci in una sfida personale e di promuovere una trasformazione
morale; già rivendicare le prerogative di vittima non aggiunge
niente al nostro valore morale, paradossalmente il contributo
positivo della vittima all'educazione morale della società
consiste nell'offrire al responsabile la possibilità di
riparare ai suoi errori. Da questo punto di vista gli effetti
della punizione sono ambigui: "Nessuna riparazione o punizione
imposta ha ridotto il peso della vittimizzazione", conclude
Barkan. " Invece lo ha trasformato in routine".
Con ciò, siamo arrivati al terzo metodo di riparazione
che non cerca né di punire i colpevoli né di pagare
i compensi alle vittime, ma permette invece che un'intera comunità
si riconcili con se stessa. E' chiaro che è anche possibile
perseguire questo scopo attraverso la punizione e la riparazione,
ma certe affinità e istituzioni sono state create specificamente
a tal fine: la commissione di inchiesta incaricata di produrre
un'immagine del passato che sia accettabile da tutti .
Il libro di Priscilla Heyner Unspeakble Truths (Verità
inesprimibile, Routledge) fornisce un inventario utile del lavoro
di ventuno commissioni di questo tipo in tutto il mondo, e il
libro di Robert Rotberg e Dennis Thopson, Truth v. Justice ( Verità
contro giustizia, Princeton University Press), è una collana
di saggi dedicati al più conosciuto di questi organismi,
la Comissione di verità e di riconcilizione del Sud Africa.
Vittime
e responsabili: Ci sono circostanze nelle quali punire i colpevoli
e offrire risarcimenti alle vittime sembra essere impraticabile
- specialmente in quelle situazioni, altamente difficili, nelle
quali, in seguito ad un cambiamento radicale di orientamento politico,
si può verificare che gran parte della popolazione abbia
preso parte a qualcosa che ora viene considerato come un delitto,
e una parte ancor più grande di essa ne abbia subito le
conseguenze. Questa è stata la situazione verificatasi
dopo il crollo delle dittature militari nell'America Latina, del
regime di Apartheid nel Sud- Africa e nei regimi comunisti nell'Europa
orientale.
A
volte non è facile distinguere fra vittime e carnefici.
Sotto un regime totalitario la maggior parte della popolazione
è allo stesso tempo complice e vittima dei responsabili.
Siccome non è possibile risarcire tutte le vittime né
punire tutti i colpevoli, e siccome l'idea di una amnistia generale,
pura e semplice, come se niente fosse accaduto, è altrettanto
inammissibile, la soluzione che rimane, scelta da diversi paesi,
è quella di creare una Commissione di inchiesta.
La Commissione di inchiesta creata nel Sud Africa ha identificato
i suoi scopi in "verità e riconciliazione". Si
è presentata, senza mezzi termini, come alternativa alla
giustizia. E' stato anche detto che essa rappresentava una nuova
forma di giustizia, una giustizia "restauratrice", in
opposizione alla giustizia "punitiva". Ma non è
chiaro se vi sia stato qualche effettivo vantaggio in tale innovazione
terminologica. Questo perché il lavoro delle commissioni
è molto diverso da quello dei tribunali.
Le commissioni hanno un fine, che è la pace sociale e la
riconciliazione tra i diversi settori della popolazione, e partono
dalla premessa che esista un metodo specifico capace di condurre
alla pace sociale: questo metodo è la determinazione pubblica
della verità. Per concludere, queste commissioni si dispongono
a pagare il prezzo necessario per conseguire tale risultato: che
le persone che accettano di rivelare i loro delitti passati ricevano
l'amnistia e la garanzia che non dovranno affrontare accuse legali.
Queste commissioni sembrano aver sommato le lezioni della confessione
cristiana e della cura psicanalitica: come la prima, collegano
l'assoluzione alla confessione, e, come la seconda, credono che
parlare sul trauma permetta di liberarsi da esso.
Ma si potrebbe veramente affermare che la verità è
stata di fatto stabilita? Difficilmente. Come hanno osservato
i critici della commissione essa non possedeva i mezzi per verificare
le testimonianze, e, per questo, ha dovuto accontentarsi di tali
resoconti. La "verità" stabilita nei tribunali
di Giustizia è superiore a questa, poiché le relazioni
della polizia, gli interrogatori, e il lavoro di laboratorio aiutano
a ristabilire fatti inconfutabili. Inoltre, l'idea stessa di una
verità registrata una volta per tutte, anche se ottenuta
da una commissione composta di uomini di buona volontà,
racchiude in sé qualcosa di problematico, e non solo per
l'esercito dei "decostruzionisti" che non credono nell'esistenza
della verità.
Così, sembra giusto concludere che le commissioni di inchiesta
che hanno proliferato negli ultimi anni non abbiano effettivamente
aiutato né la Giustizia né la verità, e,
men che meno, la riconciliazione. Nonostante ciò l'opinione
pubblica è estremamente favorevole ad esse, e altri paesi
pensano di creare commissioni del genere. Come spiegare questa
realtà? La risposta sta nel fatto che gli effetti positivi
di queste commissioni non si situano esattamente al livello che
le persone immaginano.
Non è vero, per esempio, che i colpevoli sfuggono ad ogni
punizione quando confessano i loro crimini: nell'ammettere che
hanno preso parte ad atti reprensibili - assassinii, torture,
stupri - fanno ricadere su di loro il temibile potere dell'obrobrio
sociale, e dovranno così vivere vergognandosi ancora per
molto tempo. "L'esposizione è la punizione",
come ha sottolineato un osservatore.
Nemmeno è vero che le famiglie dei morti non guadagnano
nulla per il fatto di non ottenere né compensazione economica
né la punizione dei colpevoli. Nel trascorso delle sessioni
della commissione, svolgono infatti un ruolo attivo per riportare
a galla la verità, e, con questo, è concesso loro
un modo per sfuggire alla passività della condizione di
vittime. Per i familiari degli assassinati, l'inchiesta conferisce
un senso a quello che è successo, e un senso tragico è
meglio sicuramente che nessun senso. Con ciò sono dunque
integrati nella vita in società.
Il lavoro delle commissioni rivela anche un'altra necessità
delle società umane, una necessità che, senza di
loro, sarebbe potuta passare inosservata: come membri di una comunità,
tutti noi desideriamo avere a nostra disposizione una certa immagine
della nostra identità collettiva, tale che includa anche
un consenso generale sul significato del nostro passato. Questo
consenso non sarà mai perfetto: ci saranno sempre individui
in Francia che penseranno che l'occupazione tedesca del 1940 è
stata una bella cosa, e la resistenza ad essa, una cosa deplorevole;
ma la stragrande maggioranza della popolazione pensa il contrario,
e questa concordanza è indispensabile per la salute morale
della società. La stessa cosa si applica alla condanna
della apartheid nel Sudafrica, degli assassini e delle
torture avvenuti sotto la dittatura militare argentina.
Questa memoria collettiva, questa narrativa comune, non ha bisogno
di essere precisa come il lavoro degli storici. Essa riguarda
non la conoscenza, ma il riconoscimento. L'importante è
che sia formulata pubblicamente e rinforzata dalle sanzioni delle
autorità politiche ufficiali: il governo e il parlamento.
Possiamo anche credere di essere individualisti duri, puri e moderni
sofisticati, ma non abbiamo meno bisogno dei nostri antenati di
un'immagine comune del passato, capace di conferirci una moralità
a sua volta comune.
Cosa, allora, dobbiamo pensare dei contemporanei tentativi di
riparare le ingiustizie del passato? In primo luogo, sono giustificate.
Una volta introdotta la violenza nella storia, essa continua a
esercitare i suoi effetti maligni per decenni o anche per secoli.
I crimini di Hitler continuano a colpire le persone ancora oggi,
così come le crudeltà commesse nella guerra dei
Boers continuano ad influire su quelle del regime dell'apartheid,
e la violenza commessa nella guerra coloniale in Algeria, negli
anni '50, spiega in parte i massacri recenti in quel paese. Il
modo di riparare a queste situazioni non è reprimere il
passato, cercare di dimenticarlo - la repressione genera soltanto
nevrosi, causa frustrazioni e provoca la vendetta irrazionale.
E' meglio partire verso un atto pubblico di riparazione.
Evidentemente questa scelta rappresenta un'impresa rischiosa.
Ristabilire un legame tra moralità e politica significa
andare contromano rispetto al grande movimento della modernità
che è stato responsabile per lo stabilimento delle democrazie
(le sanguinose Crociate del Medioevo sono state condotte in nome
del bene). Corriamo anche il rischio di praticare una politica
nella quale soltanto le giustificazioni siano morali, e non le
vere motivazioni; dopotutto, la colonizzazione nel XIX secolo
voleva giustificarsi attraverso i valori della civiltà,
come necessità di difendere i diritti umani.
Più che la nostra idea di un universo familiarizzato con
il caos e la contingenza, nel quale il controllo completo sugli
avvenimenti è impossibile, il sogno di un mondo nel quale
tutte le ingiustizie siano corrette ricorda la nozione che i nostri
antenati avevano di una vita vissuta in sottomissione alla Divina
Provvidenza.
E' per questo che l'azione riparatrice è desiderabile,
ma non in tutte le sue forme. Dobbiamo sempre ricordarci che il
potere ama mascherarsi in diritto, e che questo non fa diventare
più accettabile il suo dominio. Cosa vale la Giustizia
internazionale se i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite hanno il diritto di vietare tutte le sue decisioni?
Come può essere legittimo il cosiddetto "diritto di
intervento" quando è applicato soltanto ai paesi deboli
che non si annoverano tra i nostri amici? Cos'è questo
diritto che, per definizione, esenta i membri potenti del G-8?
Il governo americano non ha voluto mai pentirsi delle violazioni
dei diritti umani commessi dai suoi agenti in El Salvador e in
Guatemala, nelle Haiti o in Cile, né accettare le conclusioni
schiaccianti formulate dalle diverse commissioni di inchiesta
create dalle Nazioni Unite, e, quindi anche dagli Stati Uniti.
Non è difficile capire perché il presidente Jugoslavo
Vojislav Kostumika non si fidi delle commissioni e dei tribunali
internazionali. Nel mondo reale, la scelta in generale non si
ha tra una "Realpolitik" e una "Moralpolitik",
ma tra due politiche di forza, una franca e l'altra ipocrita.
Ma questa osservazione sobria non ci deve condannare all'immobilità.
Nel mondo della politica, il principio del mezzo escluso raramente
si applica. Molto più efficace di questi tentativi di creare
un nuovo ordine mondiale basato sulla virtù e la Giustizia
sono gli atti politici all'interno di un paese o tra due paesi.
L'azione politica non è necessariamente una continuazione
della guerra con altri mezzi; essa può anche intervenire
nel dominio simbolico per riparare, e così, migliorare
la vita della comunità. La comunità ha bisogno di
un'immagine comune del suo passato che sia più in armonia
con la Giustizia, e le commissioni di inchiesta e gli organismi
politici legittimi, tali come i governi e i parlamenti , sono
lì per contribuire a ciò. Tali azioni non sempre
sono sensazionali. Esse richiedono pazienza e persistenza e non
ci permettono di vedere noi stessi come paradigmi della virtù.
E' possibile che siano gli unici modi affidabili per creare un
po' più di giustizia in questo mondo ingiusto.
(Questo
testo è stato pubblicato originariamente su The New Republic).
Tzvetan
Todorov è un teorico di letteratura e un saggista politco,
autore, tra gli altri, di I generi del discorso e La
conquista dell'America.
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