L'ASCESA DELL'UOMO PUBBLICO


Tzvetan Todorov

La fine della Seconda Guerra mondiale in Europa risvegliò speranze grandi almeno quanto la catastrofe che era appena finita. Una volta sconfitto il male, si pensava che sarebbe nato un mondo migliore, un mondo nel quale tutte le persone potevano godere degli stessi diritti e delle stesse libertà, e nel quale pace e prosperità potessero costituire il destino di tutti. Ma la delusione non si è fatta attendere: non soltanto la devastazione causata dalla guerra aveva condannato la maggior parte dell'Europa alla povertà, ma anche le strutture politiche rimaste in seguito ad essa non hanno avuto risultati molto felici. Uno dei paesi vittoriosi, l'Unione Sovietica, ha imposto a gran parte del continente un regime repressivo non molto lontano dalla dittatura nazista.
Quanto ai paesi occidentali, sono riusciti a salvaguardare l'ordine democratico, ma l'egoismo, la cupidigia, e addirittura la crudeltà, hanno continuato ad oscurare il quotidiano di ciascuno di essi. L'enorme sofferenza generata dalla guerra sembrava non essere servita praticamente a niente, e il mondo pareva andare avanti più o meno come prima.
Beneficiando di un distacco critico di mezzo secolo da quel difficile periodo, possiamo affermare che si è effettivamente verificato un cambiamento nella vita pubblica. E' stato fatto sì un passo (o diversi) in direzione di una maggiore giustizia, e questa conclusione positiva resiste a molte delle critiche e delle qualifiche che sarebbero state imposte a quel momento storico. Il progresso in questione si applica in primo luogo al continente europeo, ma può anche servire da incentivo in altre parti del mondo. Come era facile immaginare, il cambiamento si è espresso più in parole che in fatti, più in dichiarazioni ufficiali che in manipolazioni segrete, ma anche le parole hanno un loro potere trasformatore. Le eccezioni sono numerose e a volte scioccanti, ma il modo in cui sono viste oggi conferma una regola che si inquadra nell'idea di giustizia.
Una delle forme più visibili di questa trasformazione è la condanna pubblica del razzismo. Ciò non significa che gli atteggiamenti razzisti siano spariti; ma è pur vero che i movimenti politici della estrema destra, eredi dei partiti apertamente razzisti del periodo tra le due guerre, non osano proclamare questo ideale pubblicamente, conservando anch'essi una adesione più o meno esterna al credo comune dei diritti umani universali. Se ricordiamo per un istante i dibattiti pubblici di cento anni fa, potremo misurare quanto lontano siamo arrivati: a quel tempo, molte delle migliori teste manifestavano un razzismo assolutamente sereno.
Inoltre, si è assistito ad una trasformazione parallela riguardo al ruolo delle donne, che per la prima volta nella storia sono diventate soggetti politici, pari agli uomini. E c'è di più. Gesti pubblici fatti oggigiorno non hanno precedenti storici come nel caso di governanti che riconoscono per volontà propria gli errori del passato e cercano di riparare i danni per i quali si ritengono responsabili.
Questi passi nella direzione di un ideale di giustizia, sono accompagnati da una trasformazione della narrativa sul nostro passato con la quale siamo soliti compiacerci. E' chiaro che ogni comunità ha bisogno di presentare il suo passato sotto la forma di una storia piena di giudizi morali, dentro la quale essa stessa svolga un ruolo positivo: ma la forma di queste storie può cambiare. Fino alla metà del XX secolo, la narrativa preferita dal pubblico occidentale attribuiva un ruolo eroico alla nostra stessa comunità: combattevamo una lotta grandiosa e degna e trionfavamo su nostri avversari. Negli ultimi decenni assistiamo invece ad un cambiamento di paradigma ed oggi la storia favorita è quella malinconica nella quale svolgiamo il ruolo della vittima.

Il ruolo della vittima. Questo cambiamento profondo forse si spiega con il progressivo consolidamento del modello democratico. Del resto l'ideale eroico è aristocratico; è ovvio però che non tutti siamo fatti della materia degli eroi, cosicché ci accontentiamo di guardarli da lontano, come i britannici si compiacciono dello splendore della famiglia reale.
Il ruolo della vittima, purtroppo, è invece accessibile a tutti, e non abbiamo difficoltà a proiettarci in esso. Ma l'usurpazione della narrativa dell'eroismo ad opera della narrativa della condizione di vittima attesta anch'essa un cambiamento positivo: il rafforzamento, tra di noi, dell'idea di giustizia.
Questa lenta trasformazione della vita pubblica dopo la Seconda Guerra spiega anche la comparsa di una nuova preoccupazione: la riparazione non soltanto delle ingiustizie attuali, ma anche di quelle fatte nel passato. Tale risarcimento ha già assunto diverse forme, modificate dal contesto storico e politico di ogni paese; e i libri che discutiamo qua cercano di valutare la maggior parte di questi tentativi.
Bisogna dire subito, prima di entrare nel dettaglio, che il quadro è tutt'altro che roseo. I mezzi usati per fomentare la causa della giustizia a volte creano ostacoli nel suo percorso, e le riparazioni scelte a volte creano problemi non meno seri di quelli che dovrebbero risolvere. Nonostante ciò, l'esistenza stessa di questi tentativi costituisce la prova di un timido avanzamento nella concezione dei diritti umani - e, in questo campo terribile, un piccolo miglioramento è già una gran cosa.

Misure punitive. La riparazione di ingiustizie passate viene ricercata in tre modi principali. Il primo nella legge, nella sfera giudiziaria, e ha come bersagli antichi criminali. La punizione è determinata da un tribunale incaricato di giudicare il passato. Il secondo riguarda la vita pubblica della comunità e utilizza gli strumenti di politica o di cultura per offrire dei compensi simbolici o materiali alle vittime. Il terzo riguarda la comunità nel suo insieme, mirando a restaurare l'unità di una società segnata, definendo la verità riguardo al suo trascorso. Il più notevole tra tutti i mezzi che possono essere utilizzati coincide con le Commissioni di inchiesta, come la Commissione di verità e riconciliazione del Sud Africa, il cui campo di applicazione è la memoria collettiva della comunità.
Questi diversi interventi in nome della giustizia sembrano anche avere i loro continenti prediletti: l'Europa continentale predilige la riparazione giuridica, il mondo anglosassone, dal nord America fino alla Nuova Zelanda, ha la tendenza a pagare per compensare le vittime, mentre l'Africa, l'America latina e parte dell'Asia preferiscono le Commissioni di inchiesta.
Ma queste divisioni non sono escludenti. La ricerca della giustizia è necessaria tanto a livello nazionale quanto internazionale. La fine della Seconda Guerra è stata seguita dall'istituzione di tribunali, soprattutto nei paesi europei, e dall'affermazione di misure punitive applicate contro diversi gruppi della popolazione. Questo ha portato a iniziative di "pulizia etnica" in proporzioni mai prima documentate: più di 15.000.000 di tedeschi sono stati cacciati dall'Europa dell'est, centinaia di migliaia di Polacchi dall'Ucraina, di Ungarici dalla Slovacchia, di Albanesi dalla Grecia e così via.
Queste diverse misure volte a riparare un'ingiustizia all'interno di ogni paese sono ricercate da una serie di esperti in The Politics of Retribution in Europe (La politica della punizione in Europa, org. di Istvan Deak, Jan T. Gross e Tony Judt, Princeton University Press)
Molti tribunali sono stati creati durante questo periodo di "purificazione", e l'analisi di essi, fatta oggi, genera sentimenti misti. Il problema generale è riassunto in termini contundenti da Tony Judt: " Come punire decine di migliaia di persone, forse milioni, per attività che erano approvate, legalizzate, e addirittura incoraggiate dalle istanze di potere?". Il principio di giustizia è l'applicazione della legge- non esiste delitto senza legge né punizione senza legge -, ma la legge non ha proibito quegli atti oltraggianti. Devono le scelte politiche del passato essere punite perché non sono più in vigore? Devono tutti i membri del partito fascista in Italia essere castigati, quando l'affiliazione al partito era obbligatoria per tutti i funzionari pubblici?
La Giustizia si adatta a questa sfida in modo imperfetto. Essa comincia trasgredendo uno dei suoi principi maggiori, nell'applicare le leggi in modo retroattivo, e procede attraverso la contravvenzione frequente di altre delle sue regole sacre tra cui quella della responsabilità individuale. Organizzazioni politiche e istituzioni sociali sono dichiarate illegali e così la partecipazione avvenuta in esse diventa un delitto, anche quando la persona che ha partecipato non ha fatto nulla personalmente. Ma questa moltiplicazione dei colpevoli è moderata da una selezione accurata tra coloro che saranno presentati alla Giustizia.
La situazione si presta bene alla designazione di criminali espiatori: i tedeschi erano i colpevoli, dicono i collaborazionisti in tutti i paesi occupati, mentre i tedeschi comuni affermano che i colpevoli erano i leader nazisti. La cattiva fama, molte volte, conta più degli atti veramente commessi; la punizione è inflitta a titolo esemplificativo. Un'illustrazione della relatività di questa giustizia è trovata nella disparità delle sentenze imposte per gli stessi delitti, a seconda del periodo in cui sono state imposte. Nel '45 - '46, la sentenza di morte era comune. Due anni dopo, i colpevoli degli stessi delitti se la cavavano con condanne puramente formali.
Questi tribunali riparatori erano imperfetti, senza dubbio- ma sembravano anche necessari. La maggior parte della popolazione aveva preso parte a qualcosa che in quel momento appariva essere un errore - peggio ancora, un delitto - ,e, per liberarsi di un diffuso sentimento di colpa e poter vivere la vita con il cuore leggero, le persone dovevano eseguire un salasso, un espurgo, un sacrificio rituale, dopo il quale si sarebbero potute dichiarare innocenti e pulite. In ultima analisi è stato giudicato meglio che le istituzioni della Giustizia intraprendessero un lavoro di espiazione piuttosto che permettessero che l'esorcismo della colpa degenerasse in linciaggi e violenze di massa, anche se ciò che è accaduto non è stato, strettamente parlando, un'operazione di giustizia.

Tribunali dei crimini di guerra. E cosa dire della Giustizia internazionale? Il libro di Gary Jonathan Bass, Stay the Hend of Vengeance (Ferma la mano della vendetta, Priceton University Press), in cui si opera una buona ricerca, è un'ottima introduzione a questa seconda pratica giudiziaria. Il suo tema sono i tribunali dei crimini di guerra. Bass dimostra, per cominciare, che questa forma di giustizia non è stata inventata a Nuremberg, come si è soliti credere. L'autore situa i primi indizi di tale pratica nel periodo successivo alla sconfitta di Napoleone a Waterloo e analizza alcuni tribunali che sono finiti male: a Costantinopoli, nel 1919, quando i turchi sono stati ritenuti colpevoli del genocidio armeno (in questa occasione è stata coniata l'espressione "delitto contro l'umanità") e a Lipsia, nel 1921, dove i tedeschi, a partire dal Kaiser Guglielmo II, sono stati ritenuti responsabili della Prima Guerra mondiale.
Per concludere, Bass esamina il caso più recente e più familiare di Nuremberg, e anche quello del tribunale internazionale dell'Aia, dove vengono giudicati i leaders politici e militari responsabili della frammentazione della Jugoslavia e degli errori perpetrati sulla sua scia. Nonostante presenti molti dei suoi punti deboli, Bass è un difensore accanito di questo tipo di tribunale. Afferma infatti che tale strumento di giustizia, imperfetto che sia, è preferibile alla vendetta individuale: cosa vera, ma certamente le due forme di intervento citate non esauriscono il campo delle possibilità legali e morali. Afferma anche che soltanto i governi liberali praticarono questa forma di giustizia, e da ciò deduce la virtù della pratica. Ma la sua deduzione presuppone che tutto ciò che i governi liberali facciano sia buono - una premessa discutibile. Credo che potremmo appoggiare governi liberali con entusiasmo, ma allo stesso tempo, continuare a criticare alcune delle loro scelte politiche.
La condanna giudiziaria dei leader politici e dei militari tedeschi alla fine della Prima Guerra mondiale è, riguardo a questo, piuttosto spiazzante.
Con il distacco prodotto da ottanta anni di distanza, non è per niente chiaro se il governo e l'esercito tedesco abbiano avuto una parte di colpa più grande della sua controparte francese; l'unica differenza significativa è che i francesi hanno vinto la guerra e i tedeschi l'hanno persa. Ma i governi francesi, britannici o belgi ci tenevano a sommare alla sconfitta militare una sconfitta legale. Nel farlo, rivelarono che i grandi principi della Giustizia potevano servire come semplice camuffamento per una politica di interessi propri. Qualche anno più tardi, non essendo totalmente convinti che lo sforzo fosse compensato dal risultato, gli alleati rinunciarono alle accuse. Il tribunale di Lipsia è stato un fiasco.
Ma la storia di questo tentativo ha alcune lezioni utili da offrire. Lloyd George, primo ministro britannico, diceva che "la guerra stessa è un crimine contro l'umanità", e, in una riunione del Consiglio di guerra dell'impero, il procuratore generale ha ritenuto il Kaiser "personalmente responsabile delle morti di milioni di giovani". Con queste affermazioni, lasciarono capire che sottoscrivevano ideali utopici ingenui e potenzialmente pericolosi con i quali speravano di far guarire definitivamente tutta l'umanità dai suoi mali, come la pratica della guerra e cercavano di attribuire la responsabilità di quest'ultima alla volontà di un unico individuo.
I risultati sono stati molto negativi. Il tribunale di Lipsia non è riuscito a impedire che fossero commessi delitti futuri. Al contrario: ha regalato ai tedeschi nazionalisti una ragione per riprendere la lotta e ha anche compromesso l'idea di un organo di Giustizia internazionale imparziale. In paragone a Lipsia, il tribunale di Norimberga, un quarto di secolo più tardi, è stato un grande successo. Ma ciò è accaduto perché le circostanze erano esse stesse cambiate. Diversamente dalla Prima Guerra mondiale, originata dalla rivalità tra le grandi potenze, la Seconda Guerra è stata iniziata attivamente da una soltanto delle parti coinvolte, cosicché la colpa della Germania Nazista era molto più ovvia, più reale. Le immagini dei lager evocavano condanne morali unanimi.

Guerre di aggressioni. La Germania era inoltre occupata e i suoi leader erano stati fatti prigionieri. La questione che ha preceduto Norimberga non era "Devono i leader nazisti essere puniti o liberati?" quanto piuttosto " Devono i leader nazisti essere giustiziati senza un processo o devono essere giudicati?" .
Stalin pendeva per la prima opzione e offrì i suoi servizi per eliminare cinquanta o centomila di loro - dopo tutto, avevano l'esperienza necessaria. Il segretario americano del Tesoro, Henry Morgenthau Jr., ha lanciato la crudele proposta di deportare parecchi milioni di tedeschi dall'altro lato del pianeta; ricordando che i turchi sì, sapevano trattare bene le popolazioni straniere. Churchill e Roosvelt considerarono addirittura la possibilità di castrare tutta la popolazione maschile della Germania. E' stato soltanto l'ostinato attaccamento alla legalità del Segretario di guerra americano, Henry Stimpson, a rendere possibile che i processi nel tribunale di Norimberga fossero condotti con gli accusati aventi la garanzia di avvocati di difesa, l'obbligatorietà delle deposizioni dei testimoni, e la possibilità, da parte degli accusati, di essere assolti.
L'aspetto più preoccupante del tribunale di Norimberga è che il genocidio degli ebrei e delle altre popolazioni - quello che chiamiamo "crimine contro l'umanità" e che, precisamente, ci sembra essere stata la ragione più valida per l'instaurazione di quella giurisdizione di eccezione - ha svolto un ruolo soltanto periferico nelle procedure. La principale accusa fatta ai leader nazisti puntò verso una direzione totalmente diversa: loro sarebbero stati colpevoli di aver condotto una guerra di aggressione. E' vero, con certezza, che la Seconda Guerra mondiale è stata scatenata dalle politiche aggressive della Germania, ma è ugualmente vero che le altre grandi potenze non esitarono, in altre occasioni, a provocare esse stesse guerre di aggressione.
Quanto all'Unione Sovietica, nella quale milioni di persone sono state condotte alla morte da un regime non meno repressivo di quello di Hitler, essa ha condiviso le politiche aggressive della Germania per qualche tempo, occupando la parte orientale della Polonia mentre Hitler conquistava la parte occidentale. Per questa ragione, come osservò Judit Shklar, era un " progetto di valore dubbio" condannare qualcuno legalmente per aver combattuto in una guerra ingiusta. La stessa presenza dei sovietici a Norimberga creava un problema. Stalin non era meno criminale di Hitler. La differenza è che uno di loro aveva vinto e l'altro era stato sconfitto.
Norimberga, a sua volta, ha condannato accusati che non avevano violato leggi in grande quantità e ha punito alcuni di loro per delitti collettivi. Nonostante ciò, l'effetto generale di Norimberga è stato positivo. Poiché c'è qualcosa di veramente nuovo nei crimini totalitari, nei crimini dello Stato, che il vecchio codice legale non aveva contemplato, e l'introduzione nella legge del concetto di crimini contro l'umanità è stato un modo per rimediare a questa mancanza. Oggi non possiamo più affermare di non sapere che certi atti siano criminali, a prescindere dalle leggi del paese in cui sono stati commessi. Il tribunale di Norimberga ha contribuito anche alla trasformazione della Germania in un paese democratico, per quanto, trent'anni più tardi, una nuova generazione avrebbe avuto bisogno di questionare la condotta dei cittadini comuni nella Germania di Hitler, e non solo la condotta dei suoi leaders.
Quasi cinquant'anni dopo Norimberga, nel Febbraio del 1993, un nuovo tribunale di crimini di guerra è stato creato nell'Aia per giudicare i responsabili dei crimini di guerra in Jugoslavia. Sarà giustificabile la creazione di questa nuova istituzione? La risposta non è ovvia. Come ricorda Bass, con tutta ragione, questo tribunale non è stato creato semplicemente in funzione del desiderio di vedere la giustizia prevalere. Oltre a questo, è infatti risultato incidente il rifiuto da parte delle potenze occidentali di intervenire militarmente e anche politicamente in Bosnia. L'opinione pubblica è stata sensibilizzata dalle immagini di sofferenza diffuse quotidianamente dalla televisione, e il tribunale è stato creato per alleviare un po' il peso della coscienza.
L'assenza di entusiasmo politico per il tribunale rese più difficili i suoi sforzi: mancarono i mezzi materiali di cui necessitavano, i governi occidentali si rifiutarono di cedere i loro soldati per operazioni rischiose di catture dei sospettati e, in una situazione di conflitto ancora in corso, era difficile ottenere testimonianze affidabili.
Le azioni del tribunale durante la crisi del Kossovo, nemmeno gli valsero l'appoggio unanime. Accusare Milosevich e altri leaders jugoslavi di crimini contro i civili mentre la Provincia era bombardata, è stata un'impresa piuttosto discutibile. Il tribunale, finanziato e sostenuto dai paesi occidentali, accusò l'Esercito del nemico dell'Occidente di crimini di guerra. Quindi, non si può affermare che siano state rispettate le condizioni di una giustizia imparziale. Nel formulare i termini di accusa, l'avvocato responsabile, Louise Arbor, conquistò l'attenzione dei media, ma compromise l'idea di giustizia, nel trasformarla in strumento ausiliare per il conseguimento di fini politici e militari.
Come altre organizzazioni di aiuto umanitario il tribunale aveva l'obbligo di non lasciarsi coinvolgere dall'apparato della Nato. Organizzazioni come l'Amnistia Internazionale e il Human Rights Watch richiamavano l'attenzione per le violazioni della legge internazionale commesse dalla Nato, ma i loro appelli in tribunale erano ignorati. Atti che, commessi dai Serbi, erano descritti come crimini di guerra venivano qualificati come " danni collaterali" quando commessi dai paesi occidentali coinvolti.
Gli sforzi attuali per creare una Corte Penale Internazionale sono altrettanto dubbi. Richard Goldstone, il giudice sud africano che ha lavorato all'Aia, ha scritto un libro deludente, For humanity ( Per l'umanità, Yale University Press), nel quale ci rivela più informazioni su stanze d'albergo e menù di ristoranti che non sulla sua filosofia riguardo la giustizia internazionale. Goldstone dice che "l'approccio infelice dell'Amministrazione americana nella conferenza di Roma" è stato il principale ostacolo alla realizzazione di questo progetto. Gli Stati Uniti si rifiutano di vedere uno dei suoi cittadini accusato da questo tribunale senza il suo previo consenso - ossia, si rifiutano di accettare che una istituzione internazionale abbia la precedenza sulle decisioni del governo nazionale (l'ex presidente Clinton recentemente ha firmato un trattato ma nessuno pensa sul serio che sarà ratificato dal Senato).

Azioni riparatrici. Lasciando perdere l'obiezione americana, possiamo ancora chiederci se il progetto di una Corte di Giustizia internazionale permanente meriti o no di essere difeso. E' un'idea nobile e generosa, senza dubbio, ma, per essere efficace, tale istituzione di giustizia avrebbe bisogno di avere a sua disposizione una forza di polizia, e tale forza dovrà necessariamente essere convocata da paesi specifici e, quindi, risulterà soggetta agli ordini dei singoli governi, che potrebbero esigerne l'esenzione dagli obblighi collettivi (eccetto, è chiaro, nell'ipotesi in cui fosse creato uno Stato universale così come sognavano i dittatori totalitari della prima metà del secolo - soluzione questa altrettanto poco allettante).
La seconda grande maniera di riparare alle ingiustizie passate consiste nel preoccuparci principalmente delle vittime e non più dei colpevoli. Questo tipo di azione è il tema del libro di Elazar Barkan, The Guilt of Nations (La colpa delle nazioni, W. W. Norton), che ha il merito di riunire casi recenti di espiazione, tutti molto diversi tra loro, per offrire una visione ampia di un simile approccio. Questi casi si dividono in due contesti storici, uno di loro legato alle conseguenze della Seconda Guerra, e l'altro, alla decolonizzazione. Il compenso offerto alle vittime o è simbolico, o è materiale. Non dobbiamo sotto stimare il potere del simbolismo, con la scusa che esso non fa niente per il nostro conto bancario. Nella realtà spirituale, psicologica e sociale, è della riparazione simbolica che la vittima ha più bisogno, tanto è vero che la compensazione materiale ha valore proprio in relazione al riconoscimento simbolico che essa porta in sé.
Le vittime vogliono che il male e l'ingiustizia inflitti siano riconosciuti, perché possano finalmente ricostruire le loro identità; hanno bisogno della solidarietà pubblica, in grado di conferire un qualche senso all'esperienza truce che hanno vissuto e di trasformare la violenza che hanno subito in un atto che la società condanni.
Il primo caso importante di compensazione materiale offerta alle ex vittime è stata la decisione tedesca di pagare indennizzi alle famiglie ebree private dei loro possedimenti durante la guerra, e, più tardi, di fare lo stesso con lo Stato di Israele - una decisione che i leaders tedeschi, capeggiati da Konrad Adenauer, hanno preso di spontanea volontà, per quanto non mancassero pressioni esterne in tal senso. Giudicarono che questo fosse il prezzo necessario che la Germania avrebbe dovuto pagare per poter reintegrarsi nella famiglia delle nazioni. Da allora, questi risarcimenti, assommano già a più di US$ 60 miliardi.

Una storia molto lunga. Questa evoluzione della moralità pubblica è nuova, e anch'essa rappresenta un rinforzo dell'idea di giustizia. Ma suscita anche problemi la cui soluzione non è facile. Per cominciare, esiste sempre la questione su cosa vogliamo intendere con "passato" . La storia è molto lunga e non sempre è chiaro fino a che punto possiamo retrocedere per cercare di riparare le atrocità del passato. Oggi, in diversi paesi dell'est europeo, proprietà perdute sotto il regime comunista, sono restituite ai loro proprietari originali. Ma quanti titoli di proprietà dovranno essere restaurati? I contadini ungarici sono stati privati della loro terra nel 1950, nell'interesse della collettivizzazione - ma queste terre erano state date loro nel 1945 da un governo al quale i comunisti già partecipavano. Se una di queste decisioni è stata legittima, perché non l'altra? E il regime anteriore a quello è stato esso stesso una dittatura; sarà che tutti i suoi atti devono essere considerati legittimi?
Queste domande possono essere poste in modo ancora più contundente riguardo al mondo post -coloniale, nella misura in cui gli atti che cerchiamo di "sfare" sono oggi ancor più distanti nel tempo. Quando si sentono le esigenze formulate da gruppi che parlano in nome delle antiche vittime, si ha spesso l'impressione di essere costretti ad entrare in una macchina del tempo, nel tentativo di cancellare la storia come essa di fatto è accaduta, per poi riscriverla secondo i nostri principi morali attuali.
Questi tentativi sono ancora più paradossali nella misura in cui vengono talvolta ritrattati come fossero stati convalidati di fronte a tribunali che sono, loro stessi, un prodotto di questa storia, e che molte volte si riferiscono ad un passato che è più mistico che vero. C'era uno spazio politico indigeno che l'arrivo di Cristoforo Colombo, nel 1492, ha distrutto; deve questo spazio essere restaurato oggi? Prima dell'arrivo dei bianchi nelle Americhe, gli Indios Americani vivevano in condizioni di splendore - che la società contemporanea potrebbe avere l'obbligo morale di restaurare - o di povertà?
Inoltre, passati uno o due secoli, l'identificazione degli attuali rappresentanti, di vittime e di carnefici è piuttosto problematica. La pratica della schiavitù è stata un male, ma perché i discendenti degli irlandesi e degli italiani che sono arrivati negli Stati Uniti all'inizio del XX secolo dovrebbero pagare oggi le riparazioni per essa? C'è stato qualcosa di inutile e di falso nel gesto fatto da Clinton in Africa: lui ha chiesto di essere perdonato per atti commessi due secoli prima, per i quali lui non aveva alcuna responsabilità, allo stesso tempo in cui rifuggiva la responsabilità dai suoi propri errori. C'è un momento in cui il principio della giustizia storica entra in conflitto con il principio della responsabilità individuale. Riparare un'ingiustizia nei confronti di una persona viva è un dovere, ma farlo nei confronti di un'entità astratta è un'azione molto meno chiara e molto meno obbligatoria.
In tutti questi conflitti, i diritti dell'individuo si scontrano con i diritti del gruppo. In un passato piuttosto lontano dei popoli colonizzati, gli individui non avevano voce attiva; erano costretti a sottomettersi alle decisioni del gruppo. Ma sarà legittimo ricreare oggi tali situazioni? Nei nostri giorni un discendente dei Sieoux avrà il diritto di accettare un indennizzo per le sue terre rubate e di conseguenza di rinunciare al diritto che il popolo dei Sieoux avrebbe dovuto avere su queste terre? Un artista individuale ha il diritto di adattare un patrimonio culturale tradizionale per i suoi fini personali o dovrebbe dedicarsi alla preservazione di tale tradizione, a rischio di vedersi accusato di genocidio culturale?
A volte la fedeltà alla storia può trasformarsi in una forma di oppressione. Queste esigenze di mantenere o di restaurare il passato sembrano non prendere in considerazione il fatto che tutte le tradizioni vive cambiano e che soltanto le culture morte rimangono intatte. La recente promozione dei diritti dei gruppi non è necessariamente un progresso: un individuo ha il diritto di praticare la cultura che sceglierà, di partecipare a questo gruppo piuttosto che all'altro - ma avrà anche il diritto di liberarsi dalla pressione di qualunque gruppo.
Per concludere, esitiamo nel ratificare una identità permanente con la condizione di vittima. Il nostro mondo, che si compiace in tutto ciò che è sentimentale e brama per lo spettacolare, conferisce uno spazio privilegiato al soffrire. I protagonisti di situazioni di conflitto sanno questo benissimo e cercano di ottenere la solidarietà generale esibendo le loro ferite dinnanzi al mondo e, a volte, arrivando al punto di attaccare le proprie posizioni perché i danni suscitino compassione e solidarietà in suo favore. Ma la sofferenza di un gruppo non prova che la sua causa sia giusta, e la compassione, da sola, non può assumere il posto della politica. La vita comunitaria ha bisogno di basarsi non sulla quantità di dolore subito da questo o quel gruppo di persone, ma sull'uguaglianza dei diritti.

Riconciliazione con il nemico. Inoltre una persona che si vede esclusivamente come vittima molte volte si mantiene indifferente alle proprie responsabilità e alla sofferenza che essa stessa può causare. Essa si contenta di sperare che la giustizia sia fatta. "La vittimizzazione conferisce potere alla vittima", come osserva Barkan, e ce ne sono molte che si dispongono a profittare di questo potere. La cosa a volte degenera trasformandosi in una competizione per vedere chi ha sofferto di più. Così, alcuni ebrei americani negano che i Nippo-americani chiusi nei lager durante la Seconda Guerra mondiale possano utilizzare l'espressione "lager" e contestano il diritto degli americani di origine armena di parlare di "genocidio".
Riconoscere i propri errori e punti deboli ci mette in condizione di coinvolgerci in una sfida personale e di promuovere una trasformazione morale; già rivendicare le prerogative di vittima non aggiunge niente al nostro valore morale, paradossalmente il contributo positivo della vittima all'educazione morale della società consiste nell'offrire al responsabile la possibilità di riparare ai suoi errori. Da questo punto di vista gli effetti della punizione sono ambigui: "Nessuna riparazione o punizione imposta ha ridotto il peso della vittimizzazione", conclude Barkan. " Invece lo ha trasformato in routine".
Con ciò, siamo arrivati al terzo metodo di riparazione che non cerca né di punire i colpevoli né di pagare i compensi alle vittime, ma permette invece che un'intera comunità si riconcili con se stessa. E' chiaro che è anche possibile perseguire questo scopo attraverso la punizione e la riparazione, ma certe affinità e istituzioni sono state create specificamente a tal fine: la commissione di inchiesta incaricata di produrre un'immagine del passato che sia accettabile da tutti .
Il libro di Priscilla Heyner Unspeakble Truths (Verità inesprimibile, Routledge) fornisce un inventario utile del lavoro di ventuno commissioni di questo tipo in tutto il mondo, e il libro di Robert Rotberg e Dennis Thopson, Truth v. Justice ( Verità contro giustizia, Princeton University Press), è una collana di saggi dedicati al più conosciuto di questi organismi, la Comissione di verità e di riconcilizione del Sud Africa.

Vittime e responsabili: Ci sono circostanze nelle quali punire i colpevoli e offrire risarcimenti alle vittime sembra essere impraticabile - specialmente in quelle situazioni, altamente difficili, nelle quali, in seguito ad un cambiamento radicale di orientamento politico, si può verificare che gran parte della popolazione abbia preso parte a qualcosa che ora viene considerato come un delitto, e una parte ancor più grande di essa ne abbia subito le conseguenze. Questa è stata la situazione verificatasi dopo il crollo delle dittature militari nell'America Latina, del regime di Apartheid nel Sud- Africa e nei regimi comunisti nell'Europa orientale.
A volte non è facile distinguere fra vittime e carnefici. Sotto un regime totalitario la maggior parte della popolazione è allo stesso tempo complice e vittima dei responsabili. Siccome non è possibile risarcire tutte le vittime né punire tutti i colpevoli, e siccome l'idea di una amnistia generale, pura e semplice, come se niente fosse accaduto, è altrettanto inammissibile, la soluzione che rimane, scelta da diversi paesi, è quella di creare una Commissione di inchiesta.
La Commissione di inchiesta creata nel Sud Africa ha identificato i suoi scopi in "verità e riconciliazione". Si è presentata, senza mezzi termini, come alternativa alla giustizia. E' stato anche detto che essa rappresentava una nuova forma di giustizia, una giustizia "restauratrice", in opposizione alla giustizia "punitiva". Ma non è chiaro se vi sia stato qualche effettivo vantaggio in tale innovazione terminologica. Questo perché il lavoro delle commissioni è molto diverso da quello dei tribunali.
Le commissioni hanno un fine, che è la pace sociale e la riconciliazione tra i diversi settori della popolazione, e partono dalla premessa che esista un metodo specifico capace di condurre alla pace sociale: questo metodo è la determinazione pubblica della verità. Per concludere, queste commissioni si dispongono a pagare il prezzo necessario per conseguire tale risultato: che le persone che accettano di rivelare i loro delitti passati ricevano l'amnistia e la garanzia che non dovranno affrontare accuse legali. Queste commissioni sembrano aver sommato le lezioni della confessione cristiana e della cura psicanalitica: come la prima, collegano l'assoluzione alla confessione, e, come la seconda, credono che parlare sul trauma permetta di liberarsi da esso.
Ma si potrebbe veramente affermare che la verità è stata di fatto stabilita? Difficilmente. Come hanno osservato i critici della commissione essa non possedeva i mezzi per verificare le testimonianze, e, per questo, ha dovuto accontentarsi di tali resoconti. La "verità" stabilita nei tribunali di Giustizia è superiore a questa, poiché le relazioni della polizia, gli interrogatori, e il lavoro di laboratorio aiutano a ristabilire fatti inconfutabili. Inoltre, l'idea stessa di una verità registrata una volta per tutte, anche se ottenuta da una commissione composta di uomini di buona volontà, racchiude in sé qualcosa di problematico, e non solo per l'esercito dei "decostruzionisti" che non credono nell'esistenza della verità.
Così, sembra giusto concludere che le commissioni di inchiesta che hanno proliferato negli ultimi anni non abbiano effettivamente aiutato né la Giustizia né la verità, e, men che meno, la riconciliazione. Nonostante ciò l'opinione pubblica è estremamente favorevole ad esse, e altri paesi pensano di creare commissioni del genere. Come spiegare questa realtà? La risposta sta nel fatto che gli effetti positivi di queste commissioni non si situano esattamente al livello che le persone immaginano.
Non è vero, per esempio, che i colpevoli sfuggono ad ogni punizione quando confessano i loro crimini: nell'ammettere che hanno preso parte ad atti reprensibili - assassinii, torture, stupri - fanno ricadere su di loro il temibile potere dell'obrobrio sociale, e dovranno così vivere vergognandosi ancora per molto tempo. "L'esposizione è la punizione", come ha sottolineato un osservatore.
Nemmeno è vero che le famiglie dei morti non guadagnano nulla per il fatto di non ottenere né compensazione economica né la punizione dei colpevoli. Nel trascorso delle sessioni della commissione, svolgono infatti un ruolo attivo per riportare a galla la verità, e, con questo, è concesso loro un modo per sfuggire alla passività della condizione di vittime. Per i familiari degli assassinati, l'inchiesta conferisce un senso a quello che è successo, e un senso tragico è meglio sicuramente che nessun senso. Con ciò sono dunque integrati nella vita in società.
Il lavoro delle commissioni rivela anche un'altra necessità delle società umane, una necessità che, senza di loro, sarebbe potuta passare inosservata: come membri di una comunità, tutti noi desideriamo avere a nostra disposizione una certa immagine della nostra identità collettiva, tale che includa anche un consenso generale sul significato del nostro passato. Questo consenso non sarà mai perfetto: ci saranno sempre individui in Francia che penseranno che l'occupazione tedesca del 1940 è stata una bella cosa, e la resistenza ad essa, una cosa deplorevole; ma la stragrande maggioranza della popolazione pensa il contrario, e questa concordanza è indispensabile per la salute morale della società. La stessa cosa si applica alla condanna della apartheid nel Sudafrica, degli assassini e delle torture avvenuti sotto la dittatura militare argentina.
Questa memoria collettiva, questa narrativa comune, non ha bisogno di essere precisa come il lavoro degli storici. Essa riguarda non la conoscenza, ma il riconoscimento. L'importante è che sia formulata pubblicamente e rinforzata dalle sanzioni delle autorità politiche ufficiali: il governo e il parlamento. Possiamo anche credere di essere individualisti duri, puri e moderni sofisticati, ma non abbiamo meno bisogno dei nostri antenati di un'immagine comune del passato, capace di conferirci una moralità a sua volta comune.
Cosa, allora, dobbiamo pensare dei contemporanei tentativi di riparare le ingiustizie del passato? In primo luogo, sono giustificate. Una volta introdotta la violenza nella storia, essa continua a esercitare i suoi effetti maligni per decenni o anche per secoli. I crimini di Hitler continuano a colpire le persone ancora oggi, così come le crudeltà commesse nella guerra dei Boers continuano ad influire su quelle del regime dell'apartheid, e la violenza commessa nella guerra coloniale in Algeria, negli anni '50, spiega in parte i massacri recenti in quel paese. Il modo di riparare a queste situazioni non è reprimere il passato, cercare di dimenticarlo - la repressione genera soltanto nevrosi, causa frustrazioni e provoca la vendetta irrazionale. E' meglio partire verso un atto pubblico di riparazione.
Evidentemente questa scelta rappresenta un'impresa rischiosa. Ristabilire un legame tra moralità e politica significa andare contromano rispetto al grande movimento della modernità che è stato responsabile per lo stabilimento delle democrazie (le sanguinose Crociate del Medioevo sono state condotte in nome del bene). Corriamo anche il rischio di praticare una politica nella quale soltanto le giustificazioni siano morali, e non le vere motivazioni; dopotutto, la colonizzazione nel XIX secolo voleva giustificarsi attraverso i valori della civiltà, come necessità di difendere i diritti umani.
Più che la nostra idea di un universo familiarizzato con il caos e la contingenza, nel quale il controllo completo sugli avvenimenti è impossibile, il sogno di un mondo nel quale tutte le ingiustizie siano corrette ricorda la nozione che i nostri antenati avevano di una vita vissuta in sottomissione alla Divina Provvidenza.
E' per questo che l'azione riparatrice è desiderabile, ma non in tutte le sue forme. Dobbiamo sempre ricordarci che il potere ama mascherarsi in diritto, e che questo non fa diventare più accettabile il suo dominio. Cosa vale la Giustizia internazionale se i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite hanno il diritto di vietare tutte le sue decisioni? Come può essere legittimo il cosiddetto "diritto di intervento" quando è applicato soltanto ai paesi deboli che non si annoverano tra i nostri amici? Cos'è questo diritto che, per definizione, esenta i membri potenti del G-8? Il governo americano non ha voluto mai pentirsi delle violazioni dei diritti umani commessi dai suoi agenti in El Salvador e in Guatemala, nelle Haiti o in Cile, né accettare le conclusioni schiaccianti formulate dalle diverse commissioni di inchiesta create dalle Nazioni Unite, e, quindi anche dagli Stati Uniti.
Non è difficile capire perché il presidente Jugoslavo Vojislav Kostumika non si fidi delle commissioni e dei tribunali internazionali. Nel mondo reale, la scelta in generale non si ha tra una "Realpolitik" e una "Moralpolitik", ma tra due politiche di forza, una franca e l'altra ipocrita.
Ma questa osservazione sobria non ci deve condannare all'immobilità.
Nel mondo della politica, il principio del mezzo escluso raramente si applica. Molto più efficace di questi tentativi di creare un nuovo ordine mondiale basato sulla virtù e la Giustizia sono gli atti politici all'interno di un paese o tra due paesi.
L'azione politica non è necessariamente una continuazione della guerra con altri mezzi; essa può anche intervenire nel dominio simbolico per riparare, e così, migliorare la vita della comunità. La comunità ha bisogno di un'immagine comune del suo passato che sia più in armonia con la Giustizia, e le commissioni di inchiesta e gli organismi politici legittimi, tali come i governi e i parlamenti , sono lì per contribuire a ciò. Tali azioni non sempre sono sensazionali. Esse richiedono pazienza e persistenza e non ci permettono di vedere noi stessi come paradigmi della virtù. E' possibile che siano gli unici modi affidabili per creare un po' più di giustizia in questo mondo ingiusto.

(Questo testo è stato pubblicato originariamente su The New Republic).


Tzvetan Todorov è un teorico di letteratura e un saggista politco, autore, tra gli altri, di I generi del discorso e La conquista dell'America.


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