LA NUOVA DOMINAZIONE GLOBALE

José Luís Fiori



Le dichiarazioni ufficiali puntano a una grande offensiva della maggiore potenza militare del mondo, contro le rovine di un paese e di un popolo la cui storia millenaria ha già avuto i suoi momenti di gloria e di grandezza culturale, ma che è stato, quasi sempre, sottomesso alla dominazione esterna, anche quando si è trasformato - nel XIX secolo - nella tomba di diversi generali inglesi. Oggi è soltanto una società tribale miserabile, controllata da un gruppo religioso fanatico, che è, in verità, l'ultimo sottoprodotto asiatico della Guerra Fredda. Per questo, nessun analista internazionale crede che tale azione militare si limiti all'Afganistan, soprattutto dopo che il Segretario della Difesa americano, Paul Wolfowitz, ha dichiarato che "non si tratta soltanto di catturare questa gente e far sì che paghino per quello che hanno fatto. Si tratta di eliminare i santuari, i sistemi di appoggio, annientare tutti gli Stati che promuovono il terrorismo". Questa è la sua opinione, ma la verità è che non esiste consenso tra gli "alleati" sui fini strategici o sul medio termine di questa operazione di vendetta. Fino a che punto portare l'azione militare? E quale sarebbe lo scopo finale? L' "Occidente" sarà disposto a riprendere il controllo coloniale nell'Asia Minore? O intende soltanto "concludere" la Guerra del Golfo, attraverso un percorso trasversale?
Questo impasse non è nuovo. Era meno visibile, ma esisteva già tra i 27 paesi della coalizione che ha sconfitto e distrutto l'Iraq, nel 1991. Ed è rimasto presente durante tutti gli anni '90, dietro la prolungata indecisione degli americani e degli europei nel caso degli "interventi umanitari" in Somalia, in Bosnia e nel Kosovo; nel caso delle decisioni sulle nuove frontiere e sulle nuove funzioni della Nato; nel caso del bombardamento del Sudan; nel trattamento riguardante gli "stati canaglie", ecc. Nella Guerra del Golfo c'era la questione del petrolio, come interesse comune, e la sovranità del Kuweit era stata violata. Nonostante ciò, e nonostante i 150.000 iracheni che sono stati ammazzati dai bombardamenti alleati, la guerra è rimasta incompiuta, e il governo dell'Iraq è stato lasciato nelle mani di Saddam Hussein. Nella situazione attuale non esiste un interesse materiale comune, e nemmeno esiste una regola del diritto internazionale che sia stata chiaramente infranta. Per questo il mondo segue spaventato il modo in cui la discussione sulla legittimità del "patto di guerra" si è spostata dal campo del Diritto Internazionale al campo del Diritto Penale, nell'attesa di un'inchiesta che permetta definire il crimine, e decidere la punizione, di una persona fisica. In termini stretti e giuridici ciò che gli europei, almeno loro, stanno discutendo è la legalità di una guerra che sarebbe dichiarata per ragioni penali. Una guerra di diversi Stati e eserciti alleati per punire un individuo, nel caso in cui sarà provato il suo coinvolgimento negli attentati al Pentagono e al World Trade Center. Ciò che è a dir poco una stravaganza storica, poiché non si capisce l'impasse politico internazionale che si nasconde dietro questo paradosso.


MURO

Quando la Guerra del Golfo è iniziata, erano state appena realizzate due riunioni del G7 - a Huston e a Dublin - convocate esplicitamente per sacramentare la fine della "Guerra fredda", e per analizzare la vittoria della "democrazia liberale" e dei mercati, che sarebbero dovuti diventare i due pilastri del nuovo ordine mondiale che nasceva dalla rovine del Muro di Berlino. In quel momento, la guerra è sembrata per l'opinione pubblica mondiale come un fatto sorprendente e stonante, nonostante i suoi antecedenti fossero completamente conosciuti da parte dei principali leader del mondo sviluppato. Alle fine, tuttavia, la guerra ha finito per svolgere un ruolo decisivo per l'instaurazione del "nuovo ordine mondiale" perché è stata proprio essa che ha definito il limite ultimo della sovranità degli Stati, in ognuno dei gradini della nuova gerarchia del potere mondiale. A Baghdad, come a Hiroshima e a Nagasaki, la storia ha dato ragione ancora una volta al senso di realismo di Hobbes, che ci ha insegnato - nel momento in cui nasceva il sistema de equilibrio tra gli Stati, nel secolo XVII - che "è necessario un ordinamento di un potere sovrano, perché si possa allora definire cos'è equità e giustizia", una volta che "è l'autorità e non la verità che fa la legge, [perché] prima che si determini cos'è giusto e cos'è ingiusto, ci dev'essere una qualsiasi forza coercitiva".
Il bombardamento dell'Iraq ha assunto, nel 1991, un ruolo equivalente a quello di Hiroshima e a Nagasaki, nel 1945: ha istituito, attraverso il potere delle armi, il nuovo "potere sovrano" e la "forza coercitiva" che hanno definito di lì in poi cos'era "giusto o ingiusto" nel campo internazionale.
La Seconda Guerra Mondiale e la Guerra Fredda possono essere lette come parti della stessa "guerra civile" europea, quasi ininterrotta, che proviene dal secolo XV. Ma la Guerra Fredda non ha mai vissuto alcuna battaglia in Europa e è finita nell'Iraq, nella forma classica delle "guerre imperiali", e senza la partecipazione diretta della URSS. Come conseguenza, non c'è stato nel 1991 niente di simile agli accordi tra Stati firmati nella Pace di Westphalia, nel 1648; nel Congresso di Vienna, nel 1815; nel Congresso di Versalles, nel 1918; o addirittura nelle riunioni non concluse di Yalta e di Potsdam, nel 1945. Non sono state definite le nuove regole sulle quali sarebbe fondata l'attività governativa globale. Anche se tutti riconoscono la superiorità incontestabile della potenza militare, finanziaria e dell'informazione degli Stati Uniti, non si è instaurato nessun principio normativo, né alcun accordo operativo, sull'uso delle armi, della violenza e della guerra; sulla creazione e la legittimità delle nuove leggi internazionali; e nemmeno sul funzionamento del nuovo sistema finanziario globale. In questo senso la Storia sembra aver confermato, in parte, il nostro sospetto e la nostra angoscia, subito dopo la Guerra del Golfo: "Tutto sembra indicare che questo nuovo potere globale si definirà a partire dalla bussola americana. Ma in questo caso rimarranno indeterminati i veri limiti e i veri confini dell'esercizio della forza e della paura, perché è sempre più difficile identificare, nello spazio interno internazionalizzato degli Stati Uniti, cosa sia veramente l' "interesse nazionale" della società americana. A meno che non si consideri che questo interesse sia definito, perennemente, dal complesso industriale-militare e dalle strutture "sovranazionali" che si occupano della gestione della guerra, capeggiate dagli Stati Uniti. Per questo si può affermare con sicurezza che se la Guerra del Golfo ha prodotto un nuovo principio ordinatore nei rapporti internazionali, essa ha anche lasciato irrisolta una questione decisiva: quali saranno i limiti, o chi limiterà l'uso abusivo della forza e della paura? L'impressione che rimane è che la Guerra del Golfo abbia un vero "buco nero" al posto della Guerra Fredda. Una sorta di vuoto spaventoso, attraverso il quale si possono disperdere in diverse direzioni entropiche l'enorme forza liberata dall'esercizio, senza limite, del potere tecnologico-militare degli Stati Uniti. Se questo sarà vero, si può arrivare alla conclusione che questa guerra, anziché condurre l'umanità a un nuovo stage civilizzatore, e contribuire così all'universalismo dei valori costruiti dalla ragione cosmopolita dell'Europa illuminista, possa essere stata soltanto l'anticamera di una nuova era caratterizzata dalla forza e dalla paura, instaurate dentro una stessa coalizione vittoriosa".

REFERENZA
Rileggendo questo brano dieci anni dopo diventa chiaro che, in quel momento, il mondo cominciava a convivere con l'assenza di un qualche tipo di bipolarizzazione internazionale, esistente in realtà dal secolo XVI, anche nelle occasioni in cui il sistema geopolitico sembrava appoggiarsi soltanto su un equilibrio multipolare di poteri. In questi secoli, non sono state soltanto le egemonie, bensì queste bipolarità a divenire l'asse di riferimento di tutto il sistema. Sono state loro, infine, che hanno permesso il funzionamento dello stesso "equilibrio di potere" tra gli Stati, sostenuti da un efficace esercizio di una sorta di "negarchia" internazionale: "Una combinazione di forze in grado di contenere l'uso arbitrario e egoistico del potere, e di garantire così il suo impiego, almeno parzialmente, per la promozione del bene comune". Così, e non sulla base di falsi consensi, sono state create le regole di convivenza e di competizione tra le grandi potenze del "nucleo centrale" del sistema politico mondiale.
Dopo la Guerra del Golfo e della URSS, negli anni '90, è stato possibile raggirare il problema, grazie allo straordinario successo economico americano, responsabile della forza della sua ideologia globale e della sua proposta di coordinamento egemonico dell'economia mondiale. Ma alle porte del secolo XXI questo progetto ha perso la propria forza di fronte all'evidenza della polarizzazione del potere e della ricchezza, caduta all'ombra dell'utopia della globalizzazione. Subito dopo, è cominciata la decelerazione del "miracolo economico" americano mentre saliva al potere l'amministrazione del secondo Bush, confusa, arrogante, ma cercando ancora di orientarsi seguendo la vecchia bussola della raison d'État, inventata da Richelieu. Quindi, ciò che negli anni '90 sembrava un progetto di egemonia globale "benevola" si è trasformato, nella decade successiva, in un progetto imperiale esplicito, riportandoci al problema dell'inesistenza di regole e di consensi pattuiti, tra le grandi potenze. Questione aggravata dalle fratture interne, sempre più gravi, dentro lo establishment americano. Come si è visto nella lotta fratricida attorno al tentativo di impeachment del presidente Bill Clinton. Questo per non parlare del modo conflittuale con il quale George W. Bush è stato condotto alla Presidenza degli Stati Uniti.
Tale frammentazione e l'incertezza politica interna alla società americana, sommata all'assenza di limiti esterni al suo potere militare ed economico, sono stati i principali fattori di destabilizzazione del nuovo ordine imperiale americano, inaugurato nel 1991. La crisi attuale potrà ricomporre l'élite americana e aiutare l'imposizione/accettazione di alcune regole del nuovo Impero. Il "patto di guerra" che è stato proposto è semplice e manicheo, e non lascia spazio ad alternative: "Chi non è con gli Stati Uniti è con i terroristi", e nessun Stato o governante sarà con i terroristi. Ma non dobbiamo illuderci, perché i conflitti di interesse sono molto più complessi, e per questo le divergenze, tensioni e incertezze saranno ancora dentro il "nucleo centrale" del sistema, fino a che emerga una nuova bipolarità effettiva ed efficiente.
Dal punto di vista dell'Asia Minore, tuttavia, gli eventi avranno conseguenze totalmente diverse. Lo storico americano David Abernethy ha suggerito recentemente l'ipotesi che una "dominazione globale" europea ha seguito, dal secolo XV, a una regola di successione di fasi analoghe. L'onda di espansione coloniale (secolare) è stata seguita da una reversione decolonizzatrice (meno prolungata). L'ultima di esse, dopo la 2° Guerra Mondiale. Se questa successione costituirà una tendenza e manterrà in vigore il nuovo "patto di guerra" proposto dagli americani, si potrà trasformare in una nuova fase espansiva di "dominazione globale", e ricominciare con l'instaurazione di un "protettorato militare" in alcune regioni dell'Asia Minore e della Palestina, condiviso dagli alleati, ma mantenuto soprattutto dagli anglosassoni. In questo caso il "patto di guerra" si trasformerà in una nuova versione del Congresso che si è realizzato a Berlino, nel 1885, quando le grandi potenze europee hanno deciso tra di loro le regole della ripartizione coloniale dell'Africa e dell'Asia.




José Luís Fiori è professore ordinario di Economia Politica Internazionale all'Universidade Federal do Rio de Janeiro.


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