TRE APPUNTI E UN RITRATTO
Grazia Cherchi
Dicembre, 1985
Da
qualche lustro, e non per hobby, leggo dattiloscritti di narrativa
italiana. Dico subito che il mestiere di lettore implica, oltre
a una certa propensione al masochismo, anche il carico di una
notevole responsabilità morale: forse anche per questo
è tra i peggio pagati d'Italia.
Chi manda questi dattiloscritti? Un po' tutti. Infatti, com'è
noto, tutti credono di saper scrivere un romanzo. Carta e penna
sono di uso generale e, così si crede, la lingua italiana,
il cui vocabolario fra l'altro va sempre più comodamente
riducendosi. Quindi il tassista come il cardiologo, il commercialista
come il portiere prima o poi un romanzo rischiano di scriverlo.
Di qui il flusso ininterrotto di narratori che si abbatte su case
editrici e riviste letterarie. L'unica modesta proposta che ho
avuto occasione di fare per arginare l'ondata è il razionamento
della carta: tot carta pro capite, e deve bastare per tutta la
vita.
Per di più oggi, a causa dello "scrittore star"
(fotografato, intervistato, televisionato) il settore qui da noi
è in espansione. Dura infatti già da un bel po'
lo show degli scrittori quarantenni nostrani, e pare inarrestabile
la loro promozione anche a giornalisti-costumisti su quotidiani
e settimanali. Cosicché l'Italia che scrive invia dattiloscritti
e insieme la tacita invocazione: aiutate anche me ad emergere!
Il fatto che rende il tutto vagamente grottesco è che non
esista quasi pubblico neanche per gli autori italiani con anzianità
di scrittura (così come non è mai esistito, nonostante
il baccano sulle piazze, un pubblico della poesia), figuriamoci
per le opere prime.
Tornando a chi non riesce a farsi pubblicare, per quel che ho
potuto leggere di persona il raccolto è misero: molta cenere
e pochissimi diamanti. In genere i testi degli aspiranti scrittori
guardano compulsivamente al cinema e approdano allo sceneggiato
televisivo, fatto inevitabile considerando che i loro autori consumano
certo più vita davanti alla televisione che davanti alla
pagina (la lettura -stando a una recente inchiesta - occupa per
esempio il sedicesimo posto negli interessi dei giovani).
Perché la situazione è così compromessa?
Forse si stanno scontando i danni causati negli anni Sessanta
dalla neoavanguardia con la sua imposizione della testualità
e negli anni Settanta dall'istigazione alla creatività
individuale. Per non parlare delle responsabilità della
critica, che ha rinunciato a certe esigenze di qualità
abbassando talmente il livello generale da renderlo palesemente
accessibile a chiunque. Tanto che qualunque aspirante scrittore
può legittimamente indursi a pensare: se il romanzo osannato
è questo, allora sono in grado di scriverlo anch'io.
Sono comunque dell'avviso che per un esordiente sia meno facile
di qualche anno fa arrivare alla pubblicazione: vi concorrono
la situazione economicamente sempre più precaria della
nostra editoria, il consolidato privilegiamento della narrativa
straniera, e tante altre brutte cose su cui molto già si
è discettato. Conclusione: aspirante scrittore vade retro.
Vistononsistampi (ammesso che si sia visto, cioè letto:
ci sono case editrici che rinviano subito al mittente i testi
ancora chiusi nelle loro buste, con risparmio postale). Così
il vecchio adagio che lo scrittore si vede al secondo romanzo
risulta impossibile da verificare, dato che non esce il primo.
Naturalmente non esiste invece il problema di riuscire a pubblicare
per i personaggi da prima pagina nei vari campi, giudiziario incluso:
nessuno rifiuterebbe il primo romanzo di Licio Gelli o di Renzo
Arbore, anche se Gelli prendesse a protagonista un entertainer
con corteggio di macchiette e Arbore un giallo a colpi di logge.
A costoro si strapperebbero le cartelle di mano via via che qualcun
altro gliele scrivesse.
Così, anche se c'è qui da noi un clima abbastanza
favorevole al romanzo (ma mi domando se non si tratti più
che altro di un equivoco con i mesi contati), allo stesso modo
che in altre attività i posti sono tre e i candidati cinquemila.
E per i tre posti si fanno sotto i raccomandati di ferro, di ottone
e di bronzo, e i servi furbi (anche se ormai la furbizia è
merce inflazionata: pochi non sono furbi al giorno d'oggi), il
tutto sovrastato dall'egida, sotto cui prospera ogni commercio,
dei "signori del cinismo". Parafrasando Enzensberger,
che ad anni come questi si debba pensare con indulgenza, sarebbe
chieder troppo.
Concludendo queste annotazioni, consiglierei agli aspiranti scrittori
di provare e riprovare a scrivere quello che capita loro sotto
gli occhi (e non altrove o on the road), di sviluppare un po'
di più quelle forme di nevrosi che un tempo si chiamavano
umiltà e pazienza, e di ricordare infine l'età a
cui esordì come romanziere Daniel Defoe: sessant'anni.
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Maggio,
1986
Dato
che leggo in media sette-otto libri alla settimana, la lettura
è per me un vizio punito. Per lavoro devo anche leggere
molte recensioni, nelle quali dominano - ci si stanca a ripeterlo
- il servilismo (al più si registra nel recensore il passaggio,
con gli anni, dalla condizione di servo a quella di liberto) e
la pigrizia (rieccoli i risvolti e le veline degli uffici stampa,
al massimo variati di un aggettivo o rafforzati da un sinonimo).
L'eccesso di lodi forsennate può però provocare
rigetto o diffidenza, che scatta anche nei rari casi in cui il
giudizio sul libro è negativo. Ci si chiede allora cosa
ci sia dietro: forse l'autore sta per cambiare editore? O il recensore
ha cambiato datore di lavoro? O forse tra recensito e recensore
sono intervenuti fatti privati, faide d'alcova? Ben vengano comunque
i giudizi negativi, le voci dissonanti nel coro. Tra l'altro molta
stampa si è messa a ospitare rubriche di polemiche, che
bisogna pur riempire in qualche modo. Così, tra gli applausi
scroscianti, si comincia a sentire qualche fischio. Magari lo
si indirizza al libro sbagliato, ma l'importante è piantarla
con la lode ecumenica e ritornare a esercitare il diritto di critica,
che è esattamente l'opposto della prassi che imperversa,
cioè voler au secours du vainqueur.
Il sabato per gli addetti al lavoro è obbligatoria la lettura,
in "Tuttolibri", della classifica dei libri più
venduti curata dalla Demoskopea. Al proposito, il commento più
azzeccato mi par proprio quello di Giorgio Manganelli, che alla
domanda: "Quando vede un bel libro in classifica come reagisce?"
ha risposto: "La cosa mi insospettisce molto. Ci dev'essere
qualcosa che non va". Resta il fatto che mentre non è
il caso di scandalizzarsi se la cosiddetta letteratura d'intrattenimento
è la più letta (ma non è stato sempre così?),
ci si può invece immalinconire per la pervicace assenza
di alcuni bei libri dall'elenco di quelli più venduti (nella
doppia accezione?).
È sempre bene fare esempi, con nome e cognome. Nella narrativa
straniera perché non compare in classifica (o, se vi compare
- un sabato era in dodicesima posizione se non erro - sembra un
errore del proto) il bel romanzo del ceco Bohumil Hrabal Ho
servito il re d'Inghilterra? Non è giusto che Kundera
monopolizzi il settore (non accetto però di entrare nel
"partito anti-Kundera che per svariati motivi si sta prendendo
piede. Anche Kundera ha dovuto fare una lunga anticamera per arrivare
al successo, e i suoi precedenti romanzi, non inferiori, anzi,
all'ultimo osannato, continuavano a cambiare editore perché
non li voleva nessuno, e sono tornati solo l'anno scorso in libreria
rispolverati dai magazzini). Il romanzo di Hrabal è stato
finora molto ben recensito; ma si sa che non basta, le recensioni
non sono certo decisive per la vendita (resta ancora più
importante il "bocca a bocca"). Mentre è purtroppo
decisiva, per propagandare un libro, la televisione del caravanserraglio
domenicale, o il grosso battage pubblicitario, che le piccole
case editrici non possono permettersi. Manca anche in classifica,
tra gli altri, Le cose di Georges Perec, giustamente ristampato
a vent'anni di distanza, un godibilissimo e amaro racconto sulla
smania consumistica che divora due giovani negli anni Sessanta;
manca il bel romanzo di fine Ottocento di Olive Schreiner, Storia
di una fattoria africana. Eccetera eccetera. Quanto ai romanzi
italiani, spesso bruttarelli, arrivano in classifica, implacabilmente,
quelli più bruttarelli di tutti.
Sarebbe insomma il caso di fare un controcanto ai libri più
venduti, segnalando soprattutto le assenze e talora deplorando
certe presenze. Al servizio dei lettori, che considerano i bei
libri forse la migliore compagnia, gli unici a non tradire mai.
Una razza in via d'estinzione quella di noi lettori, che andrebbe
tutelata. Dovremmo organizzarci in conventicole, intendendoci
con linguaggi cifrati nei luoghi in cui ci incontriamo. Attenzione
però a non assentarci in altra stanza con i nostri simili.
Parafrasando Flaiano - "Forse sarà bene tornare di
là o penseranno che stiamo parlando" - bisogna evitare
che gli altri pensino che stiamo leggendo.
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Settembre, 1987
I
manager hanno invaso l'editoria. Con non poche conseguenze. Vediamone
una, significativa: sono i protagonisti di qualcosa di molto simile
alla compravendita dei calciatori. I componenti delle formazioni
tipo, che so, della Mondadori e della Rizzoli, stanno per entrare
in campo, quand'ecco arrivano trafelati negli spogliatoi due nuovi
giocatori, un difensore (acchiappa-autori?) e un "libero"
(con aerei e lingue facili?). Si procede subito allo scambio delle
maglie, cosa che avviene con rapidità e disinvoltura: non
è la prima volta. Giù le maglie n° 3 e n°
5 della Rizzoli e su quelle della Mondadori. E viceversa.
C'è anche, per la verità, il dirigente che non sa
di avere i giorni (o le ore) contati, ma avendo avvertito qualcosa
di malaugurante nell'aria se ne sta asserragliato nella sua stanza.
Ma la porta viene d'improvviso spalancata e vi si staglia con
sorriso da squalo il nuovo inquilino (ricordo che in tempi meno
birichini un amico dirigente, col dono della preveggenza, teneva
sempre una valigia celata tra i libri, mentre indumenti adatti
ad ogni stagione se ne stavano ripiegati nei cassetti della scrivania.)
In particolare quest'anno per seguire gli spostamenti dei dirigenti
editoriali è stato necessario prendere appunti, che andavano
aggiornati di mese in mese, come per gli scioperi dei trasporti.
Chi ci sarà mai alla saggistica Bompiani? E avendo bisogno
di un libro, chi risponderà all'ufficio stampa Bollati
Boringhieri? Capita per esempio che un dirigente addetto a una
nuova collana di élite, appena prima di consegnare l'elenco
definitivo dei primi raffinati sedici titoli, esca a colazione
con il manager di un'altra ditta. All'imbrunire è intento
a raccogliere i suoi oggettini personali: dal 2 gennaio p.v. dal
manager prandiale la "varia incolta". È così
che migrano oggi i dirigenti, di qua e di là, aspirati
dal miglior offerente, nei secoli infedeli, contenitori pronti
a tutti i contenuti, essendo i contenuti pronti a tutti i contenitori.
Ma, a detta di chi ci lavora, questi manager oggi ai vertici dell'editoria,
una cosa di buono ce l'hanno: si disinteressano totalmente dei
dipendenti. È finito così, forse per sempre, il
gioco di diventare i favoriti del principe, e il successivo, fatale
cadere in disgrazia (sia ascesa che crollo erano astutamente regolati
dall'imprevedibile cappriciosità dell'editore-padrone delle
ferriere, comunque al fine di creare competitività); finita
la necessità di spiare l'umore dell'editore-re sole fin
dal suo ingresso in azienda - e se non si riusciva a intravederlo,
si poteva capire qualcosa già dal modo, secco o soft, di
chiudere la porta del suo bunker; basta con l'essere trasferiti
repentinamente in un altro ufficio non appena nel precedente si
era instaurata un'atmosfera di pericoloso affiatamento. Ma è
anche finita, bisogna dirlo, la figura carismatica, dalla seduzione
pitonesca, dell'editore padre-padrone, difficilissimo da lasciare
per via di assurdi ma acuti sensi di colpa. Dell'editore che ha
dedicato la vita a quel mestiere: che sarà per lui un hobby,
un giocattolo, ma anche l'impegno di tutta la sua esistenza.
Ora però bisogna rimboccarsi le maniche per recuperare,
se si è fatto parte della corte di questi carismatici e
spesso infantili e ancor più spesso megalomani personaggi,
la capacità di giudizio che si è decisamente arrugginita,
e andare per esempio alla ricerca dei propri gusti perduti. A
tutti questi mutamenti-migrazioni assiste in silenzio il popolo
sottopagato dei redattori, delle segretarie, dei grafici, per
i quali il problema non è di cambiar posto ma di perderlo.
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Dicembre 1985
Un
mese fa sono andata a trovare, per l'ultima volta, Elsa Morante.
Le notizie che avevo erano senza speranza, mali e malanni si succedevano
sovrapponendosi.
Non c'era nessuno: ormai da tempo i visitatori si erano diradati
al punto che per intere settimane Elsa restava sola con la devotissima
Lucia.
La trovai ancora addormentata: nella stanza un'aria di abbandono.
I libri (che gran lettrice era!) sistemati lontano da lei (mentre
fino a pochi mesi prima erano accatastati sul comodino, a portata
di mano, un paio anche sul letto), e molti ancora chiusi nelle
buste delle case editrici; le piantine che prediligeva (quelle
grasse, quelle di basilico...) lontane anch'esse dalla vista,
e non più a portata di mano il telefono, che ormai a fatica
riusciva a usare.
Quando riaprì gli occhi prese a gemere terribilmente. Con
gli occhi sbarrati attendeva la fitta che le faceva artigliare
con la mano destra la testa; quando la fitta calava di intensità
la mano tornava a premere sull'altra, poi, dopo un paio di minuti,
tornava ad artigliare i capelli.
Rispose al mio saluto in un modo per cui mi sembrò mi riconoscesse,
ma per il tempo in cui rimasi vicino a lei, non mi rivolse mai
lo sguardo.
Nel giro di pochi giorni, esauritisi quei dolori (provocati dal
fuoco di Sant'Antonio), prese a tenere gli occhi ostinatamente
chiusi, anche quando mangiava, e a occhi ostinatamente chiusi
accolse un amico, Goffredo Fofi, da lei sempre molto amato. Era
il suo ultimo, definitivo modo di esplicitare il suo grande rifiuto
del mondo e di attendere una morte che, seppur invocata, tardava
troppo a venire.
"Perché mi volete sadicamente impedire di morire?",
aveva subito ricominciato a sperare. Elsa aveva ripreso a leggere,
a conversare, girava su e giù per la clinica sulla sua
carrozzella, e un giorno che andai a trovarla la vidi attorniata
da due bambini africani, lì ricoverati, che intratteneva
superbamente: sapeva parlare e far parlare chiunque, soprattutto
la gente sola e diseredata, con regale naturalezza.
Mi disse allora che, dopo tanto tempo, sentiva muoversi nella
fantasia delle immagini, delle presenze in cerca di una voce.
Le ricordai una frase che mi aveva detto un giorno, ai tempi in
cui stava scrivendo Aracoeli. Mentre si accomiatava da
me dopo colazione per ritirarsi a scrivere nello studio al piano
di sopra, mi aveva detto: "Sono proprio curiosa di sapere
cosa farà adesso Aracoeli: è in un momento molto
difficile!" Sperava di scoprirlo in quello stesso pomeriggio,
come noi quando avremmo letto questo splendido romanzo che mi
parve, già allora, un grande congedo dalla vita.
Trovandola inaspettatamente come ai tempi migliori, presi a interrogarla
febbrilmente su tutto, quasi a saziare una fame arretrata come
mi era mancata la prodigiosa originalità e schiettezza
dei suoi giudizi! Mi rimprovero all'improvviso, in una pausa,
di non dire mai niente di me, "neanche adesso che ti è
successo qualcosa di importante", indovinò fulmina.
Ho già avuto occasione di scriverlo: Elsa aveva qualcosa
del medium, intuiva tutto, se voleva, anche se, verso certe cose,
aveva delle sdegnose sordità, e certi aspetti della psiche
la infastidivano moltissimo: ricordava allora, con puntigliosa
precisione, i giudizi sbagliati, le gaffe, le cadute di stile
dell'interlocutore. Sulla difensiva, parafrasando Manzoni, le
dicevo allora: "Che gran donna! Ma che tormento!".
Il suo odio per le melensaggini era pari a quello per la brutalità,
l'accidia, l'avarizia di sé e l'invidia, che, mista a ostilità,
imputava a un certo establishment letterario da lei detestato
e col quale da tempo aveva rotto ogni rapporto; ricordava solo
qualche amico morto: Saba, Savinio, Penna, Pasolini... e leggeva
con passione le poesie di Guerra, Giudici, Raboni, Volponi...
Ormai i ragazzini, trasformatisi in "zombi", in "mutanti",
non potevano più salvare il mondo, e le persone con cui
colloquiava erano pochissime, e nessuno - ribadiva - le voleva
bene. Alle mie proteste rispondeva implacabile: Non occupo il
primo posto nella vita di nessuno".
Ma di nuovo nell'autunno scorso bastava poco - il passaggio casuale
di un gatto, il rito dell'accensione della sigaretta, l'arrivo
di una rivista desiderata, il dono di un vasetto di miele che
la piaceva particolarmente - per far riaffiorare quella sua misteriosa
e fulgida allegria, e far sgorgare il suo irresistibile umorismo
con cui lei per prima si abbandonava dispiegando quella voce così
ricca di tonalità accese, una delle più belle che
abbia mai sentito. Gli occhi splendevano e divampava tutta la
sua maliziosa, zingaresca civetteria.
Poi tutto di nuovo si spense con l'arrivo di un ennesimo tracollo
fisico, seguito da una buia disperazione.
Sono costretta a ridurre in poche righe il ricordo di una persona
che ha contato tanto per me, e che più di una volta, leggendola
(e penso soprattutto a Menzogna e sortilegio e ad Aracoeli, due
grandi libri del nostro secolo) e, parrà strano, ancor
più ascoltandola, mi aveva dato l'impressione, quasi atterrita,
di aver a che fare con un genio.
Nell'affollamento dei ricordi che premono nella mente e nel cuore,
prevalgono persino oggi, con Elsa appena scomparsa, quelli lieti,
quasi solari, degli anni Settanta, quando Elsa veniva a Milano
e passava a volte un paio di giorni con me e i miei amici, che
erano diventati anche suoi. Allora, girando per Milano con lei
che indossava lunghi abiti messicani e foulard azzurri, mi divertivo
enormemente quando si fermava a fare i complimenti a un chiotto
cagnone, o consolava un bambino in lacrime, o applaudiva un gruppo
di anarchici in sparuto corteo, o discuteva animatamente con un
tassista che replicava divertito alle sue divertite aggressioni,
o si sedeva trionfalmente a tavola gustando i piatti prediletti
di cui era ghiottissima, intervenendo ad alta voce nei discorsi
di tutti i commensali: si recuperava così la dimensione
più alta della convivialità. Parlava sempre in tono
vibrante, senza mai usare perifrasi, affrontando direttamente
ogni argomento, alternando folgoranti fendenti ad abbandoni teneri,
quasi fanciulleschi. Eravamo un gruppo di amici oscuri, che mai
avrebbero avuto successo, con la precisa vocazione dei perdenti.
Forse anche o soprattutto per questo ci amava.
Ora, senza di lei, il paesaggio si è fatto più brullo
e desolato, e i demoni dell'aridità e dello scoramento
moltiplicheranno i loro agguati.
(Tratto
dal libro Scompartimento per lettori e taciturni, Feltrinelli
editrice, Milano, 1997)
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