NAUFRAGIO DEL GRANDE
GALEONE SÃO JOÃO
Bernardo Gomes de Brito
IL SÃO JOÃO DI MANUEL DE SOUSA SEPÚLVEDA
PARTE DA COCHIN IL 3 FEBBRAIO 1552, IN RITARDO, CON UN CARICO
ECCESSIVO E, INOLTRE, MAL EQUIPAGGIATO. IL 7 LUGLIO FA NAUFRAGIO
NEI PRESSI DEL CAPO DI NUONA SPERANZA DOVE I SUPERSTITI RAGGIUNGONO
LA RIVA. MOLTI PERDONO LA VITA NELLA LUNGA MARCIA VIA TERRA -
TRA CUI DON MANUEL, LA MOGLIE DONA LEONOR E I DUE FIGLI - E IN
POCHISSIMI, INFINE, RIESCONO A RAGGIUNGERE IL MOZAMBICO IL 25
MAGGIO DEL 1553.
L'AUTORE, ANONIMO, NON FACEVA PARTE DELL'EQUIPAGGIO E SCRISSE
LA STORIA DI QUESTO NAUFRAGIO BASANDOSI SUL RACCONTO ORALE DI
UN CERTO ALVARO FERNANDES, GUARDIÃO DEL GALEONE (1554).
LA POPOLARITÀ DI MANUEL DE SOUZA SEPÚLVEDA, NONCHÉ
LA GRANDE QUALITÀ LETTERARIA DELLA NARRAZIONE, HAN FATTO
SÍ CHE IL RACCONTO DEL NAUFRAGIO DEL SÃO JOÃO
OTTENESSE UN GRANDE SUCCESSO TANTO CHE, ANCOR PRIMA DI ESSER INCLUSO
NELLA HISTÓRIA TRÁGICO-MARÍTIMA (VOL. I,
PP. 1-38), CONTAVA QUATTRO EDIZIONI: 1555 (6); 1592; 1614; 1633.
Prologo
Si
narrano gli avvenimenti di questo naufragio affinché gli
uomini temano grandemente i castighi del Signore, siano buoni
cristiani, sempre timorati di Dio, e non infrangano i Suoi comandamenti.
Infatti Manuel de Sousa era un fidalgo illustre e buon
cavaliere che, un tempo, spese in India più di cinquantamila
cruzados per dar da mangiare a numerose persone, così
come in molte altre opere pie, e terminò i suoi giorni,
insieme alla moglie e ai figli, in estremo dolore e indigenza
tra i Cafri, privo di cibo, acqua e indumenti. E, prima di morire,
patì sofferenze tali che non possono essere credute, se
non da coloro che le vissero insieme a lui. Tra costoro vi era
un certo Alvaro Fernandes, guardião del galeone,
che, avendomi incontrato per caso qui in Mozambico nel millecinquecentocinquanta,
mi raccontò questi fatti in ogni loro particolare.
Sembrandomi una storia che sarebbe stata di monito e di buon esempio
per tutti, decisi di scrivere le sofferenze e la morte di questo
fidalgo e della sua gente, affinché gli uomini che
vanno per mare si raccomandino sempre a Dio e alla Madonna, che
preghi per tutti loro. Amen.
Il tre febbraio del millecinquecentocinquantadue partì
con un galeone Manuel de Sousa, che Dio lo perdoni, per intraprendere
questo sventurato viaggio da Cochin. E partì assai tardi
perché quando andò a caricare a Coulão vi
trovò così poco pepe - riuscì infatti a stivarne
solo quattromilacinquecento quintali circa - che dovette recarsi
a Cochin dove ne completò il carico con una quantità
di settemilacinquecento, ottenuta con grandi difficoltà
a causa della guerra nel Malabar. Con questo carico partì
per il Regno e, anche se la nave trasportava poco pepe - infatti
avrebbe potuto portarne dodicimila quintali - ugualmente viaggiava
oltremodo carica di altre merci, e in questo bisognerebbe avere
molta cura per i grandi rischi che corrono le navi sovraccariche.
Il tredici di aprile Manuel de Sousa avvistò la costa del
Capo a trentadue gradi di latitudine. Erano così in ritardo
perché, nonostante fossero partiti da vari giorni dall'India,
avevano una velatura cattiva; e questa fu una delle cause, la
principale, del loro naufragio. Infatti il pilota André
Vaz seguiva la sua rotta per toccare terra al Cabo das Agulhas,
quando il capitano Manuel de Sousa lo pregò di andare a
cercare terra in un punto più vicino, e il pilota esaudì
il suo desiderio. Si avvicinarono, quindi, alla terra di Natal
e, non appena l'avvistarono, il vento si placò: allora
il pilota seguì la costa fino al Cabo das Agulhas, sempre
con lo scandaglio in mano per sondare il fondale. I venti erano
tali che un giorno venivano da levante e il seguente si levavano
da ponente. Già era l'undici di marzo e si trovavano a
venticinque leghe dalla costa a nord-est, e avevano il Capo di
Buona Speranza a sud-ovest, quando si levò da ponente un
vento ovest-nord-est carico di lampi. Essendo ormai quasi notte,
il capitano chiamò il comandante e il pilota e domandò
loro cosa si dovesse fare con quel tempo - avevano infatti il
mare in prua -, e tutti risposero che era opportuno cambiare rotta.
Le ragioni che fornivano per farlo erano che la nave era molto
grande e lunga, assai carica di casse e mercanzie, e non avevano
altre vele oltre a quelle sui pennoni (dato che il resto della
velatura era stato portato via da un temporale sulla Linea), sulle
quali poi non si poteva fare affidamento poiché erano a
pezzi. Inoltre, se si fermavano, qualora il mare fosse aumentato
e avessero dovuto salpare, il vento avrebbe potuto strappare le
rimanenti vele, pregiudicando fortemente il viaggio e la loro
salvezza. Infatti sulla nave non ve ne erano altre, e quelle che
possedevano si trovavano in un tale stato che si impiegava molto
tempo a rammendarle così come a drizzarle di nuovo per
la navigazione. Infatti, uno dei motivi per cui non avevano ancora
doppiato il Capo era dovuto al tempo che perdevano ad ammainarle
per le riparazioni; quindi sembrava essere una buona decisione
quella di far vela con i pappafichi grandi dispiegati perché,
se avessero usato unicamente la vecchia vela di prua, il vento
sicuramente gliela avrebbe strappata dal pennone a causa del grande
peso della nave; invece, se utilizzate insieme, le vele si sarebbero
completate a vicenda.
Mentre si avvicinavano in questo modo alla costa del Capo, che
distava centotrenta leghe, il vento girò a nord-est e a
est-nord-est così furiosamente che li spinse di nuovo a
sud e a sud-ovest; le onde sollevate da ponente si opponevano
tanto a quelle che nel frattempo si erano ingrossate a levante
che, a ogni sbandata, sembrava che il galeone dovesse colare a
picco. In questo modo passarono tre giorni, alla fine dei quali
il vento si calmò di nuovo ma il mare rimase così
grosso e la nave oscillò tanto che perse tre degli agugliotti
con cui il timone è incernierato allo scafo e da cui dipende
la perdita o la salvezza di una nave. Ne era a conoscenza solo
il carpentiere che, revisionando il timone, si accorse della mancanza
dei pezzi di ferro e andò a dirlo in segreto al comandante,
di nome Cristovão da Cunha il Corto. Egli rispose, da buon
oficial e uomo coscienzioso, di non riferire l'accaduto al capitano
o a qualsiasi altra persona per non suscitare paura e terrore
tra la gente di bordo, e così fu fatto.
Mentre si trovavano in queste difficoltà, venne di nuovo
meno il vento da est-sud-est e scoppiò un temporale: sembrava
che Dio avesse preparato già da allora la fine cui sarebbero
stati destinati più tardi. Volendo nuovamente prendere
il largo, tentarono di virare; ma la nave non volle seguire il
timone e mise la prua al vento e il vento, che era violento, strappò
il pappafico del pennone maggiore. Quando videro che erano rimasti
senza vela e che non ve ne era un'altra, accorsero diligentemente
a spiegare la vela di prua: infatti preferivano correre il rischio
di prendere il mare al traverso piuttosto che rimanere senza vele.
Non avevano ancora finito di armare il trinchetto che la nave
si traversò e, così facendo, prese tre onde così
alte che, per le sbandate si ruppero tutti i cordami e le costiere
di babordo, restandone solo tre nella parte anteriore.
Vedendosi con i cordami rotti e senza nessuna sartia da quella
parte dell'albero, presero delle cime dell'argano per farne dei
paterazzi. E mentre erano intenti in quest'opera, il mare s'ingrossò
tanto che rese tale lavoro inutile, mentre sarebbe stato più
opportuno tagliare l'albero a causa delle continue oscillazioni
della nave; ma il vento e il mare erano così forti da non
consentire loro di fare nulla, né del resto nessuno era
in grado di reggersi in piedi.
Quando, impugnate le asce già stavano cominciando a tagliare
il trinchetto, l'albero maestro si spaccò sopra le pulegge
delle coronelle, come se fosse stato sradicato in un sol colpo,
e il vento lo gettò in mare a tribordo con la coffa e le
sartie come se si trattasse di cosa estremamente lieve; allora
tagliarono i cordami e le sartie dall'altro lato e tutto quanto
fini in mare. Rimasti senza albero e pennone, eressero alla base
dell'albero maestro che aveva resistito un piccolo albero con
un pezzo di antenna ben inchiodata e fissata con le migliori imbrigliature;
l'armarono con un pennone per la vela di guida e, con un'altra
antenna, fecero un pennone per il pappafico; infine, con i pezzi
di alcune vecchie vele, armarono di nuovo il pennone maggiore.
Ripeterono l'operazione con l'albero di prua: ma tutto risultò
così rappezzato e fragile che sarebbe bastato un colpo
di vento per strappare di nuovo ogni cosa. Dopo aver approntato
tutto ciò fecero vela con il vento sud-sud-est. Dal momento
che il timone era già privo di tre agugliotti, che erano
i più importanti, la nave si lasciava governare solo con
grande fatica, con le scotte a fungere da timone.
Mentre navigavano in questa maniera il vento aumentò, la
nave si mise al vento e ne segui la direzione senza cura del timone
o delle scotte. Anche questa volta il vento strappò la
vela maestra e quella che le faceva da guida. Rimasti di nuovo
senza vele, accorsero alla vela di prua; allora la nave si traversò
e cominciò a sbandare: il timone, marcio, fu spezzato nel
mezzo da un'ondata che ne portò via subito metà,
mentre tutti i maschi restarono avvitati alle femmine. Da ciò
si vede come si debba avere grande cura dei timoni e delle vele
delle navi, causa di tanti disastri quanti sono quelli che si
verificano in questo viaggio.
Tutti coloro che s'intendono di mare o che, comunque, hanno fatto
attenzione allo svolgersi di questi avvenimenti, potranno immaginare
come si sentì Manuel de Sousa, con la moglie e la sua gente,
ritrovandosi su una nave nei pressi del Capo di Buona Speranza,
senza timone, senza albero e senza vele né niente con cui
poterle sostituire. A quel tempo la nave già sbandava tanto
e imbarcava una quantità d'acqua tale che, per non andare
a fondo, il rimedio migliore era di eliminare l'albero di prua
che l'avrebbe squarciata. Ma quando erano sul punto di tagliarlo,
si sollevò talmente il mare che glielo sradicò dai
tamburetti lanciandolo in acqua senza che essi potessero fare
nient'altro oltre a segare le sartie. L'albero, cadendo, diede
un colpo violento al bompresso scagliandolo fuori dalla scassa,
quasi tutto dentro la nave. Avevano, tuttavia, di che rimediare
un albero ma, come tutto lasciava prevedere maggiori pene, così
nessun accorgimento, per i loro peccati, poteva esser loro d'aiuto.
Non avevano ancora avvistato terra, dopo aver fatto rotta in direzione
del Capo, ma dovevano esserne a quindici o venti leghe di distanza.
Da quando erano rimasti senza albero, senza timone e senza vele,
la nave si era diretta verso terra. Vedendo Manuel de Sousa e
i suoi oficiais che erano senza via di scampo, decisero
di costruire alla meglio un timone e, con dei tessuti che trasportavano
come merci, rimediare delle vele per poter raggiungere il Mozambico.
Subito si divisero diligentemente il lavoro: alcuni all'opera
del timone, altri a rimediare un albero, altri ancora intenti
nella fabbricazione di vele e, in queste attività, passarono
dieci giorni. Terminato il timone, quando lo collocarono al suo
posto, risultò troppo stretto e corto, inutilizzabile;
ciò nonostante spiegarono le vele che avevano preparato
per vedere se potevano costituire un mezzo di salvezza ma, manovrando
il timone, non riuscivano assolutamente a governare la nave perché
non aveva le stesse dimensioni di quello che il mare aveva portato
via. Già allora erano in vista della terra. Era l'otto
di giugno e si trovavano così vicini alla costa, con il
mare e il vento a spingerveli contro, che l'unica cosa da fare,
onde evitare di andare a picco, era incagliarsi; allora si raccomandarono
a Dio: la nave, infatti, era ormai squarciata e si teneva a galla
per puro miracolo.
Manuel de Sousa, vedendosi così vicino a terra e senza
via di scampo, seguì il parere degli oficiais i
quali, unanimi, ritenevano che per salvarsi era opportuno continuare
a navigare in quella maniera fino a raggiungere un fondale di
dieci braccia; solo allora, infatti, avrebbero potuto gettare
l'ancora e mettere in acqua il battello per raggiungere la riva.
Calarono subito una manchua con alcuni uomini per perlustrare
la spiaggia e determinare il punto migliore ove poter raggiungere
terra. Stabilirono, inoltre, che, una volta approdati il battello
e la manchua, e sbarcata la gente a bordo, sarebbero tornati
indietro a caricare tutti i viveri e le armi che avessero potuto;
infatti, il resto delle merci che si fosse potuto trarre in salvo
dal galeone avrebbe costituito solo un ulteriore motivo di pericolo
a causa dei Cafri che li avrebbero assaliti per derubarli. Seguendo
questa decisione, si avvicinarono alla costa in mezzo al fragore
del mare e del vento, lascando da un lato e cazzando dall'altro:
il timone non governava più e sottocoperta vi erano oltre
quindici palmi d'acqua.
Quando la nave si trovava già prossima alla terra, gettarono
lo scandaglio ma il fondale era ancora troppo profondo, così
continuarono ad andare avanti. Dopo parecchio tempo ritornò
la manchua e i suoi uomini dissero che lì vicino
vi era una spiaggia dove, se l'avessero raggiunta, sarebbero potuti
sbarcare; infatti, il resto della costa era di rocce aguzze e
grandi scogli, su cui non avrebbero avuto modo di salvarsi.
Che gli uomini meditino bene su ciò, perché è
motivo di grande sgomento! Vedano come l'eventualità che
questo galeone approdi tra i Cafri sia considerata la migliore
via di salvezza, mentre, invero, è cosa pericolosissima!
E da tale situazione si può prevedere a quali tribolazioni
erano destinati Manuel de Sousa, la moglie e i figli. Sentite
le parole degli uomini della manchua, si diedero da fare
per raggiungere la spiaggia nel punto da loro descritto. Quando
gettarono l'ancora la profondità era di sette braccia;
quindi, con grande cura, approntarono le cordature con cui calare
in acqua il battello. La prima cosa che fecero, non appena l'ebbero
preparato, fu di gettare un'altra ancora: il vento era già
più calmo e il galeone distava dalla costa due tiri di
balestra.
Manuel de Sousa, vedendo come il galeone andava irrimediabilmente
a fondo, chiamò il capitano e il pilota e disse loro che,
innanzitutto, lo facessero sbarcare con la moglie, i figli e venti
persone per proteggerli, e, in seguito, andassero a prendere armi,
provviste, polvere e tele di Cambaia, se per caso a terra ci fosse
stata occasione di scambiarli con dei viveri. Aveva intenzione
di erigere un forte in quel luogo con doghe di botti e, con il
legno della nave, costruire una piccola caravella con cui andare
a chiedere aiuti a Sofala. Ma, dal momento che in Cielo era già
decisa la fine di questo capitano, di sua moglie e di tutti i
suoi uomini, non si poteva pensare a nessuna via di scampo cui
il destino non fosse contrario. Infatti, dopo che essi presero
la decisione di costruire un forte, il vento riprese a soffiare
con tale impeto e il mare s'ingrossò tanto che scaraventò
il galeone contro la costa, per cui niente di quanto avevano stabilito
risultò più fattibile. Allora Manuel de Sousa, la
moglie, i figli e altre trenta persone circa si trovavano a terra,
mentre tutti gli altri erano ancora a bordo del galeone.
Si potrebbe fare a meno di riferire dei pericoli che patirono
nello sbarco il capitano e la moglie con queste trenta persone
ma, per raccontare la storia vera e dolorosa, dirò solo
che la manchua naufragò al terzo viaggio e alcuni
uomini morirono, tra cui il figlio di Bento Rodrigues. Fino ad
allora il battello non si era ancora diretto a terra e non osavano
inviarvelo, a causa del mare infuriato; difatti la manchua,
essendo più leggera, era rimasta intatta nei primi due
viaggi.
Quando il comandante e il pilota, insieme al resto della gente
imbarcata nella nave, si resero conto che il galeone girava sull'ancora
di terra, ne dedussero che la fune dell'ancora del largo si era
rotta, segata dagli scogli. Due giorni dopo aver gettato l'ancora,
all'alba del terzo giorno, il galeone era tenuto solo dall'ancora
di terra e il vento ricominciava a soffiare: allora capirono che
per la nave era ormai giunto il momento di affondare e il pilota
disse: "Fratelli, prima che la nave si spacchi e prima di
colare a picco, chi vorrà imbarcarsi con me in quel battello
potrà farlo", e così s'imbarcò e fece
imbarcare il comandante, uomo anziano cui, per l'età, già
veniva meno lo spirito. Salirono a bordo un totale di quaranta
persone, con grande fatica a causa del vento forte, e la corrente,
che li spingeva violentemente verso terra, scaraventò l'imbarcazione
a pezzi sulla spiaggia. Volle Dio nostro Signore che di queste
persone non ne morisse nessuna, e fu un miracolo perché
il battello, prima di arrivare a terra, si capovolse.
Il capitano, che era sbarcato il giorno precedente, andava avanti
e indietro sulla spiaggia animando e aiutando gli uomini come
poteva, e accompagnandoli a un falò che era stato acceso
per proteggersi dal freddo pungente. Sulla nave erano rimaste
circa cinquecento persone e cioè: duecento portoghesi,
tra cui Duarte Fernandes, nostromo del galeone, e il guardìão
e, per il resto, schiavi. Giacché la nave si trovava in
una posizione tale che riceveva numerosi colpi, sembrò
opportuno lasciare l'amarra per portare in salvo la nave a terra;
non vollero però tagliarla affinché la risacca non
li spingesse di nuovo al largo. E non appena la nave smise di
oscillare, nel giro di pochissimo tempo si squarciò nel
mezzo: una spaccatura davanti all'albero e, un'altra, dall'albero
verso poppa. In mezz'ora quei due pezzi divennero quattro e, non
appena le fessure si aprirono, le merci e le casse vennero alla
superficie e la gente, che era sulla nave, si lanciò su
di esse e sui pezzi di legno in direzione della riva.
Morirono più di quaranta portoghesi e settanta schiavi
che si erano tuffati in acqua. La maggior parte delle persone
raggiunsero terra tenendosi a galla sulla superficie del mare,
altri sott'acqua, come piacque a Dio nostro Signore, e molti,
inoltre, rimasero feriti a causa dei chiodi e degli spunzoni di
legno. Dopo quattro ore il galeone era completamente distrutto
senza che ne restasse intatto un solo pezzo grande un braccio
e il mare scaraventò ogni cosa sulla spiaggia. Pare che
le mercanzie caricate nel galeone, appartenenti al re o ai privati,
valessero un conto d'oro: infatti, dalla scoperta dell'India fino
ad allora, non era mai partita da lì una nave così
ricca. E, dato che lo scafo si disfece in mille pezzi, il capitano
Manuel de Sousa non poté costruire l'imbarcazione che aveva
progettato. Infatti non si salvò il battello né
altra cosa su cui poter armare una piccola barca, tantomeno niente
con cui costruirla! Di conseguenza fu costretto a mutare i suoi
piani.
Constatando il capitano e la compagnia di non aver niente con
cui approntare un'imbarcazione, seguendo il consiglio degli oficiais
e dei fidalgos che erano tra loro - Pantaleão de
Sà, Tristão de Sousa, Amador de Sousa e Diogo Mendes
Dourado de Setúbal - decisero di restare alcuni giorni
in quella spiaggia dove si erano messi in salvo (lì infatti
c'era acqua) finché i feriti non si fossero rimessi. Allora
rizzarono delle staccionate con bauli e botti e ne fecero il loro
rifugio per dodici giorni, durante i quali nessun negro del posto
andò a parlar loro. In realtà ai tre uomini che
erano sbarcati per primi erano apparsi nove Cafri su una collinetta,
dove restarono per due ore senza scambiare parola alcuna con i
nostri e, come spaventati, se ne andarono via. Due giorni dopo
i portoghesi decisero di inviare un uomo e un Cafro del galeone
per vedere se trovavano dei negri che volessero parlare con loro
e barattare dei viveri. Costoro camminarono due giorni senza incontrare
anima viva, eccetto alcune capanne di paglia disabitate, e ne
dedussero che i negri erano fuggiti in preda al panico. Allora
tornarono al gruppo di capanne e trovarono delle frecce conficcate
nel suolo, che affermarono essere il loro segnale di guerra.
Tre giorni dopo, sempre in quel luogo dove si erano messi in salvo,
apparvero su un dosso sette o otto Cafri con una vacca legata.
I cristiani fecero loro cenno di scendere e il capitano, insieme
a quattro uomini, andò loro incontro e costoro, una volta
rassicurati, fecero capire a cenni che volevano del ferro. Allora
il capitano fece prendere mezza dozzina di chiodi e glieli mostrò;
si rallegrarono al vederli e, avvicinatisi cominciarono a trattare
il prezzo della vacca. Ma, quando erano già giunti a un
accordo, apparvero cinque Cafri su un altro dosso e cominciarono
a urlare nella loro lingua di non dare la vacca in cambio dei
chiodi. A quel punto i Cafri se ne andarono senza dire niente,
portandosi via l'animale. Il capitano non gliela volle prendere
con la forza, benché ne avesse molto bisogno per sua moglie
e i suoi figli.
Quest'uomo era sempre molto vigile e faceva buona guardia alzandosi
ogni notte tre o quattro volte per i turni di ronda, cosa che
gli causava una grande fatica. In questa maniera passarono dodici
giorni, alla fine dei quali i feriti iniziarono a ristabilirsi:
allora, vedendo che tutti erano in grado di camminare, li chiamò
a consiglio sul da farsi e, prima di prendere in esame la situazione,
pronunciò il seguente discorso: "Amici e signori,
ben vedete lo stato in cui ci troviamo a causa dei nostri peccati,
io sono fermamente convinto che solo i miei sarebbero bastati
per trascinarci nelle attuali difficoltà; ma Dio nostro
Signore è tanto misericordioso che, dopo averci concesso
il grande favore di non farci andare a fondo con la nave, sebbene
avesse imbarcato una così grande quantità d'acqua
sottocoperta, certamente vorrà condurci in terra di cristiani
mentre, a coloro che moriranno di patimenti in tale ricerca, darà
la salvezza eterna.
I giorni qui trascorsi, come sapete, sono stati necessari per
la convalescenza dei feriti; adesso, Dio sia lodato, già
sono in grado di camminare, perciò vi ho fatto radunare
per determinare il cammino da seguire onde trovare scampo. Infatti,
la risoluzione di costruire un'imbarcazione è risultata
vana, come potete constatare, perché non siamo riusciti
a trarre in salvo alcun pezzo della nave. Inoltre, signori e fratelli
miei, ne va della vostra vita come della mia e non ha senso fare
nulla né prendere nessuna decisione senza un consenso unanime.
Vorrei chiedervi di non lasciarmi privo di protezione né
di abbandonarmi, dal momento che io non potrò camminare
speditamente come gli altri, a causa di mia moglie e dei miei
figli. Piaccia a Dio, nostro Signore, di aiutarci con la Sua Misericordia
e di salvarci tutti".
Pronunciato questo discorso, considerarono insieme il cammino
da intraprendere, e decisero di avanzare con il maggior ordine
possibile lungo quelle spiagge in direzione del fiume scoperto
da Lourenço Marques, e tutti gli promisero che mai l'avrebbero
abbandonato. Quindi subito si misero in marcia. Sarebbero stati
a centottanta leghe di distanza da quel fiume se avessero seguito
la costa, ma dovettero camminare per più di trecento leghe
a causa delle numerose deviazioni necessarie per superare i fiumi
e i pantani che incontravano lungo il cammino e poi ritornare
al mare; e, in questa maniera, impiegarono cinque mesi e mezzo.
Da questa spiaggia, a trentun gradi di latitudine, dove naufragarono
il sette luglio del millecinquecentocinquantadue, procedettero
nel seguente ordine: Manuel de Sousa con sua moglie e figli, ottanta
portoghesi e cento schiavi; André Vaz, pilota, andava in
testa alla sua compagnia tenendo alti una bandiera e un crocifisso,
e dona Leonor, la moglie, viaggiava su una portantina sorretta
da schiavi. Subito dopo veniva il capitano del galeone con la
gente di mare e le schiave. Chiudeva la retroguardia Pantaleão
de Sà con il resto dei portoghesi e degli schiavi per un
totale di duecento persone, e tutti insieme saranno stati cinquecento,
di cui centottanta portoghesi. In questo modo camminarono un mese
tra molti patimenti, fame e sete, perché in tutto questo
tempo mangiarono solo il riso recuperato dal galeone e alcuni
frutti della selva, e non trovavano altri viveri né chi
gliene vendesse: attraversando quelle terre vissero in ristrettezze
tali che non si possono né credere né descrivere.
Durante il primo mese probabilmente camminarono per cento leghe,
di cui solo trenta lungo la costa, perché allungavano oltremodo
il cammino nell'attraversamento dei fiumi. Già allora erano
morte dieci o dodici persone. Rimase indietro solo un figlio bastardo
di Manuel de Sousa di dieci o undici anni, già molto indebolito
dalla fame, insieme a uno schiavo che lo portava in spalla. Quando
Manuel de Sousa domandò di lui e gli risposero che era
distante circa mezza lega, fu sul punto d'impazzire, infatti era
convinto che venisse insieme allo zio, Pantaleão de Sà,
come era già successo, e così lo perdette. Subito
promise cinquecento cruzados ai due uomini che fossero
tornati indietro a cercarlo, ma nessuno volle accettare perché
era quasi notte e avevano paura delle tigri e dei leoni che sbranavano
gli uomini non appena rimanevano indietro. Da qui si capirà
quali furono le tribolazioni patite da questo Fidalgo prima
della sua morte. Era venuto meno anche Antònio de Sampaio,
nipote di Lopo Vaz de Sampaio, che fu governatore dell'India;
come pure cinque o sei portoghesi e alcuni schiavi per pura fame
e fatica del cammino.
A quel tempo si erano scontrati diverse volte con i Cafri i quali,
avevano sempre avuto la peggio ma, in una zuffa, uccisero Diogo
Mendes Dourado che, fino alla morte, aveva combattuto da coraggioso
cavaliere. Era così grande lo spossamento causato dalla
veglia, come dalla fame e dalla marcia, che ogni giorno alcuni
morivano, e non passava giorno in cui una o due persone non rimanevano
su queste spiagge e nelle selve, non potendo più camminare,
e subito venivano uccisi da tigri e serpenti, così numerosi
nella regione. Certamente abbandonare uomini in vita, che restavano
indietro in questi deserti, causava un'afflizione e una pena enormi
per gli uni e per altri. Infatti, colui che rimaneva diceva ad
altri della compagnia - forse genitori, fratelli e amici - di
allontanarsi e di raccomandarlo al Signore Iddio. Procurava in
tutti un enorme dolore dover abbandonare il parente o l'amico,
senza poterlo aiutare, sapendo che poco dopo sarebbe stato sbranato
dalle belve feroci. E questo suscita tanto dolore in chi ascolta
e molto di più in chi ne fu testimone e visse quell'angoscia.
Con costante sorte avversa proseguirono, ora entrando nella selva
a procurarsi cibo, ora attraversando fiumi per poi tornare sulla
riva del mare; inerpicandosi su montagne altissime o scendendo
da declivi estremamente scoscesi e, come se tutte queste difficoltà
non bastassero, si aggiungevano quelle procurate dai Cafri. Così
camminarono due mesi e mezzo circa, e tanta era la fame e la sete
che quasi tutti i giorni si verificavano episodi terribili, di
cui narrerò i più notevoli.
Accadde molte volte tra questa gente che si vendesse un boccale
d'acqua di mezzo litro per dieci cruzados, e con un recipiente
di dieci litri e mezzo se ne ottenevano cento; poiché a
volte sorgevano dei disordini, il capitano mandava a prendere
un recipiente, non esistendo una botte più grande nella
compagnia, e pagava cento cruzados a chi l'andasse a riempire
d'acqua. Egli stesso la distribuiva tra i suoi uomini, e pagava
quella che prendeva per sua moglie e i figli da otto a dieci cruzados
ogni litro; e, allo stesso modo, spartiva la rimanente in maniera
da riuscire sempre a ottenere che il denaro ricavato con quell'acqua
servisse, il giorno successivo, a pagare chi andasse a prenderne
dell'altra, correndo quel rischio per puro interesse. Inoltre
pativano fortemente la fame e offrivano molto denaro per un qualsiasi
pesce che si trovasse sulla spiaggia o per un animale di terra.
Continuavano la loro marcia adeguandosi al terreno che incontravano
e sempre con le difficoltà già ricordate. Erano
ormai tre mesi che camminavano con l'intenzione di raggiungere
il fiume Lourenço Marques, ovvero 1'Aguada de Boa Paz.
Da molti giorni si nutrivano solo della frutta che trovavano e
di ossa abbrustolite; spesso nell'accampamento accadeva che una
pelle di cobra fosse venduta per quindici cruzados e, quantunque
secca, la mangiavano dopo averla tenuta un po' a mollo.
Quando camminavano sulle spiagge si cibavano dei crostacei o del
pesce che il mare gettava a riva. Un giorno incontrarono un Cafro,
signore di due villaggi, uomo vecchio e che sembrò loro
di buon animo, come in effetti dimostrò di essere per l'ospitalità
e il ricovero che diede loro. Questi gli disse di non andar via
e di restare in compagnia sua, che li avrebbe sfamati il meglio
possibile giacché, in verità, quella terra era carente
di alimenti, non perché non ne offrisse, ma perché
i Cafri seminano poco e mangiano solo il bestiame brado che cacciano.
Così questo re insistette molto con Manuel de Sousa e la
sua gente affinché restassero con lui, dicendo che era
in guerra con l'altro re, signore delle terre attraverso le quali
sarebbero dovuti passare; infatti, se fossero andati avanti, certamente
sarebbero stati derubati da quel re, più potente di lui.
Di modo che, per il profitto e aiuto che sperava di ricevere da
loro, e anche per aver avuto notizia dei portoghesi attraverso
Lourenço Marques e Antònio Caldeira che erano stati
lì, si dava da fare il più possibile affinché
non passassero per quelle terre. Questi due uomini gli avevano
dato il nome di Garcia de Sà perché era vecchio
e confidavano molto in lui, uomo buono senza dubbio alcuno, se
non per il fatto che tra tutte le genti ci sono i buoni e i cattivi.
E, essendo tale, accoglieva e onorava i portoghesi, e fece il
possibile affinché non proseguissero, ripetendo loro che
sarebbero stati derubati da quel re con cui era in guerra. Per
prendere una decisione si trattennero sei giorni. Ma, dal momento
che Manuel de Sousa, come la maggior parte della compagnia, sembrava
determinato a continuare la marcia, non si volle seguire il consiglio
del re amico.
Il re, vedendo che nonostante tutto il capitano era deciso a ripartire,
gli chiese se, prima di andar via, lo poteva aiutare con alcuni
uomini della sua compagnia contro un re meno forte di lui. Pensando
Manuel de Sousa (e tutti i portoghesi) che non si poteva evitare
di fare quanto veniva loro richiesto, per i piaceri e l'ospitalità
da lui ricevuti, così come per non volerlo contrariare,
trovandosi in suo potere, chiese a Pantaleão de Sà,
suo cognato, di andare ad aiutare il re. Pantaleão de Sà
parti con venti dei suoi uomini e cinquecento Cafri e i loro capitani.
Tornarono indietro di sei leghe da dove erano già passati
e combatterono contro un Cafro che si era ribellato, gli presero
tutto il bestiame, che fu il loro bottino, e lo condussero al
villaggio dove si trovava Manuel de Sousa con il re, e in ciò
impiegarono cinque o sei giorni.
Dopo che Pantaleão de Sà e la sua gente ritornarono
da quella guerra dove erano andati ad aiutare il re amico, e si
furono riposati delle fatiche, il capitano li radunò di
nuovo e unanimi decisero di riprendere il cammino per raggiungere
quel fiume Lourenço Marques, senza sapere che vi erano
già arrivati. Difatti questo fiume dell'Aguada de Boa Paz
ha tre bracci che entrano nel mare in una unica foce, ed essi
si trovavano sulle sponde del più meridionale. E, nonostante
avessero visto dei berretti rossi - indizio che dei portoghesi
erano già passati di lì - la loro sorte li rese
ciechi e decisero di proseguire. Dal momento che dovevano attraversare
il fiume e, essendo grande, potevano farlo solo su un'almadia,
il capitano pensò di impossessarsi di sette o otto almadias,
ma erano incatenate. Il re non volle dargliele, impedendo in tutti
i modi che raggiungessero l'altra sponda, infatti desiderava ancora
trattenerli presso di sé. Allora Manuel de Sousa inviò
degli uomini per vedere se fossero riusciti a sottrarre alcune
almadias, e due di loro tornarono indietro dicendo che
l'impresa sembrava loro ardua.
Altri decisero astutamente di restare, e non appena ebbero un'almadia
a portata di mano, vi si imbarcarono e, navigando verso la foce
del fiume, abbandonarono il loro capitano. Questi, vedendo che
non vi era nessun'altra maniera di attraversare il fiume se non
per volere del re, gli chiese di lasciarlo passare sull'altra
riva nelle sue almadias; disse poi che avrebbe pagato bene
chi lo avesse accompagnato e, per convincerlo, gli diede alcune
delle sue armi. Allora il re andò da lui di persona ma,
dal momento che i portoghesi temevano un tradimento nell'attraversare
il fiume, il capitano Manuel de Sousa lo pregò di ritornare
indietro con la sua gente, lasciando con loro solo i negri dell'almadias.
Giacché il re cafro era incapace di commettere azioni malvage,
anzi li aiutava in quello che poteva, fu facile convincerlo a
tornare indietro: così li lasciò passare sull'altra
sponda come desideravano. Allora Manuel de Sousa fece imbarcare
sulle almadias trenta uomini armati di fucili. Non appena
questi raggiunsero l'altra riva, il capitano, sua moglie e figli
attraversarono il fiume e, dopo di loro, tutti gli altri, senza
venire derubati, e subito si disposero per riprendere la marcia.
Dopo venti leghe di cammino percorse in cinque giorni, ormai al
tramonto, raggiunsero il braccio di mezzo dove trovarono dei negri
che indicarono loro il mare. E, una volta alla foce, videro due
almadias grandi e decisero di allestire in quell'arenile
il loro accampamento per la notte. Quel fiume era salato e non
si trovava acqua dolce nei dintorni se non molto lontano. Durante
la notte la sete fu così grande che avrebbero potuto morirne.
Manuel de Sousa volle mandare a prendere dell'acqua, e nessuno
era disposto a farlo per meno di cento cruzados il recipiente;
a tale condizione ve li mandò, e ogni giorno ne dovette
pagare duecento per poter sopravvivere. Il cibo era assai scarso
e la sete li tormentava; allora volle Dio nostro Signore che l'acqua
fosse il loro unico nutrimento. Il giorno seguente, al calar della
notte, mentre erano in quell'accampamento, videro arrivare le
tre almadias di Cafri per avvisarli, tramite una negra
della compagnia la quale già cominciava a capire qualcosa
della loro lingua, che era approdata lì un'imbarcazione
di uomini uguali ed era già ripartita.
Allora Manuel de Sousa mandò a chiedere se volevano trasbordarli
sull'altra sponda e i negri risposero che era già notte
(perché i Cafri non fanno niente di notte), e che ve li
avrebbero condotti il giorno seguente dietro compenso. Non appena
albeggiò sopraggiunsero i negri in quattro almadias
e, in cambio di pochi chiodi, cominciarono a traghettarli; il
capitano fece passare per primi degli uomini che facessero la
guardia e, subito dopo, in un'almadia s'imbarcò
lui con la moglie e i figli per aspettare sulla riva opposta le
altre tre imbarcazioni cariche di gente.
Si narra che, a quel tempo, il capitano fosse oltremodo malato
a causa delle numerose veglie e fatiche di cui si era fatto carico
più di tutti gli altri. Trovandosi in questo stato, e pensando
che i negri volessero tradirlo, li minacciò con la spada
mentre stavano remando, dicendo: "Cani, dove mi portate?
"
I negri, vedendo la spada sguainata, si gettarono in acqua, e
così tutti corsero pericolo di vita. Allora sua moglie,
e le altre persone che erano con lui, gli dissero di non fare
del male ai negri, altrimenti sarebbero morti.
In verità chi conosceva Manuel de Sousa, la sua saggezza
e dolcezza d'animo, avrebbe potuto ben affermare che non era più
nel pieno delle sue facoltà, perché era stato sempre
prudente e molto premuroso; ma da quel momento, si comportò
in modo tale da non riuscire più a governare la sua gente
come aveva fatto fino ad allora. Una volta giunto sull'altra sponda
si lamentò molto di dolori alla testa e gliela dovettero
fasciare con delle pezze. Poi tutti si radunarono nuovamente.
Quando erano già pronti per riprendere il cammino, un gruppo
di Cafri si avvicinò loro; vedendoli, si misero sulla difensiva
pensando che quelli volessero derubarli. Giunti vicino alla nostra
gente, cominciarono a parlare tra loro e a domandare ai nostri
che gente erano, o di cosa andavano in cerca. Gli risposero che
erano dei cristiani naufragati e li pregavano di condurli a un
fiume grande situato più avanti e, se avevano viveri, di
portarglieli che glieli avrebbero comprati. Tramite una cafra,
nativa di Sofala, i negri dissero che, se volevano viveri dovevano
andare con loro in un luogo dove si trovava il loro re, il quale
li avrebbe accolti molto calorosamente.
A quel tempo erano rimasti forse in centoventi e già allora
dona Leonor andava a piedi e, pur essendo una donna nobile, delicata
e giovane, procedeva per quei cammini aspri e improbi come un
robusto uomo di montagna e spesso consolava i figli. Questo avvenne
quando non vi erano più schiavi per trasportare la portantina
su cui viaggiava. In verità sembra che la Grazia di Dio
nostro Signore spirasse in lei perché, senza di essa, una
donna così debole e poco abituata alla fatica non avrebbe
potuto percorrere quei cammini così lunghi e impervi, sempre
con tanta fame e sete; già allora, a causa delle grandi
deviazioni, avevano superato le trecento leghe di marcia.
Ma torniamo alla storia. Dopo che il capitano e la sua compagnia
capitono che il re si trovava lì vicino, presero i Cafri
come guida e, con molta prudenza, li seguirono verso il luogo
che dicevano, patendo una fame e una sete tali che solo Dio poteva
immaginare. Da lì al villaggio dove risiedeva il re c'era
una lega di distanza. Non appena arrivarono il cafro mandò
a dire di non entrare i quel luogo - perché volevano che
restasse molto nascosto - ma di sistemarsi ai piedi di alcuni
alberi che avevano mostrato loro e lì avrebbero portato
loro da mangiare. Manuel de Sousa così fece, comportandosi
come un uomo che si trova in una terra altrui senza avere tante
informazioni sui Cafri come noi adesso, dopo questo naufragio
e quello della nave São Bento, quando cento uomini avevano
attraversato la Cafraria armati di fucile, di cui i negri hanno
più paura che del demonio in persona.
Quando si furono riparati all'ombra degli alberi, cominciarono
ad arrivare i viveri da barattare con i chiodi. Stettero lì
cinque giorni, ritenendo che vi sarebbero potuti restare fino
all'arrivo della nave dall'India, come dicevano i negri. Allora
Manuel de Sousa chiese una casa al re cafro per ripararvisi con
la moglie e i figli.
Il cafro rispose che gliela avrebbe data, ma che la sua gente
non poteva restare lì tutta assieme, in questo modo, infatti,
non l'avrebbe potuta sfamare perché la terra scarseggiava
di viveri: che rimanesse lui, quindi, con la moglie e i figli
insieme a quanti voleva con sé, mentre gli altri si dovevano
dividere in vari luoghi dove avrebbe dato ordine di dar loro riparo
e viveri fino all'arrivo di una nave. Ma, come si dimostrò
in seguito, era un tranello. Da qui risulta chiaro, come ho detto,
che i Cafri hanno grande paura dei fucili perché avendo
i portoghesi solo cinque fucili su centoventi uomini, il re non
si arrischiò a combattere contro di loro e, per poterli
derubare, li separò uno dall'altro, pur essendo essi uomini
sul punto di morire di fame. I portoghesi, non sapendo che sarebbe
stato meglio non separarsi, si affidarono alla sorte e assecondarono
la volontà di quel re che preparava la loro rovina; e ignorarono
il consiglio del re amico che aveva detto la verità e aveva
fatto loro tutto il bene possibile. E ciò sia di esempio
agli uomini affinché mai pensino di aver ragione in quel
che fanno o dicono convinti del loro potere perché si deve
sempre riporre tutto nelle mani di Dio Nostro Signore.
Il re cafro, dopo aver stabilito con Manuel de Sousa che era opportuno
dividersi nei diversi villaggi e luoghi abitati per esser così
riforniti di cibo, aggiunse che dovevano condurre i loro capitani
dalla sua gente per sapere cosa ognuno di loro era disposto a
dare in cambio del cibo; e questo poteva avvenire solo se i portoghesi
avessero abbandonato le armi, perché i Cafri ne erano intimoriti:
egli le avrebbe fatte riporre in una casa per consegnargliele
non appena fosse giunta la nave dei portoghesi. Poiché
Manuel de Sousa allora era molto malato e non nel pieno delle
proprie facoltà, non rispose come se fosse stato completamente
in sé, ma disse che l'avrebbe comunicato ai suoi. E, giunta
l'ora in cui doveva essere derubato, parlò loro dicendo:
che non aveva intenzione di andar via di lì; che in ogni
modo avrebbe cercato un'imbarcazione o qualsiasi altra cosa che
Dio nostro Signore gli avesse dato in sorte; perché quel
fiume in cui si trovavano era il Lourenço Marques, come
aveva detto il pilota André Vaz.
Inoltre, chi avesse voluto andarsene, lo poteva fare se gli fosse
sembrato opportuno, ma che lui non poteva per amore di sua moglie
e dei figli, in quanto essa era già molto debilitata dalle
grandi fatiche e non più in grado di camminare, né
aveva schiavi che l'aiutassero. Quindi la sua decisione era di
terminare i propri giorni con la famiglia, quando Dio l'avesse
voluto; e chiedeva a coloro che passavano sull'altra riva che,
se avessero incontrato un'imbarcazione portoghese, gliene dessero
notizia. Infine, quanti desiderassero rimanere con lui, lo potevano
fare seguendolo ovunque. Tuttavia, affinché i negri avessero
fiducia in loro, e non pensassero che li avrebbero potuti derubare,
era necessario consegnare le armi onde porre fine a una sventura
così grande come quella che la fame gli stava procurando
da tanto tempo. Ma il parere di Manuel de Sousa, e di quanti concordavano
con lui, non era di persone pienamente in sé in quanto,
se avessero riflettuto bene, si sarebbero resi conto che, nel
tempo in cui avevano tenuto con sé i propri fucili, i negri
non si erano mai avvicinati.
Allora il capitano ordinò che deponessero le armi, nelle
quali, dopo di Dio, era riposta la loro salvezza e, contro la
volontà di alcuni e, ancor più, contro quella di
dona Leonor, gliele consegnarono; ma, oltre a lei, non ci fu nessun
altro che lo contraddicesse, cosa che del resto servì a
ben poco. Allora ella disse: " Non appena avrete consegnato
le armi mi sentirò, insieme a tutta questa gente, senza
più speranza di salvezza". I negri presero le armi
e le portarono dal re.
Quando i Cafri videro i portoghesi senza armi, poiché avevano
già preparato il tradimento, cominciarono subito a dividerli
e derubarli e, a questo fine, li condussero per quelle selve,
ognuno come gli capitava in sorte, per poi riportarli nei luoghi
abitati senza lasciargli niente addosso; poi, con molte percosse,
li cacciavano dal villaggio. Manuel de Sousa, sua moglie e i figli,
il pilota André Vaz e altre venti persone circa erano rimasti
con il re perché tutti avevano con sé molti gioielli,
pietre preziose e denaro; e si afferma che quanto questa compagnia
aveva portato valesse più di centomila cruzados.
Manuel de Sousa con la moglie e quelle venti persone, non appena
furono allontanati dai loro compagni, furono subito derubati di
tutto eccetto i vestiti: il re, allora, disse loro di andarsene
in cerca degli altri, e che non voleva fare del male né
a lui né a sua moglie.
Manuel de Scusa, ritrovatosi in tale situazione, certamente si
rese conto del grande errore che aveva commesso nel consegnare
le armi e, perciò, fu costretto a fare quello che gli comandavano.
Gli altri compagni, che erano novanta, tra cui Pantaleão
de Sà e tre nobiluomini, benché divisi, dopo esser
stati derubati e spogliati dai Cafri cui vennero affidati, poco
a poco, tornarono a riunirsi: non appena furono di nuovo insieme,
tutti mal ridotti e assai afflitti, privi di armi, vestiti e denaro
con cui poter barattare dei viveri, perduto il loro capitano,
ripresero la marcia. E, senza più alcun aspetto umano,
privi di guida, procedevano disordinatamente seguendo diversi
sentieri: alcuni per le selve, altri per le montagne, e così
finirono per sparpagliarsi. Già d'allora ognuno si preoccupava
unicamente di salvarsi la vita, sia dai Cafri che dai Mori; infatti
non si consultavano più fra loro, né vi era chi
li radunasse a questo fine. E poiché si sentivano come
uomini già prossimi alla morte, non ne parlerò più,
per tornare a Manuel de Sousa, alla sua sfortunata moglie e ai
loro figli. Egli, derubato e mandato dal re a cercare i suoi -
già allora senza denaro né armi né gente
per aiutarlo - benché da giorni accusasse dolori alla testa,
si risentì molto di questa aggressione.
E, d'altro canto, cosa si può pensare di una donna così
delicata capitata in tali difficoltà e ristrettezze, nel
vedere il marito in uno stato tale che era incapace di comandare
la sua gente, e di badare ai figli? Ma quale donna assennata,
seguendo il parere degli uomini che erano ancora con lei, cominciò
a procedere per le foreste, senza nessun soccorso né sostegno
oltre quello di Dio. A quel tempo con lei erano rimasti André
Vaz, il pilota, il nostromo, che mai l'abbandonò, una o
due donne portoghesi e alcune schiave. Proseguendo in questo modo
sembrò loro opportuno raggiungere i novanta uomini che
erano stati derubati e che stavano camminando da due giorni, seguendo
le loro orme. Dona Leonor si sentiva già così debole,
triste e sconsolata vedendo lo stato di suo marito, e inoltre,
essendo lontana dagli altri, pensava fosse impossibile riuscire
riunirsi a loro: se vi meditate bene, tutto questo è sufficiente
per spezzare il cuore! Mentre avanzavano in tale maniera, i Cafri
tornarono di nuovo ad attaccarli - lui, sua moglie, e quei pochi
che andavano in loro compagnia -, e li spogliarono senza lasciargli
niente addosso. Ritrovandosi entrambi in quello stato, con i due
figli molto piccini ancora vivi, resero grazie a Dio nostro Signore.
A questo punto si narra che dona Leonor, rifiutando di farsi spogliare,
si difendesse con schiaffi e pugni; infatti la sua natura era
tale che avrebbe preferito essere uccisa piuttosto che ritrovarsi
nuda in pubblico, e non c'è dubbio che si sarebbe lasciata
morire se Manuel de Sousa non l'avesse pregata di lasciarsi svestire
ricordandole che erano nati nudi, e se quello era il volere di
Dio, doveva essere anche il suo. Una delle più grandi sofferenze
che provava era quella di vedere i due piccoli figli piangere
davanti a lei chiedendo da mangiare, senza tuttavia poter far
nulla. Dona Leonor, non appena nuda, si gettò a terra e
si ricopri con i suoi capelli, che erano assai lunghi, scavando
una fossa nella sabbia dove s'infilò fino alla cintola,
senza più uscirne.
Manuel de Sousa, allora, si avvicinò alla sua vecchia balia,
cui era rimasta ancora una mantiglia strappata, e gliela chiese
per coprire dona Leonor, a cui la diede, ma ciò nonostante
ella non volle più abbandonare la fossa ove si era sepolta
da quando era stata denudata.
In verità non conosco chi possa vivere tali avventure senza
provare grande dolore e tristezza. Una gentildonna, figlia e sposa
di un Fidalgo onorato, trattata così rudemente e
con così poco riguardo! Gli uomini che erano rimasti in
loro compagnia, quando videro Manuel de Sousa e sua moglie senza
abiti, si allontanarono per la vergogna che provavano nel vedere
il loro capitano e dona Leonor in quello stato. Allora ella disse
a André Vaz, il pilota: "Ben vedete in che situazione
ci troviamo e che non possiamo più aver scampo, destinati
a morire a causa dei nostri peccati.
Andate via, fate il possibile per salvarvi e raccomandateci a
Dio: semmai raggiungerete l'India o il Portogallo, raccontate
come avete lasciato me, Manuel de Sousa e i nostri figli".
Costoro, vedendo che non avrebbero potuto porre rimedio allo spossamento
del loro capitano, né all'indigenza e miseria di sua moglie
e dei figli, s'inoltrarono in quelle foreste, cercando di porre
in salvo la propria vita. Dopo che André Vaz si allontanò
da Manuel de Sousa e sua moglie, rimasero con loro Duarte Fernandes,
nostromo del galeone, e alcune schiave, di cui se ne salvarono
tre, e raggiunta Goa, raccontarono come avevano visto morire dona
Leonor. Manuel de Sousa, anche se mal ridotto, non si dimenticava
che sua moglie e figli avevano bisogno di nutrirsi. E benché
zoppo per una ferita che i Cafri gli avevano procurato a una gamba,
così sofferente, s'inoltrò nella selva per cercare
della frutta da dar loro da mangiare. Quando tornò indietro,
trovò dona Leonor molto indebolita dalla fame e dalle tante
lacrime; infatti, dopo che i Cafri l'ebbero spogliata, non uscì
più dalla fossa né smise di piangere; trovò
uno dei figli morto e con le sue mani gli diede sepoltura nella
sabbia. Il giorno seguente Manuel de Sousa andò di nuovo
nella selva in cerca di frutta e, raggiunta di nuovo dona Leonor,
la trovò morta insieme all'altro figlio, e su di lei stavano
piangendo cinque schiave con grida altissime.
Dicono che, quando la vide morta, non fece altro che allontanare
le schiave e sedersi accanto a lei, con il viso raccolto in una
mano, per più di mezz'ora, senza piangere né proferir
parola; restando così con gli occhi fissi su di lei, e
senza badare al bambino. Passato questo tempo, si alzò
e cominciò a scavare una fossa nella sabbia con l'aiuto
delle schiave e, sempre senza pronunciar verbo, la sotterrò
a fianco del figlio. Fatto ciò, riprese il cammino che
aveva percorso quando era andato in cerca di frutta e, senza dire
nulla alle schiave, s'inoltrò nella selva e non lo videro
più. Sembra non ci siano dubbi che, andando per quei luoghi,
sia stato sbranato dalle tigri e dai leoni. In questo modo, moglie
e marito, terminarono la propria vita, dopo sei mesi di marcia
in terra dei Cafri tra tante sofferenze.
Gli uomini che si salvarono di tutta questa compagnia - sia tra
coloro che erano restati con Manuel de Sousa quando fu derubato,
sia tra i novanta che li precedevano nella marcia - saranno stati
otto portoghesi e quattordici schiavi, e tre delle schiave che
si trovavano con dona Leonor al tempo della sua scomparsa. Tra
di essi vi era Pantaleão de Sà, Tristão de
Sousa, il pilota André Vaz, Baltasar de Sequeira, Manuel
Castro e, infine, Àlvaro Fernandes. E, mentre costoro camminavano
senza più speranza di poter raggiungere terra di cristiani,
arrivò a quel fiume un'imbarcazione su cui viaggiava un
parente di Diogo Mesquita in cerca di avorio; questi, avuta notizia
che si trovavano dei portoghesi dispersi in quella terra, li mandò
a cercare e li liberò in cambio di alcune perline; ogni
persona era costata due vintens di perline che è la cosa
più stimata dai negri.
Se a quel tempo Manuel de Sousa fosse stato vivo, anche lui sarebbe
stato liberato. Ma sembra che fu meglio così per la sua
anima, poiché lo chiamò a Sé Dio Nostro Signore.
Costoro raggiunsero il Mozambico il venticinque maggio del millecinquecentocinquantatre.
Pantaleão de Sà, dopo aver vagabondato a lungo nelle
terre dei Cafri, giunse a un palazzo reale quasi consunto dalla
fame e dalla fatica di una marcia così prolungata e, avvicinatosi
alla porta, chiese agli uomini di corte di volergli fornire aiuto
da parte del re. Ma essi si rifiutarono di farlo, adducendo come
scusa una grande infermità di cui il re soffriva da un
po' di tempo. E domandando loro l'illustre portoghese di che infermità
si trattasse, gli risposero che aveva una piaga in una gamba così
pertinace e infetta che pensavano potesse morire da un momento
all'altro. Egli udì attentamente e chiese di annunciarlo
al loro re, poiché era medico e forse avrebbe potuto restituirgli
la salute. Allora essi entrarono a corte con grande allegria,
dando notizia dell'accaduto, e il re, istintivamente, ordinò
che lo portassero al suo cospetto.
Pantaleão de Sà, dopo aver visto la piaga, disse:
"Abbia molta fiducia che facilmente recupererà la
salute" e, una volta uscito, si mise a considerare il guaio
in cui si era cacciato, dal quale non ne sarebbe uscito vivo;
difatti non conosceva nessun medicamento che avrebbe potuto applicargli,
perché era un uomo più abituato a togliere la vita
uccidendo, piuttosto che a restituirla curandone le infermità.
Facendo queste considerazioni come chi non dà più
importanza alla propria vita, preferendo morire una volta sola
e non tante, urinò a terra e, fatto un po' di fango, entrò
a corte per applicarlo sulla quasi incurabile piaga. Il giorno
seguente, quando ormai l'illustre Sà si aspettava una sentenza
di morte invece che la salvezza sua e quella del re, ecco uscire
i cortigiani in grande giubilo che lo volevano issare sulle loro
braccia; egli domandò loro la causa di tale improvvisa
allegria ed essi risposero che la piaga, grazie al medicamento
che gli era stato applicato, aveva consumato il putridume e ora
appariva solo la carne sana e buona. Entrò il finto medico
a corte e, vedendo che era vero quanto essi andavano affermando,
disse di continuare con il medicamento, grazie al quale, in pochi
giorni, il re recuperò del tutto la salute.
Considerando questo suo operato, oltre agli altri onori, posero
Pantaleão de Sà su un altare e lo veneravano come
una divinità. Il re gli chiese di rimanere a palazzo, offrendogli
la metà del suo regno, oppure che avrebbe fatto tutto quello
che lui avesse voluto; Pantaleão de Sà rifiutò
l'offerta affermando che doveva tornare dai suoi. E il re, mandando
a prendere una grande quantità di oro e pietre preziose,
lo ricompensò generosamente, e comandò inoltre ai
suoi uomini di accompagnarlo fino in Mozambico.
(Tratto
dalla Storia
tragico-marittima,
di Bernardo Gomes de Brito, edizione italiana a cura di Raffaella
D'Intino, Giulio Einaudi editore, 1992)
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