IL BANCHETTO ANTROPOFAGICO
Eduardo Bueno
Di tutti i “costumi barbari”
degli indios brasiliani al momento dell’arrivo dei colonizzatori
al Nuovo Mondo, nessuno si è rivelato più spaventoso agli sguardi
europei di quello dell’antropofagia. Per quanto fenomeni di cannibalismo
fossero già stati registrati nell’Europa stessa - non si tratterebbe
dunque di un tratto distintivo degli indigeni - niente conosciuto
fino a quel momento poteva essere paragonabile alla macabra cura
del banchetto antropofagico, così come veniva realizzato da quasi
tutti i tupis e tapuias. La morte ritualizzata, la deglutizione
eucaristica dei prigionieri, rappresentavano il punto focale di
una cerimonia il cui massimo sacramento, e scopo quasi unico,
era la vendetta. Il festino cannibale è stato minuziosamente descritto
da cronisti coloniali tra cui i preti francesi Jean de Léry, André
Thevet e Claude d’Abbeville. I passaggi narrativi più impressionanti
sono tuttavia opera del mercenario tedesco Hans Staden, prigioniero
dei tupinambás tra il 1554 e il 1557. È solo grazie a questi testimoni
che è oggi possibile ripercorrere, passo dopo passo, le tappe
del banchetto. La vittima, catturata sul campo di battaglia, apparteneva
a colui che per primo l’aveva toccata. Trionfalmente condotta
al villaggio del nemico, veniva insultata dalle donne e dai bambini.
Era suo preciso dovere urlare: “Io, vostro cibo, sono arrivato”.
Dopo questa aggressione veniva trattato bene, riceveva come compagna
la sorella o la figlia del suo padrone e poteva tornare a camminare
liberamente - fuggire era una ignominia impensabile. Il prigioniero
cominciava ad usare una corda appesa al collo: era il calendario
che segnava il giorno della sua esecuzione, la quale poteva essere
rimandata per molte lune e addirittura per diversi anni. Quando
la data fatidica si avvicinava i guerrieri preparavano ritualmente
la clava con la quale la vittima doveva essere abbattuta. In seguito
aveva inizio il rituale che si estendeva per quasi una settimana
ed al quale partecipava tutta la tribù, dalle donne ai guerrieri,
dai più vecchi fino a quelli appena nati. Nel giorno che precedeva
l’esecuzione, all’alba, il prigioniero veniva accuratamente lavato
e depilato. Solo a seguito di tale operazione lo lasciavano scappare
per ricatturarlo subito dopo. Più tardi il corpo della vittima
veniva tinto di nero, unto di miele e ricoperto di piume e gusci
di uova. Al tramonto si iniziava una lunga bevuta di cauim - un
fermentato della manioca.
La mattina successiva, il boia
avanzava attraverso il cortile, ballando e rigirando gli occhi
nelle orbite. Si fermava di fronte al prigioniero e gli chiedeva:
“Non appartieni per caso alla nazione (X), nostra nemica? Non
avrai ucciso e divorato tu stesso i nostri parenti?” La vittima
fiera rispondeva: “Sì, sono molto audace. Ho ucciso e divorato
molti di voi.” Replicava allora il boia: “Ora tu sei in nostro
potere; tra poco verrai ucciso da me e divorato da tutti.” Per
la vittima quello era un momento glorioso, poiché gli indios brasiliani
consideravano lo stomaco del nemico come il luogo ideale per la
sepoltura. Il boia sferzava allora un colpo di clava sulla nuca
del condannato.
Le vecchie raccoglievano in una ciotola il sangue e il cervello:
il sangue doveva essere bevuto ancora caldo. In seguito il cadavere
veniva arrostito e bollito in modo che la pelle potesse staccarsi.
Si introduceva un bastone nell’ano per impedire le secrezioni.
I membri erano squartati e dopo un’incisione sulla pancia del
cadavere i bambini erano invitati a divorare gli intestini. Subito
dopo, in posizione dorsale, il tronco veniva tagliato a pezzi.
La lingua e la cervella erano destinati ai giovani. Gli adulti
ricevevano la pelle del cranio e le donne gli organi sessuali.
Le madri imbevevano i loro cappezzoli nel sangue per darlo ai
neonati. I più piccoli erano incoraggiati ad ungere le loro mani
nel sangue sgorgante e a celebrare così la consumazione della
vendetta. Le ossa del morto erano preservate: il cranio, incastrato
sopra un palo, veniva esposto di fronte alla casa del vincitori,
i denti erano usati per le collane e le tibie si trasformavano
in flauti e fischi.
(traduzione
di Julio Monteiro Martins)
Eduardo Bueno, giornalista che da anni si occupa
della Storia del Brasile coloniale, è stato il coordinatore del
libro História do Brasil, PubliFolha Editrice, 1997, da cui è tratto
questo scritto.
.
Precedente Successivo
Copertina
|