IL CROCIFISSO
Federigo Tozzi
Ho pensato esista un mondo che Dio non ha finito di creare. La
materia non è morta e non è viva. Vi sono vegetazioni
quasi tutte eguali tra sé; e sbozzature di bestie informi,
che non possono muoversi dal loro fango perché non hanno
né gambe né occhi.
Le piante di questo mondo non sarebbero riconoscibili al colore;
perché non ne hanno. Soltanto quando c'è un tentativo
di primavera, si potrebbero sentire il loro odore che ha però
qualche cosa del fango. Vi è anche un abbozzo di Adamo;
ma senz'anima. Non può parlare né vedere; ma sente
che attorno a lui il fango si move; e ne ha paura.
Non c'è sole né luna; ed è un mondo che resta
nella parte più solitaria dell'infinito; dove le stelle
non vanno mai; dove soltanto qualche cometa va a spegnersi; quasi
in gastigo. Questa mezza vita è più antica della
nostra.
Nondimeno vi sono paesaggi di una bellezza profonda, che sembrano
avere in sé tutta quella bellezza che nel mondo nostro
è nella nostra anima e negli esseri più delicati.
Siccome c'è continuamente una specie di crepuscolo, il
fango, quasi rosso, in quella luce, splende come l'oro. Mentre
l'argilla, vicino alle stese delle acque, è di quel colore
che anche tra noi ricorda quello del mare.
Ma l'Adamo restato così a mezzo, cieco com'è, crede
che le sue tenebre siano la luce; e quando il vento dei temporali
passa sopra la sua pelle egli crede di camminare.
Le foglie delle piante non si potrebbero né meno toccare,
perché si disfanno; e la loro molliccia s'appesterebbe
alle mani: basta, anzi, una pioggia forte a distruggere intere
foreste, che rinascono, poi, quando l'aria riscalda, come i nostri
funghi.
Ma sarebbe difficile distinguere i fiumi dal mare; e dove oggi
è un lago domani ci si vede una montagna. Allora quelle
pianure quasi rosse si spianano fino all'orizzonte sempre torbo;
oppure, vicino al mare, si vede un turchino incerto e lutulentoche
la mattina luccica e la sera doventa nero sopra i macigni e i
sassi.
Ma un fiume più nero di tutti attraversa la pianura sconfinata;
ed è così nero che anche la notte i nostri occhi
lo vedrebbero di lontano. Dove egli passa, fa nascere, invece
che pioppi, un fogliame greve e fitto che sarebbe impossibile
attraversarlo. E' l'estate tutta nera, fatta di tenebre calde
in vece che di sole. Con temporali così avviluppati nelle
nebbie e da nuvole che passano sopra il fiume quasi silenziosi.
E anche nell'ora che il buio è più fitto, il fiume
è visibilissimo.
Pensavo queste cose un pomeriggio domenicale, mentr'ero appoggiato
all'argine del Tevere, nel punto più sudicio e più
deserto. Io guardavo una fila di case quasi tagliate nel mezzo,
perché avevano buttato giù due o tre strade. Si
vedevano le stanze, luride; con i loro colori sbiaditi e ricolati
giù per i muri di fuori. Ciuffi d'erba erano nati nei punti
più pieni di calcina: quell'erba senza fiori, lúcida,
che fa ribrezzo; e che nessun animale mangia.
Ed ecco perché pensavo queste cose. Vicino a me era venuta,
senza che me ne accorgessi subito, una ragazza: scalza, con i
capelli neri, pochi e tenuti fermi dietro la testa da una forcella
sola. Questi capelli erano come certi ragnateli che fanno schifo.
Aveva la fronte grassa, ricoperta di ciccelli grinzosi. Una veste
sbiadita e vecchia; che non le stava su e doveva tenerla ai fianchi
con le mani. Pareva che le fossero caduti addosso chi sa quali
trogoli di sporcizie che lasciano le macchie per sempre. Aveva
il viso piuttosto tondo e bambinesco, con la bocca grossa, quasi
uguale a uno di quei ciccelli della fronte e del collo; attorno
al quale teneva un filo, doventato immondo. Anche i suoi occhi
erano piuttosto tondeggianti e di un colore lì per lì
indefinibile; ma addirittura privi di ogni carattere umano o bestiale.
Sembrava che dentro dovessero avere qualche cosa che non lasciava
passare niente.
Il punto del lungotevere, a quell'ora, era proprio deserto; con
i suoi platani brutti e scortecciati. Sembrava che fosse un punto
morto di Roma, che da lì, attorno a noi, si stendeva lungo
il fiume; ma così lontana come se ne fossimo usciti fuori.
Io non volevo parlare: sentivo che per parlare a quella giovane
dovevo assolutamente dimenticare non solo la mia coscienza, ma
anche ogni cosa della mia memoria. Altrimenti sarebbe stato impossibile;
anch'io mi sentivo abolire ogni vita; e dentro di me doventavo
somigliantissimo a quel che avevo davanti agli occhi. Ne avevo
quasi paura. Non credo che in mezzo a un deserto io avessi subito
una solitudine più arida e più vuota.
Ma pura, durante quel silenzio, il sole mi dava una lucidità
quasi inverosimile e rapida. Non importava più che ci fosse
la cupola di S.Pietro! Anch'essa pareva informe e senza nessuna
possibilità ch'io potessi rivederla in altro modo; tetra
anch'essa come le fette delle case aperte dinanzi a me.
Quella ragazza è nata da una donna che non aveva marito.
Fin da piccola dorme vicino alla latrina; e, a dodici o tredici
anni, forse prima, non è più vergine. La madre va
a stare altrove, ed ella resta sola: una domenica sera non l'ha
più vista tornare briaca dall'osteria. Quasi tutti le danno
da mangiare come a una bastarda. Chi l'ha voluta, l'ha presa:
le hanno pagato mezzo litro o un piatto di maccheroni. Ha soltanto
la veste e la camicia: solo d'inverno, anche le calze e le ciabatte
a colori. Chi la vuole, si avvicina, le sorride e la porta con
sé. Dice come si chiama, mai il suo nome se lo ricorda
lei soltanto; e glielo cambiano sempre.
Quando hanno buttato giù quelle casacce, ella prima ha
dormito tra le macerie; vicino al cane che l'impresario tiene
lì la notte a catena perché non vadan oa rubare
gli usci, le travi, i rottami di ferro, e ogni sorta di avanzi
che si cavano dalle case vecchie. Qualcuno, a buio, la vede; la
desta e poi la lascia dove l'ha trovata. Passa le giornate dormendo,
perché non si leva mai il sonno.
Si lava alla meglio, anche le gambe e tutta la persona, alle fontanelle;
quando è notte. E intanto ora spera, ma non molto, che
la prendano a dormire in una di quelle baracche di legno, coperte
con ritagli di latta arrugginita, che sono sul greto del Tevere;
tra il Ponte del Risorgimento e il Ponte Milvio.
Di là passano, quando è l'ora dell'uscita, parecchi
soldati. Qualche volta, quando sono in due o tre, la picchiano;
ma ella, perché si divertono, non piange; anzi cerca di
divertircisi anche lei, e segue quelli che la picchiano finché
non la mandano via dicendo se no le daranno una coltellata. Ella
li guarda allontanarsi, con il rimpianto di restare sola. E se
delle percosse l'è rimasto il dolore nelle spalle o nelle
braccia, si stringe forte la carne con una mano; ma non piange
né meno ora. Ella, parecchie volte, a meno che non ce la
costringano, non guarda in viso nessuno; e crede, così,
di far piacere . Se qualcuno le chiede un bacio, ella non vuol
darlo; per paura di fare schifo dopo. Ella è così
umile che non vuol guardare. Sentendo che al meno per un minuto
piace a qualcuno, dentro di sé è un gaudio; ma non
lo manifesta, perché, quando ci si è provata, l'hanno
respinta con uno schiaffo sulla bocca o pigliandola per il collo.
Ed ella è doventata, allora, rossa di vergogna.
Desidera, adesso, che l'avvicinino solo per essere sicura che
può far piacere; e quando qualche giornata nessuno la chiama
è triste e livida.
Ella, così vicino a me, s'aspetta che io la cozzi in un
braccio. Ma io, come se fossi spaventato di quel che penso, mene
vado.
Una domenica, passeggio tra il Colosseo e il Foro Romano. Dietro
il muro di una chiesa, c'è un mucchio di cocci e di spazzatura.
I fili d'erba, come lunghi aghi verdi e dritti, l'hanno tutta
trapassata da dentro in fuora.
Ella dorme là sopra; acciambellata dentro la sua veste;
pallida, certo di stanchezza. Le mosche vanno sopra i suoi capelli.
Il sole è forte e fa dolere la testa. L'erba lustra, e
in qualche punto è abbagliante. Qualche ora prima era piovuto,
e ora la terra vapora.
La veste della ragazza è sempre fradicia, benché
le cancellate di legno e di ferro abbiano le punte già
asciutte. E su i mattoni dei ruderi il sole mette un lustrio mobile.
I viottoli sono zuppi di acqua. Ma gli alberi sul Palatino sono
dolci, e le rose da cui l'acqua riesce sgocciolando odorano come
quando si sdrusciano tra le mani. I marmi splendono ; e dove sono
spezzati la loro grana è fatta di punte come il vetro.
Le lucertole paiono di una pietra verde, che sia viva. Il cielo,
sul Colosseo, quasi gemmeo.
Questa volta, se ella si desta, sono deciso a parlare. E' vero
anche che mi vergogno, perché, certo, chi sa che pensano
quelli che mi vedono.
E siccome vi sono momenti che, anche fischiettando un motivo irriconoscibile,
si crede di fare una poesia, e i nostri pensieri ci sembrano di
una bellezza miracolosa, a me non è più possibile
pensare alla ragazza; e i miei occhi si ritraggono subito da lei;
come per istinto. Così a poco a poco, pure restando dove
sono, me ne dimentico completamente.
La luce soffoca; e la polvere si alza attorno al Colosseo, per
quasi tutta la sua altezza; e pare che resti sollevata. Una collina,
con un convento in cima, si rinchiude dentro i suoi alberi e i
suoi cipressi. Un guardiano del Foro esce dal suo casotto di legno
verniciato, fa un passo e si ferma, tenendo l'orologio in mano.
Dal tetto della chiesa volano due cornacchie, facendo smovere
le tegole. La terra si finisce d'asciugare; tutta lavata, pulita,
doventata pura come l'aria.
Io l'amo, allora, la terra, e mi pare che, se io parlassi, la
mia voce avrebbe la sua dolcezza. Io sento perché il sole
la illumina e perché gli alberi sono così belli
con le loro foglie. Io, allora, guardo l'edera, e i fiori vicini
e lontani.
Ma, al muro della chiesa, il caldo fa schiantare il legno di un
crocifisso; come se volesse schiodargli le gambe e le braccia.
E la giovane si desta, come da dentro il mucchio della spazzatura.
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