LA FORZA DEGLI EVENTI
W. Somerset Maughan
Stava seduta sulla veranda in attesa che il marito rientrasse
per il pranzo. Ora che il fresco del mattino era scomparso, il
servitore malese aveva abbassato le persiane; lei però
ne aveva rialzata una, leggermente, in modo da poter guardare
il fiume. Sotto il sole soffocante del mezzogiorno, l'acqua riluceva
del bianco pallore della morte. Un indigeno stava remando in una
canoa così minuscola che era quasi impossibile distinguerne
la sagoma sulla superficie dell'acqua. Un colore livido, esangue,
avvolgeva ogni cosa. Era soltanto una delle tante variazioni cromatiche
provocata dalla calura. (Faceva venire in mente una melodia orientale
in chiave minore, esasperante per la sua ambigua monotonia - l'orecchio,
impaziente, attende una risoluzione, ma la attende invano). Le
cicale intonavano il loro stridulo canto con frenetica energia;
era un suono costante e ripetitivo come il rumore dell'acqua di
un torrente che scorre sulle pietre. Ma d'un tratto fu come se
venisse inghiottito dal forte richiamo di un uccello, melodioso
e variegato, dalle mille sfumature; e per un istante, con una
stretta al cuore, riandò col pensiero al merlo della sua
Inghilterra.
Poi udì il rumore dei passi del marito sul sentiero di
ghiaia dietro al bungalow, quello stesso sentiero che conduceva
all'edificio governativo dove lavorava, ed ella si alzò
in piedi per andare a salutarlo. Guy si affrettò su per
la breve scalinata (il bungalow infatti era costruito su una bassa
palafitta) e andò incontro al ragazzo che, fermo sulla
soglia, lo aspettava per prendere in custodia il suo topee. Entrò
nella stanza che fungeva da sala da pranzo e da soggiorno, e gli
occhi gli brillarono di piacere appena la vide.
- Ciao, Doris. Fame?
- Da morire.
- Dammi solo un minuto per fare il bagno e poi sono subito da
te.
- Sbrigati, - gli disse sorridendo.
Sparì nella camera che fungeva da suo spogliatoio personale,
lo udì fischiettare allegramente mentre, con la noncuranza
che da sempre gli rimproverava, si toglieva gli abiti e li gettava
sul pavimento. Aveva ventinove anni, ma in fondo era ancora un
ragazzo, e lei sentiva che non sarebbe mai cresciuto. Forse era
proprio quello il motivo per cui si era innamorata di lui, poiché
niente al mondo, nemmeno il suo amore per lui, avrebbero potuto
farle dimenticare che non era certo una bellezza. Piccolo e grassoccio,
aveva una faccia rossa e tonda come la luna piena, tutta foruncolosa,
su cui spiccavano i suoi occhi azzurri. L'aveva osservato con
attenzione, ed era stata costretta a confessargli che non c'era
niente nel suo aspetto fisico che le piacesse veramente. Gli ripeteva
spesso che non era affatto il suo tipo.
- Non ho mai detto di essere bello, - replicava lui ridendo.
- Non so proprio cosa ho visto in te.
Ma naturalmente lo sapeva benissimo. Guy era un uomo allegro e
vivace, che non prendeva mai nulla troppo sul serio, e rideva
in continuazione. E poi, faceva ridere anche lei. Trovava la vita
divertente, e aveva un sorriso delizioso. Quando era con lui,
Doris si sentiva felice e di buon umore. E l'affetto profondo
che vedeva in quegli occhi azzurri, sempre così pieni di
gioia, le toccava il cuore. Era stupendo essere amata a quel modo.
Una volta, durante la luna di miele, mentre stava seduta sulle
sue ginocchia, gli aveva preso il viso tra le mani:
- Sei un uomo brutto, piccolo e grasso, Guy, ma hai fascino. Non
posso fare a meno di amarti.
Incapace di contenere l'ondata di emozioni che l'aveva travolta,
gli occhi le si erano riempiti di lacrime. Aveva visto il volto
di lui contorcersi per lo sforzo di controllare l'intensità
della sua passione; e la sua voce aveva tremato un poco, quando
finalmente era riuscito a parlare.
- È una cosa tremenda per un uomo come me essere sposato
a una donna così scarsamente dotata di intelligenza, -
le aveva detto.
Lei aveva riso. Quella era la tipica risposta che si aspettava
di lui, e che avrebbe desiderato sentire.
Era difficile immaginare che non più tardi di nove mesi
prima non avessi mai sentito parlare di lui. L'aveva incontrato
in un paesino in riva al mare dove stava trascorrendo un mese
di vacanza in compagnia della madre. Doris era la segretaria di
un membro del parlamento. Guy era tornato a casa in licenza. Stavano
nello stesso albergo, e in capo a qualche giorno lui le aveva
raccontato tutto della sua vita. Era nato a Sembulu, dove il padre
era stato al servizio del secondo Sultano per trent'anni; terminati
gli studi, aveva deciso di intraprendere la carriera militare.
Era molto legato a quella che considerava la sua patria.
- Dopotutto, l'Inghilterra per me è un paese straniero,
- le aveva confessato, - la mia casa è Sembulu.
E adesso Sembulu era anche la sua casa. Guy le aveva chiesto di
sposarlo alla fine di quel mese di vacanza. Doris sapeva con certezza
che l'avrebbe fatto, ma aveva deciso di rifiutare. Era figlia
unica, sua madre aveva perso il marito, e lei non se la sentiva
di abbandonarla, andandosene così lontano; quando arrivò
il momento di decidere, tuttavia, si sentì trasportare
da un'emozione così violenta e inattesa, che finì
per accettare. Vivevano ormai da quattro mesi nel piccolo avamposto
del quale Guy era responsabile. Lei era molto felice.
Una volta gli aveva detto che era stata sul punto di rifiutare
la sua proposta.
- Ti dispiace di non averlo fatto? - le aveva chiesto lui di rimando,
con uno allegro sorriso negli scintillanti occhi azzurri.
- Mi sarei comportata come una perfetta idiota, in questo caso.
Fortuna che il destino, o il caso, o chissà cos'altro si
sia messo di mezzo e abbia deciso per me!
In quel momento udì il marito scendere rumorosamente gli
scalini che lo dividevano della stanza da bagno. Era un ragazzo
chiassoso, e anche quando camminava scalzo non riusciva a passare
inosservato. Poi dette un grido. Disse due o tre parole nel dialetto
locale che lei non riuscì a capire. Sentì qualcuno
che parlava con lui, in un bisbiglio appena sussurrato. Non le
sembrava il caso che lo importunassero mentre stava per farsi
il bagno. Guy disse ancora qualcosa; e sebbene parlasse piano,
comprese che era contrariato. L'altra persona adesso aveva alzato
la voce; era quella di una donna. Doris pensò che fosse
andata da lui per lagnarsi di qualcosa. Ma evidentemente non aveva
avuto molta fortuna, perché lo udì pronunciare:
vattene via. Fu tutto ciò che riuscì a comprendere
dell'intera conversazione, poi la porta del bagno venne chiusa
a chiave. Seguì il rumore dell'acqua sulla sua pelle (il
rito del bagno continuava a divertirla; le stanze da bagno si
trovavano infatti a livello del giardino, ed erano muniti di una
grossa tinozza da cui si attingeva l'acqua con un secchio di stagno),
e di lì a poco fece la sua apparizione in salotto. Aveva
ancora i capelli bagnati. Si sedettero per mangiare.
- Fortuna che non sono una donna sospettosa né tantomeno
gelosa, - lo canzonò ridendo. - Non so se dovrei permettere
che tu intrattenga conversazioni animate con altre donne mentre
ti stai facendo il bagno.
Nell'entrare, il volto di Guy, solitamente così allegro,
era apparso imbronciato; adesso però il suo viso era tornato
disteso come sempre.
- Non ero molto felice di vederla.
- L'ho immaginato, dal tono della tua voce. E a dire il vero,
credo che tu sia stato alquanto sgarbato con quella ragazza.
- Maledetta rompiscatole, importunarmi a quel modo.
- Cosa voleva?
- Oh, non so. È una donna kampong. Aveva litigato col marito,
o qualcosa del genere.
- Mi domando se sia la stessa che si aggirava qui intorno stamattina.
Guy aggrottò leggermente le sopracciglia.
- C'era qualcuno qui intorno?
- Sì, sono andata nel tuo spogliatoio per controllare che
tutto fosse in ordine, e poi mi sono avviata verso la stanza da
bagno. Mentre scendevo le scale, mi è sembrato che qualcuno
sgattaiolasse fuori della porta, e poi ho visto una donna.
- Le hai parlato?
- Le ho chiesto cosa volesse e lei mi ha risposto qualcosa, ma
non sono riuscita a capire.
- Non ho intenzione di tollerare che ogni genere di vagabondi
si aggirino nelle vicinanze, - sbottò Guy. - Non hanno
nessun diritto di venire qui.
Sorrise, ma Doris, con la sensibilità acuta di una donna
innamorata, notò che sorrideva soltanto con le labbra e
non con gli occhi come faceva di solito, e si domandò cosa
lo turbasse.
- Che cosa hai fatto oggi? - le domandò.
- Niente di speciale. Sono andata a fare una passeggiatina.
- Per il kampong?
- Oh, Guy, ho incontrato due bambini con la pelle molto più
chiara di tutti gli altri. Mi sono domandata se fossero meticci.
Ho cercato di parlare con loro, ma non conoscevano una parola
d'inglese.
- Ci sono un paio di meticci tra i bambini del kampong.
- Di chi sono?
- La loro madre è una delle ragazze del villaggio.
- E il padre?
- Mia cara, questo è proprio il genere di domande che consideriamo
alquanto pericoloso, dalle nostre parti -. Si interruppe. - Molte
dei nostri ragazzi hanno una moglie indigena, ma poi quando tornano
a casa o si sposano, danno loro un bell'assegno e le rispediscono
al villaggio.
Doris rimase in silenzio. Le sembrava un po' spietata, l'indifferenza
con cui le raccontava queste cose. Il suo viso, di una bellezza
tipicamente inglese, leale e aperto, aveva assunto un'espressione
corrucciata.
- E i bambini? - replicò.
- Non ho dubbi che si provveda a loro degnamente. A seconda dei
propri mezzi, ogni uomo fa in modo che ricevano denaro sufficiente
a garantire loro una buona educazione. Di solito trovano un impiego
presso gli uffici governativi, stanno bene, non c'è niente
di cui preoccuparsi.
Gli rivolse un sorriso velato di tristezza.
- Non puoi aspettarti che approvi questo sistema.
- Non devi essere troppo severa, - le rispose sorridendo a sua
volta.
- Non sono severa. Ma ringrazio Dio che tu non abbia una moglie
malese. Non l'avrei sopportato. Persa se quei bambini fossero
tuoi.
Il servitore cambiò i piatti. Non si poteva certo dire
che potessero scegliere tra una grande varietà di cibi.
Cominciavano solitamente con un pesce di fiume, duro e insipido,
tanto da aver bisogno di una bella porzione di ketchup per renderlo
mangiabile, e poi proseguivano con una specie di stufato. Guy
lo innaffiava di Worcester Sauce.
- Il vecchio Sultano pensava che questo paese non fosse adatto
a una donna bianca, - esclamò d'un tratto Guy. - Preferiva
che i suoi uomini mettessero... mettessero su casa con le indigene.
Naturalmente le cose sono diverse adesso. Non ci sono più
guerre, e abbiamo imparato ad adattarci al clima.
- Ma Guy, il più grande di quei bambini non poteva avere
più di sette o otto anni, e l'altro ne aveva su per giù
cinque.
- Ci si può sentire terribilmente soli in questo posto.
Capita spesso che non si veda un altro uomo bianco per sei mesi
di seguito. Quando arrivano qui, sono soltanto dei ragazzi -.
Le rivolse il suo affascinante sorriso, che aveva il potere di
trasformare quella faccia tonda e bruttina. - Hanno delle attenuanti,
credimi.
Aveva sempre trovato quel sorriso irresistibile. Era il migliore
argomento di cui disponesse. Lo sguardo di lei si fece dolce,
colmo di tenerezza.
- Ne sono certa -. Allungò la mano sul tavolino e la appoggiò
sulla sua. - Sono stata molto fortunata a catturarti così
giovane. A essere sincera, avrei sofferto moltissimo, se mi avessero
detto che anche tu avevi vissuto a quel modo.
Le prese la mano e la strinse forte.
- Sei felice qui, tesoro?
- Sì, immensamente.
Aveva un aspetto fresco ed elegante con quel suo vestito di lino.
Il caldo intenso non le procurava alcun fastidio. Sebbene i suoi
occhi bruni fossero innegabilmente graziosi, la sua bellezza non
era che il riflesso della gioventù; ma l'espressione onesta
del suo viso le conferiva una grazia particolare, e i capelli
corti e scuri erano sempre ben pettinati e lucenti. Dava l'impressione
di essere una ragazza intelligente e vivace, e si poteva certo
affermare con sicurezza che il membro del parlamento presso il
quale era stata impiegata, aveva trovato in lei una segretaria
molto efficiente.
- Mi sono innamorata di questo paese a prima vista, - disse. -
Anche se trascorro molto tempo senza di te, credo di non essermi
mai sentita sola.
Avevo letto alcuni romanzi ambientati nell'arcipelago malese,
e l'impressione che aveva derivato da queste letture era stata
quella di una terra cupa e malinconica, con lunghi fiumi minacciosi
e una giungla silenziosa, impenetrabile. Al loro arrivo, dopo
una corsa col piroscafo fino alla foce del fiume, erano saliti
su un battello più grande con a bordo una dozzina di Diak,
che li stava aspettando per condurli a casa. Per un attimo, il
cuore le era venuto a mancare, rapito da tanta bellezza. Quella
che la circondava era una natura amica, che non le incuteva alcun
timore. Esprimeva quella stessa felicità che ritrovava
nel canto degli uccelli appollaiati tra gli alberi, e che non
si sarebbe mai aspettata. Su entrambe le rive del fiume crescevano
mangrovie e palme, oltre le quali si intravedeva la fitta vegetazione
della foresta. In lontananza si estendevano le caratteristiche
montagne blu, una fila dietro l'altra, a perdita d'occhio. Doris
non provava nessun senso di soffocamento o di tristezza, al contrario;
la sua mente correva libera nell'immensità di quegli spazi
aperti, dove la sua fantasia galoppante poteva vagabondare a suo
piacimento. La luce del sole faceva risplendere la vegetazione,
e il cielo era sereno, gioioso addirittura. Quella terra meravigliosa
sembrava volerla accogliere con un sorriso di benvenuto.
Avevano continuato a navigare, tenendosi molto vicini alla riva.
Un bagliore colorato, simile a un gioiello vivente, sfrecciò
per un breve istante davanti ai loro occhi. Era un martin pescatore.
Due scimmie con le code penzolanti andarono a sedersi l'una accanto
all'altra su un ramo. All'orizzonte, laggiù in fondo, sull'altra
riva del fiume, amplissimo e dalle acque limacciose, si intravedeva
una fila di bianche nuvolette; erano le uniche nuvole in quel
cielo così terso, e facevano venire in mente delle ballerine,
tutte in fila e vestite di bianco, che scalpitano impazienti e
felici dietro le quinte, in attesa che si alzi il sipario. Il
cuore le scoppiava per la gioia; e ora, al ricordo di quelle sensazioni,
il suo sguardo si posò sul marito con affezione riconoscente
e assoluta.
E com'era stato divertente sistemare il salotto! Era grandissimo.
Sul pavimento, quando era arrivata, aveva trovato una stuoia sporca
e tutta sbrindellata; sui muri di legno grezzo erano appese (decisamente
troppo in alto) riproduzioni di quadri di pittori famosi, scudi
dyak e parang. Sui tavoli ricoperti di tessuti diak dai colori
cupi, stavano oggetti in ottone del Brunei, che avevano decisamente
bisogno di una bella ripulita, portasigarette vuoti e soprammobili
in argento malese. C'era anche uno scaffale di legno di rozza
fattura contenente edizioni economiche di vari romanzi e un gran
numero di vecchi libri di viaggio rilegati in cuoio, ma ormai
decisamente malconci; accanto ad esso, un altro scaffale colmo
di bottiglie vuote. Era l'abitazione di uno scapolo, disordinata
e austera allo stesso tempo; e sebbene la divertisse, trovava
quella stanza insopportabilmente patetica. Quella che Guy aveva
condotto fino a quel momento le appariva un'esistenza un po' triste
e desolata; e guardandolo, non era riuscita a trattenersi dal
buttargli le braccia al colo e baciarlo.
- Povero il mio tesoro, - gli aveva detto ridendo.
Abile com'era con le mani, in pochissimo tempo Doris aveva trasformato
completamente la stanza.
Aveva riordinato ogni cosa, buttando via ciò che non era
riuscita a sistemare. I regali del matrimonio erano tornati utili.
Adesso il salotto aveva un aspetto accogliente e confortevole.
Graziose orchidee facevano capolino dalle ampolle di vetro, e
masse gigantesche di ramoscelli pronti a sbocciare troneggiavano
da enormi vasi. Provava un orgoglio indescrivibile, poiché
quella era la sua casa (aveva vissuto tutta la vita in un appartamento
misero e angusto), e l'aveva resa bella per lui.
- Sei soddisfatto di me? - gli aveva chiesto una volta terminata
la sua opera di trasformazione.
- Sì, non è male, - gli aveva detto lui sorridendo
per tutta risposta.
Quel gusto per il non detto, per l'allusione, era insito nella
natura di Doris. Era così bello sapere che non c'era bisogno
di parole fra di loro. Entrambi provavano un certo imbarazzo nell'esprimere
le proprie emozioni, e solo raramente rinunciavano a punzecchiarsi
ironicamente l'una l'altra..
Finito di pranzare, Guy si buttò sulla chaise-longue per
riposarsi. Doris si avviò verso la sua camera. Rimase un
po' sorpresa quando lui la attirò a sé mentre gli
passava accanto e, obbligandola a chinare il capo, la baciò
sulle labbra. Non avevano l'abitudine di scambiarsi tenerezze
in ore del giorno così inusuali.
- La pancia piena ti rende sentimentale, zuccherino mio, - lo
canzonò lei.
- Togliti dai piedi, non voglio vedere la tua faccia per almeno
due ore.
- Non russare.
Così dicendo, si allontanò. Si erano alzati all'alba,
ed erano così stanchi che non gli ci volle molto per addormentarsi.
Doris fu risvegliata dal rumore dell'acqua nella stanza da bagno
del marito. I muri del bungalow risuonavano come una tavola armonica,
e nessun movimento dell'uno sarebbe potuto sfuggire all'altra.
Si sentiva troppo pigra per alzarsi, ma quando udì il servitore
che stava apparecchiando per il tè, balzò in piedi
e corse giù nella sua stanza da bagno. L'acqua, fresca
ma non fredda, era piacevolmente tonificante. Quando entrò
in salotto, Guy stava tirando fuori le racchette dall'armadio
a muro, poiché era loro abitudine giocare a tennis nella
breve tregua dal caldo che la sera concedeva loro. Faceva buio
alle sei.
Dopo aver preso il tè, ansiosi di non perdere tempo, si
avviarono allegramente verso il campo da tennis, che distava circa
due o trecento iarde dal bungalow.
- Oh, guarda, - esclamò Doris, - c'è quella ragazza
che ho visto stamattina.
Guy si voltò subito. I suoi occhi si soffermarono per un
istante sull'indigena, ma non disse nulla.
- Che bel sarong indossa, - osservò Doris. - Mi domando
da dove venga.
Le passarono accanto. Era piccola e sottile, con quegli occhi
grandi e stellati tipici della sua razza, e una gran massa di
capelli corvini. Non si mosse, ma li fissò con uno sguardo
strano. Doris notò che non era così giovane come
aveva pensato in un primo momento. I tratti del viso erano leggermente
segnati e aveva la pelle scura, ma era molto carina. Teneva in
braccio un bambino. Doris sorrise quando lo vide, ma neppure l'ombra
di un sorriso affiorò sulle labbra della donna. Il suo
volto rimase impassibile. Non era Guy che guardava, ma Doris,
ed egli proseguì come se non l'avesse neppure vista. Doris
si voltò verso di lui.
- Non è un tesoro quel bambino?
- Non l'ho notato.
Era sconcertata dall'espressione del suo viso. Guy era pallido
come un cencio, e quei foruncoli che le avevano sempre provocato
un certo fastidio, apparivano ancora più infiammati.
- Hai notato le sue mani, i suoi piedi? Sembrano quelli di una
duchessa.
- Tutti gli indigeni hanno buoni mani e buoni piedi, - rispose
Guy, ma non in modo così scherzoso come avrebbe voluto;
era come se stesse facendo un grosso sforzo per obbligarsi a parlare.
Ma Doris non aveva nessuna intenzione di mollare la presa.
- Chi è, la conosci?
- È una delle ragazze del kampong.
Ormai erano arrivati al campo da tennis. Quando Guy si avvicinò
alla rete per controllare che fosse ben tesa, si voltò
indietro. La ragazza era ancora là, esattamente nello stesso
punto dove l'avevano vista. I loro occhi si incontrarono.
- Servo? - disse Doris.
- Sì, le palline sono nella tua metà campo.
Guy giocò malissimo. Solitamente le concedeva un vantaggio
di quindici a zero e ciononostante riusciva comunque a batterla,
ma quel giorno Doris vinse con facilità. Guy era stranamente
silenzioso. In genere era un giocatore chiassoso, ingombrante,
che urlava in continuazione maledicendo la sua stupidità
quando mancava una palla, o la canzonava quando Doris se la lasciava
sfuggire.
- Hai perso la partita, giovanotto, - esclamò lei.
- Neanche per sogno, - ribatté lui.
Cominciò a tirare con forza sforzandosi di batterla, ma
una dopo l'altra le palline si infilavano in rete. Non gli aveva
mai visto quell'espressione così dura e seria. Possibile
che fosse arrabbiato perché non giocava bene? Si fece buio,
e smisero di giocare. La donna stava ancora nella stessa posizione
in cui si trovava quando erano arrivati, e continuò a fissarli
mentre si allontanavano, col volto imperturbabile.
Le persiane della veranda adesso erano alzate e sul tavolino che
separava le loro chaise-longue c'erano delle bottiglie e della
soda. Era l'ora in cui si concedevano il primo bicchierino della
giornata, e Guy preparò un paio di gin sling. Il fiume
si estendeva in tutta la sua ampiezza davanti ai loro occhi e
sulla riva più lontana la giungla era avvolta dal mistero
della notte che incombeva. Un indigeno vogava silenzioso contro
corrente con entrambi i remi, in piedi sulla prua dell'imbarcazione.
- Ho giocato come un idiota, - osservò Guy, interrompendo
il silenzio. - Non mi sento tanto bene.
- Mi dispiace. Non starai per prenderti l'influenza, vero?
- Oh, no. Domani mi sentirò di nuovo in forma.
L'oscurità si richiuse su di loro. Le rane gracchiavano
rumorosamente e di tanto in tanto si udivano le brevi note di
qualche uccello notturno. Lucciole svolazzavano tutt'intorno alla
veranda; la casa sembrava circondata da tanti alberi di Natale
illuminati da minuscole candeline. Brillavano dolcemente. A Doris
parve di udire un lieve sospiro. Si sentiva un po' inquieta. Guy
era sempre così pieno di allegria.
- Cosa succede, amore mio? - gli disse con voce tenera. - Racconta
tutto alla mamma.
- Niente. Ora di un altro bicchierino, - le rispose scherzosamente.
L'indomani, quando arrivò la posta, era di nuovo di ottimo
umore. Il battello raggiungeva la foce del fiume due volte al
mese, la prima mentre se dirigeva verso i bacini carboniferi,
la seconda al ritorno. Nel viaggio di andata trasportava la posta
che Guy mandava a ritirare con una delle sue imbarcazioni. L'arrivo
della posta rappresentava un momento di grande eccitazione nelle
loro vite tranquille, prime di avvenimenti di rilievo. Per i primi
due giorni scorrevano rapidamente tutto ciò che avevano
ricevuto, lettere, giornali inglesi e giornali provenienti da
Singapore, riviste e libri, riservandosi per le settimane successive
una più attenta lettura. Si rubavano l'un l'altra le riviste
illustrate. Se Doris non fosse stata distratta dalla lettura,
forse si sarebbe accorta del cambiamento che era avvenuto in Guy.
Avrebbe trovato difficile descriverlo, e ancora più difficile
spiegarselo. C'era nei suoi occhi un'espressione guardinga e indefinita,
e sulla sue labbra aleggiava un'ombra di ansietà.
Poi una mattina, circa una settimana dopo, mentre stava seduta
nella stanza ombreggiata a studiare un libro di grammatica malese
(si dedicava con applicazione allo studio di quella lingua), udì
una certa confusione provenire dall'esterno. Sentì la voce
irata del giovane servo, poi quella di un altro uomo (forse si
trattava del portatore d'acqua), e infine quella di una donna,
stridula e ingiuriosa. Stavano litigando. Andò alla finestra
e aprì le persiane. Il portatore d'acqua teneva una donna
per un braccio e la stava trascinando via, mentre il servitore
la spingeva da dietro con entrambe le mani. Doris riconobbe immediatamente
la donna che aveva visto una mattina aggirarsi nella tenuta e
più tardi, quello stesso giorno, accanto al campo da tennis.
Teneva un bambino stretto al seno. Tutti e tre urlavano con voce
adirata.
- Smettetela, - si intromisi Doris. - Cosa state facendo?
Nell'udire la sua voce, il portatore d'acqua lasciò immediatamente
la presa e la donna, ancora spinta da dietro, cadde a terra. D'improvviso
calò il silenzio, e il servitore prese a fissare il vuoto
con espressione cupa. Il portatore d'acqua esitò un istante
e poi sgattaiolò via. La donna si rialzò lentamente,
si risistemò il bambino in braccio e rimase immobile, senza
staccare gli occhi da Doris. Il ragazzo le disse qualcosa che
Doris non avrebbe potuto udire, anche se avesse potuto capire.
La donna non mutò minimamente espressione, dimostrando
che quelle parole non le avevano fatto nessun effetto; poi si
allontanò piano piano. Il servitore la seguì fino
al cancello della tenuta. Doris lo chiamò mentre stava
per rientrare in casa, ma lui finse di non averla udita. Stava
cominciando ad arrabbiarsi.
- Vieni subito qui, - gli ordinò in tono imperioso.
Evitando il suo sguardo irato, le si avvicinò immediatamente.
Salì gli scalini e si fermò sull'uscio. La guardò
con espressione imbronciata.
- Cosa stavi facendo con quella donna? - gli domandò aspra.
- Tuan dice lei non venire qui.
- Non devi trattare una donna a quel modo. Non lo tollero. Dirò
tutto quello che ho visto a Tuan.
Il ragazzo non rispose. Sembrava guardare da un'altra parte, ma
lei sentiva che la stava osservando attraverso le lunghe ciglia.
Lo congedò.
- Per il momento è tutto. Puoi andare.
Senza dire una parola, il ragazzo si voltò e si avviò
verso gli alloggi della servitù. Era esasperata, e non
riuscì più a concentrarsi sugli esercizi di grammatica.
Di lì a poco il servitore entrò per apparecchiare
la tavola per il pranzo. All'improvviso si diresse verso la porta.
- Cosa succede? - gli domandò Doris.
- Tuan viene ora.
Uscì per andare incontro a Guy, pronto a prendergli il
cappello. Il suo fine udito aveva percepito il rumore dei passi
di Guy prima di lei. Guy non salì subito le scale, come
faceva di solito; si fermò, e Doris comprese subito che
il ragazzo era andato ad aspettarlo per parlargli dell'incidente
avvenuto quella mattina. Si strinse nelle spalle. Evidentemente
voleva raccontargli per primo la sua versione della storia. Ma
rimase senza fiato quando Guy entrò in salotto. Era terreo
in volto.
- Guy, cosa è successo?
Arrossì improvvisamente.
- Niente. Perché?
Era così esterrefatta, che lo vide scomparire in camera
sua senza riuscire a proferire una sola delle parole che stavano
esplodendo dentro di lei. Ci mise più del solito a farsi
il bagno e cambiarsi d'abito; quando finalmente riapparve, servirono
il pranzo.
- Guy, - gli disse mentre si sedevano a tavola, - quella donna
che ho visto qualche giorno fa è di nuovo stata qui oggi.
- Me l'hanno detto, - rispose.
- I servitori l'hanno trattata in modo brutale. Sono dovuta intervenire.
Devi assolutamente parlare con loro di questa faccenda.
Sebbene il malese comprendesse perfettamente ogni parola, fece
finta di non aver udito. Le passò una fetta di pane tostato.
- Le è stato detto di non venire qui. Ho dato istruzioni
precise affinché, nel caso si fosse presentata un'altra
volta, venisse cacciata via.
- Era proprio il caso di trattarla così male?
- Rifiutava di andarsene. Non credo che siano stati più
duri del necessario.
- È stato orribile vedere una donna maltrattata a quel
modo. Aveva in braccio un neonato.
- Non è proprio un neonato. Ha tre anni.
- E tu come lo sai?
- So tutto di lei. Non ha il minimo diritto di venire qui a importunarci.
- Cosa vuole?
- Vuole esattamente ciò che ha fatto. Dare fastidio.
Doris rimase in silenzio per qualche minuto. Era sorpresa dal
tono di voce del marito. Parlava come se tutto ciò non
la riguardasse affatto. Lei pensava che peccasse di sensibilità
nei suoi riguardi. Era nervoso e irritabile.
- Dubito che potremo giocare a tennis nel pomeriggio, - disse
Guy. - Sembra che stia per arrivare un temporale.
Quando Doris si svegliò, stava piovendo; non c'era modo
di uscire. Mentre prendevano il tè, Guy non disse una parola,
e appariva distratto e assente. Doris prese il lavoro e cominciò
a cucire. Guy si sedette a leggere alcuni giornali inglesi che
non era ancora riuscito a sfogliare da cima in fondo, ma era inquieto.
Andava avanti e indietro per la stanza e infine uscì sulla
veranda. Guardava la pioggia che scendeva fitta fitta, senza tregua.
A cosa stava pensando? Doris era turbata.
Rimasero in silenzio durante tutta la cena. Guy aveva cercato
di essere di buon umore come sempre, ma il suo sforzo appariva
evidente. Aveva smesso di piovere e la notte era piena di stelle.
Si sedettero sulla veranda. Per evitare di attirare gli insetti,
avevano spento le luci in salotto. Ai loro piedi, con la sua formidabile
indolenza, scorreva il fiume - silenzioso, enigmatico, fatale.
Possedeva la terribile ineluttabilità del destino.
- Doris, c'è qualcosa che devo dirti, - proruppe Guy all'improvviso.
Aveva una voce strana. Era frutto della sua immaginazione, o davvero
non riusciva a stare fermo? Sentì una fitta al cuore al
pensiero della sua sofferenza, gli mise una mano tra le sue, con
dolcezza. La allontanò da sé.
- È una storia piuttosto lunga. Temo che non sia neppure
una bella storia, e trovo piuttosto difficile parlartene. Ti chiedo
di non interrompermi, di non dire nulla, finché non avrò
finito.
Nell'oscurità della notte Doris non riusciva a distinguere
i tratti del suo volto, ma sentiva che aveva un'aria smarrita.
Non rispose. Guy parlava a voce così bassa, che a malapena
riusciva a penetrare il silenzio della notte.
- Avevo soltanto diciotto anni quando arrivai qui. Avevo appena
terminato gli studi. Trascorsi tre mesi a Kuala Solor, e poi fu
mandato in un avamposto lungo il fiume Sembulu. Naturalmente là
abitavano un Resident e sua moglie. Vivevo in quello che fungeva
da ufficio governativo, ma avevo l'abitudine di pranzare con loro
e trascorrere le serate in loro compagnia. Stavo benissimo. Poi
un giorno l'ufficiale si ammalò e dovette fare ritorno
in patria. Eravamo a corto di uomini a causa della guerra e fui
incaricato di dirigere questo posto. Ero molto giovane, naturalmente,
ma parlavo la lingua degli indigeni come uno di loro, ed essi
si ricordavano di mio padre. Ero felice come non mai al pensiero
di stare da solo.
Smise di parlare mentre vuotava la pipa e la riempiva nuovamente.
Quando accese un fiammifero Doris notò, senza neppur aver
bisogno di guardarlo, che la sua mano era malferma.
- Non avevo mai vissuto solo prima di allora. A casa c'erano mio
padre e mia madre, e di solito anche un servitore. E poi a scuola,
ovviamente, c'erano sempre i miei compagni. All'andata, sul battello,
avevo sempre gente intorno, e così a Kuala Solor e ugualmente
nel primo posto dove fu assegnato. La gente laggiù era
simile alla mia gente. Mi sembrava sempre di vivere in mezzo alla
folla. Mi piace la compagnia degli altri. Sono un buontempone.
Ci sono molte cose che mi fanno ridere, e amo avere qualcuno con
cui condividere la mia allegria. Qui però era diverso.
Naturalmente, di giorno andava tutto bene; avevo il mio lavoro
e parlavo con i Diak. Sebbene fossero cacciatori di teste a quell'epoca,
e di tanto in tanto mi creassero qualche problema, erano veramente
delle brave persone. Andavamo molto d'accordo. Naturalmente mi
sarebbe piaciuto stare a chiacchierare con un altro bianco, ma
erano meglio di niente, e per me era tutto più facile,
perché non mi consideravano uno straniero. Anche il lavoro
mi piaceva. La sera sedevo tutto solo in veranda a bere, ma potevo
sempre contare sulla compagnia di un buon libro. R c'erano intorno
molti ragazzi. Il mio servitore si chiamava Abdul. Aveva conosciuto
mio padre. Quando mi stancavo di leggere, lo chiamavo e ci mettevamo
a conversare.
Furono le notti a decidere per me. Dopo cena i ragazzi si ritiravano
a dormire nel kampong. Io rimanevo completamente solo. Non si
sentiva volare una mosca; soltanto il gracidare di un chik-chak
qua e là. Sembrava spuntare fuori da tutto quel silenzio,
all'improvviso, e mi faceva trasalire. Udivo il suono di un gong
e di qualche petardo provenire dal villaggio. Laggiù si
stavano divertendo, in fondo nos erano poi così lontani,
ma io dovevo rimanere al mio posto. Ero stufo di leggere. Mi sentivo
in trappola, più che se fossi stato rinchiuso in una prigione.
Notte dopo notte era sempre la stessa cosa. Bevevo tre o quattro
whisky, ma non è poi così allegro bere da solo,
e non mi faceva star meglio; l'unico effetto prodotto dall'alcol
era quello di farmi sentire tutto pesto l'indomani. Provai ad
andare a dormire subito dopo cena, ma non riuscivo a prender sono.
Stavo sdraiato nel letto, sempre più accaldato e sempre
più sveglio, finché non sapevo più dove sbattere
la testa. Diavolo, quelle notti erano lunghissime, interminabili.
Mi sentivo così triste, avevo così pena di me -
se ci penso adesso mi viene da ridere, ma allora avevo solo diciannove
anni e mezzo - che qualche volta mi mettevo a piangere.
Poi una sera, dopo cena, Abdul aveva appena finito di sparecchiare
e stava per andarsene, quando si mise a tossicchiare. Mi chiese
se non mi sentissi solo in quella casa di notte. "Oh, no,
va tutto bene", risposi. Non volevo sapesse che razza di
stupido fossi, ma immagino che avesse capito benissimo. Rimase
lì in piedi senza parlare, ma io intuivo che avrebbe voluto
dirmi qualcosa. "Che c'è?" - gli domandai. -
Sputa il rospo". Allora mi confidò che se avessi voluto
avere una ragazza che mi tenesse compagnia, ne conosceva una che
avrebbe accettato di venire a stare con me. Era una gran bella
ragazza e lui me la raccomandava caldamente. Non mi avrebbe dato
alcun fastidio - in fondo non era male avere qualcuno che mi gironzolasse
intorno. Si sarebbe occupata della casa e di tutte le mie cose.
Mi sentivo terribilmente triste. Aveva piovuto tutto il giorno
e non avevo neanche potuto fare un po' di esercizio fisico. Sapevo
che non sarei riuscito a prender sonno per ore. Non mi sarebbe
costato molto, aggiunse, i suoi parenti erano povera gente, e
si sarebbero accontentati di un piccolo regalo. Duecento dollari
malesi. "Voi vedere, - continuò. - Se non piacere,
voi manda via". Gli chiesi dove fosse. "Qui, - disse.
- Io chiama lei". Si diresse verso la porta. Aspettava seduta
sugli scalini in compagnia della madre. Entrarono e si sedettero
sul pavimento. Offrii loro dei dolci. Era timida, naturalmente,
ma abbastanza sveglia, e quando le parlai, mi rispose con un sorriso.
Era giovanissima, poco più di una bambina, mi dissero che
aveva quindici anni. Era incredibilmente graziosa, e indossava
gli abiti migliori che possedeva. Cominciamo a parlare. Non disse
molto, ma rise di cuore quando cominciai a stuzzicarla. Abdul
mi convinse che sarebbe diventata una gran chiacchierona, non
appena mi avesse conosciuto meglio. Le disse di venire a sedersi
accanto a me. Proruppe in una risatina e rifiutò, ma la
madre la incoraggiò, così le feci spazio sulla seggiola.
Arrossì, poi si avvicinò e si rannicchiò
contro di me. Anche il servitore rideva. "Lei già
affezionata voi. Desidera lei rimane?", domandò. Vuoi
rimanere?", le chiesi a mia volta. Sempre ridendo, nascose
il viso sulla mia spalla. Era molto soffice e minuta. "Benissimo,
falla rimanere".
Guy si chinò in avanti e si servì un bicchiere di
whisky e soda.
- Posso parlare adesso? - domandò Doris.
- Aspetta, non ho ancora finito. Non ero innamorato di lei, non
lo sono mai stato, neanche all'inizio. La presi con me soltanto
per avere qualcuno che mi tenesse compagnia quando tornavo a casa.
Penso che sarei impazzito se non l'avessi fatto, oppure avrei
preso a bere. Ormai non ne potevo più. Ero troppo giovane
per essere così solo. Non ho mai amato nessun'altra all'infuori
di te. - Esitò un istante. - Ha vissuto qui fino a quando
non tornai a casa in licenza lo scorso anno. È la donna
che hai visto gironzolare qui fuori.
- Sì, lo immaginavo. Aveva un bambino in braccio. È
figlio tuo?
- Sì. È una bambina.
- È l'unica?
- Qualche giorno fa hai visto due ragazzini al kampong. Me ne
hai parlato tu.
- Allora hai tre bambini?
- Sì.
- La tua è davvero una bella famiglia numerosa.
Percepì il gesto improvviso che la sua osservazione provocò
in lui, ma non disse nulla.
- Non sapeva che eri sposato finché non tornasti all'improvviso
con una moglie, vero? - domandò Doris.
- Sapeva che mi sarei sposato.
- Quando?
- Li rimandai al villaggio prima di partire. Le dissi che era
tutto finito. Le diedi ciò che le avevo promesso. Ha sempre
saputo che si trattava soltanto di una situazione temporanea.
Mi era stufato. Le dissi che mi sarei sposato con una donna della
mia razza.
- Ma se non mi avevi neanche ancora vista.
- Sì, è vero. Ma avevo deciso che mi sarei sposato,
una volta tornato a casa -. Scherzò nella sua solita vecchia
maniera. - Devo ammettere che cominciavo a essere piuttosto disperato,
prima di conoscerti. Mi innamorai di te appena ti vidi, e fin
dal primo momento capii che avrei sposato te o nessun'altra.
- Ma perché non me l'hai detto? Non pensi che sarebbe stato
giusto concedermi la possibilità di giudicare da sola?
Avresti anche potuto immaginare che venire a scoprire che il proprio
marito ha convissuto per dieci anni con un'altra donna e tre bambini
fosse un'esperienza piuttosto traumatica per una ragazza!
- Non mi aspetto che tu capisca. Da queste parti le cose avvengono
in modo diverso. Vivere con un'indigena è normale. Cinque
uomini su sei lo fanno. Quando ti conobbi, pensai che forse ne
saresti rimasta turbata, e non volevo correre il rischio di perderti.
Cerca di capirmi, ero terribilmente innamorato di te. E continuo
a esserlo, tesoro mio. Non c'era motivo che tu lo venissi a sapere.
Non pensavo di tornare qui. È difficile che si venga rimandati
nello stesso distretto dopo la licenza. Quando ci trasferimmo
qui, le offrii del denaro affinché se ne andasse in qualche
altro villaggio. Prima disse che l'avrebbe accettato, ma poi cambiò
idea.
- Perché mi racconti tutto questo proprio adesso?
- Perché si sta comportando in un modo orrendo. Non so
come abbia fatto ad accorgersi che tu non sapevi nulla di lei.
Appena l'ha scoperto, ha cominciato a ricattarmi. Ho dovuto darle
un mucchio di denaro. Ho dato ordini affinché non le fosse
permesso di entrare nella nostra proprietà. Questa mattina
ha fatto quella scenata solo per attirare la tua attenzione. Voleva
spaventarmi. Non ce la facevo più ad andare avanti così.
Ho pensato che l'unica cosa da fare fosse dirti chiaramente come
stavano le cose.
Seguì un lungo silenzio. Infine egli mise la sua mano tra
le sue.
- Tu capisci, non è vero, Doris? So di essermi comportato
in modo vergognoso.
La mano di lei non si mosse. Era gelida.
- È gelosa?
- Be', direi che c'erano molti vantaggi di cui godeva quando viveva
qui, e immagino che non sia molto contenta di esserne stata privata.
Ma non è mai stata innamorata di me, non più di
quanto lo sia mai stato io. Le donne indigene non si affezionano
mai veramente ai bianchi, credimi.
- E i bambini?
- Oh, i bambini stanno bene. Ho provveduto a loro. Appena i ragazzi
saranno grandi abbastanza, li manderò a scuola a Singapore.
- Non significano niente per te?
Ebbe un attimo di esitazione.
- Voglio essere franco con te. Mi dispiacerebbe se gli capitasse
qualcosa. Quando stava per arrivare il primo figlio, pensavo che
sarei stato molto più legato a lui di quanto lo fossi mai
stato a sua madre. Immagino che le cose sarebbero andate così,
se avesse avuto la pelle bianca. Naturalmente, quando non era
che un neonato, era una creaturina buffa e tenera, ma non l'ho
mai sentito veramente mio. Penso che questo spieghi ogni cosa:
è come se quei bambini non mi appartenessero. Talvolta
mi sono rimproverato, perché il mio distacco mi appariva
innaturale, ma in tutta onestà devo ammettere che non significano
niente di più di qualsiasi altro bambino. Quelli che non
hanno figli raccontano un mucchio di sciocchezze sentimentali
sul sentirsi padre e tutto il resto.
Le aveva confessato ogni cosa. Lui stava lì, in attesa
di una sua parola, ma lei non aprì bocca. Rimaneva seduta,
immobile.
- C'è qualcos'altro che vorresti sapere, Doris? - le domandò
infine.
- No, mi è venuto un gran mal di testa. Credo che andrò
a dormire. - Parlava senza alcuna esitazione nella voce. - Io
non so cosa dire. È successo tutto così all'improvviso.
Devi concedermi un po' di tempo per pensare.
- Sei arrabbiata con me?
- No, affatto. È solo... è solo che vorrei restare
sola per un po'. No, non alzarti. Vado a dormire.
Si alzò dalla chaise-longue e gli mise una mano sulla spalla.
- Fa così caldo stanotte. Preferirei che tu dormissi nelle
tue stanze. Buona notte.
Scomparve. La udì chiudere a chiave la porta della camera
da letto.
L'indomani Doris era pallidissima, e lui comprese che non aveva
chiuso l'occhio. Non c'era asprezza nei suoi modi, si comportava
come sempre, ma si intuiva che si sentiva a disagio; parlava del
più e del meno come se stesse conversando con uno sconosciuto.
Non avevano mai litigato, ma Guy aveva la sensazione che si sarebbe
comportata così, se avessero avuto una discussione, e la
successiva riconciliazione le avesse lasciato una ferita ancora
aperta. Il suo sguardo lo sconcertava; gli sembrava di leggere
nei suoi occhi una paura indefinita. Subito dopo cena gli disse:
- Non mi sento molto bene stasera. Penso che andrò subito
a letto.
- Oh, tesoro mio, mi dispiace, - proruppe lui.
- Non è nulla di serio. Mi rimetterò in un paio
di giorni.
- Verrò a darti la buonanotte più tardi.
- No, è meglio di no. Credo che cercherò di dormire
subito.
- Va bene, allora vieni qui a darmi un bacio prima di andare via.
Vide che arrossiva. Per un breve istante lei parve esitare; poi,
evitando di guardarlo, si chinò su di lui. La prese tra
le braccia e le cercò le labbra, ma lei fu pronta a voltarsi
e Guy dovette accontentarsi della sua guancia. Poi si allontanò
subito, e si udì nuovamente il suono della chiave che girava
dolcemente nella serratura. Guy si buttò pesantemente sulla
sedia. Cercò di leggere, ma il suo orecchio era attento
a percepire anche il minimo suono che provenisse dalla stanza
della moglie. Aveva detto che sarebbe andata a letto subito, ma
non sentiva nessun rimore. Quel silenzio assoluto lo rendeva incredibilmente
nervoso. Schermando con una mano la lampada, notò che si
intravedeva un barlume sotto la porta; non aveva spento la luce.
Che cosa diavolo stava facendo? Posò il libro. Sarebbe
stato molto meglio se si fosse arrabbiata con lui o avesse fatto
una scenata, o se fosse scoppiata a piangere; sarebbe riuscito
ad affrontare tutto questo; la sua calma invece lo paralizzava.
E poi cos'era quella paura che aveva visto nei suoi occhi così
chiaramente? Ripensò ancora una volta a tutto ciò
che le aveva raccontato la sera prima. Non sapeva proprio come
avrebbe potuto dirglielo diversamente. Dopotutto, lui aveva fatto
come tutti gli altri, e quella storia era finita molto prima di
incontrarla. Naturalmente, per come erano andate in seguito le
cose, si era comportato come un perfetto idiota, ma è sempre
facile essere saggi con il segno di poi. Appoggiò una mano
sul cuore. Che strana sensazione, sentiva male dentro.
- Immagino che questo sia ciò che intendono quando dicono
che uno ha il cuore spezzato. Ma mi domando per quanto tempo dovrà
ancora durare.
Avrebbe forse dovuto bussare alla sua porta e chiederle di parlare
con lui? Era meglio discuterne apertamente. Era necessario che
lei capisse. Ma quel silenzio al di là della porta lo terrorizzava.
Non un rumore! Forse era meglio lasciarla sola. Era naturale che
si sentisse profondamente turbata. Doveva concederle tutto il
tempo di cui aveva bisogno. Pazienza, l'unica soluzione era avere
pazienza; forse preferiva lottare da sola; doveva darle tempo;
doveva avere pazienza.
La mattina dopo, le domandò se avesse dormito bene.
- Sì, molto bene, - gli rispose.
- Si arrabbiata con me? - chiese rivolgendole uno sguardo compassionevole.
Lo guardò con i suoi grandi occhi innocenti.
- No, affatto.
- Oh, mia cara, sono così sollevato. Mi sono comportato
come un bruto, come una bestia addirittura. Lo so che per te è
stato orribile. Ma perdonami, ti prego. Sono così infelice.
- Sì, ti perdono. E non ti serbo rancore.
Le rivolse un sorriso mesto; la guardava come avrebbe fatto un
cane bastonato.
- Non è stato molto piacevole dormire solo le ultime due
notti.
Lei distolse lo sguardo. Impallidì lievemente.
- Ho fatto portare via il letto in camera mia. Prendeva così
tanto spazio. L'ho fatto sostituire con un lettino da campo.
- Ma mia cara, che cosa stai dicendo?
Adesso lo guardava dritto negli occhi, senza battere ciglio.
- Non ho più intenzione di vivere con te come una moglie.
- Mai più?
Doris scosse il capo. La guardò attonito. Non riusciva
a credere a ciò che aveva appena udito e il suo cuore cominciò
a battere forte, dolorosamente.
- Ma è così ingiusto verso di me, Doris.
- Non ti sembra di essere stato ingiusto, a portarmi qui, considerate
le circostanze?
- Ma se mi hai appena detto che non mi serbi rancore.
- È vero. Ma tutto il resto non c'entra. Non posso più
farlo.
- Ma come riusciremo a vivere insieme in questo modo?
Fissò il pavimento. Sembrava assorta in profonde riflessioni.
- Quando volevi baciarmi sulla bocca ieri sera, mi sono quasi
sentita male.
- Doris.
Alzò il viso di scatto, i suoi occhi erano freddi e ostili.
- Quel letto su cui ho dormito, è lo stesso letto in cui
ha concepito i suoi figli? - Vide che arrossiva tutto. - Oh, è
orribile. Come hai potuto? - Si torse le mani, e le sue dita contratte,
torturate, sembrarono dei serpentelli che si dibattevano per liberarsi
dalla stretta. Facendo un grande sforzo su se stessa, riuscì
a controllarsi. - Sono quasi giunta a una decisione. Non voglio
essere ingiusta con te, ma ci sono cose che non puoi più
chiedermi di fare. Ci ho pensato bene. Non ho fatto altro da quando
mi hai raccontato tutto, giorno e notte, e non ce la faccio più.
Il mio primo istinto è stato quello di preparare i bagagli
e andarmene. Subito. Il battello sarà qui tra due giorni,
tre al massimo.
- Non significa niente per te il fatto che ti amo?
- Oh, lo so che mi ami. E non ho intenzione di andarmene. Offriamoci
un'altra possibilità, a tutti e due. Ti ho amato così
tanto, Guy -. La voce le si incrinò per l'emozione, ma
non pianse. - Non voglio comportarmi in modo irragionevole. Dio
solo sa che non voglio essere ingiusta verso di te. Guy, vuoi
concedermi un po' di tempo?
- Non riesco a capire cosa intendi dire.
- Voglio semplicemente essere lasciata sola. I sentimenti che
si affollano dentro di me mi spaventano.
Aveva visto giusto allora; lei aveva paura.
- Quali sentimenti?
- Per favore non chiedermi nulla. Non voglio dire niente che possa
in alcun modo ferirti. Forse riuscirò a farcela. Dio solo
sa quanto lo vorrei. Ci proverò, te lo prometto. Ci proverò.
Dammi sei mesi di tempo. Farò qualunque cosa per te, tranne
una -. Unì le mani in segno di supplica. - Non c'è
motivo di disperare che potremo essere ancora felici insieme.
Se mi ami veramente avrai... avrai pazienza.
Guy sospirò profondamente.
- Va bene, - disse. - Naturalmente non voglio forzarti a fare
nulla contro la tua volontà. Sarà come tu desideri.
Affondò nella sedia come se, divenuto improvvisamente vecchio,
dovesse fare uno sforzo enorme per muoversi; infine si alzò.
- È meglio che vada in ufficio.
Prese il suo topee e uscì.
Passò un mese. Le donne nascondono meglio i loro sentimenti
degli uomini, e se un estraneo fosse passato di lì per
caso, non si sarebbe accorto del turbamento di Doris. Ma l'agitazione
nell'animo di Guy era palese; il suo viso tondo e gioviale era
teso per l'angoscia, e i suoi occhi non riuscivano a nascondere
il tormento, il desiderio di sapere. Osservava Doris. Lei era
allegra e si prendeva gioco di lui come aveva sempre fatto; giocavano
a tennis; chiacchieravano del più e del meno. Ma era chiaro
che lei stava soltanto interpretando una parte, e alla fine, incapace
di trattenersi, Guy decise di parlare ancora una volta del suo
rapporto con la donna malese.
- Oh, Guy, non c'è motivo di ritornare su questo argomento,
- rispose allegramente. - Ci siamo detti tutto ciò che
c'era da dire e non ti accuso di nulla.
- Perché vuoi punirmi allora?
- Povero ragazzo mio, non ho nessuna intenzione di punirti. Non
è colpa mia se... -, si strinse le spalle. - La natura
umana è così bizzarra.
- Non capisco.
- Non sforzarti di capire.
Cercò di addolcire con un sorriso tenero, rassicurante,
quelle parole che altrimenti sarebbero suonate così dure.
Ogni sera, prima di andare a dormire, si chinava su Guy e gli
dava un bacio sulla guancia. Le sue labbra lo sfioravano appena.
Era come se la sua guancia venisse accarezzata dalle ali di una
farfalla notturna. Passò un altro mese, poi un terzo, e
finalmente quei sei mesi, che gli erano sembrati così interminabili,
giunsero alla fine. Guy si domandava se si ricordasse della sua
promessa. Ora osservava con apprensione tutto ciò che diceva,
ogni espressione del suo viso, ogni gesto delle sue mani. Lei
non lasciava trasparire nulla. Gli aveva domandato di concederle
sei mesi; ebbene, i sei mesi erano passati.
Il battello raggiungeva la foce del fiume, recapitava la posta
e proseguiva la sua corsa. Guy era occupato a scrivere le lettere
che il battello avrebbe ritirato durante il viaggio di ritorno.
Trascorse qualche giorno. Era martedì, e il prahu era pronto
a partire all'alba del giovedì per andare ad attendere
il battello. Se si fa eccezione per i pasti che consumavano insieme,
quando Doris si sforzava di tenere viva la conversazione, di recente
non avevano parlato molto; dopo cena, come era loro abitudine,
presero i rispettivi libri e cominciarono a leggere. Quando il
servitore ebbe finito di sparecchiare e si fu allontanato, Doris
abbassò il suo libro.
- Guy, ho qualcosa da dirti, - sussurrò.
Il cuore gli batté forte, fu come se all'improvviso andasse
a sbattere contro le costole, e sentì che aveva cambiato
colore.
- Oh, mio caro, non fare quella faccia, non è poi così
terribile, - gli disse con un sorriso.
Ma egli si accorse che la sua voce tremava.
- Allora?
- Ti chiedo di fare qualcosa per me.
- Tesoro mio, farei qualunque cosa per te.
Allungò il braccio per cercare le sue mani, ma lei lo allontanò.
- Ti chiedo di lasciarmi andare via.
- Che cosa? - gridò inorridito.
- Quando? Perché?
- Ho sopportato finché ho potuto. Non ce la faccio più.
- Per quanto tempo starai via? Per sempre?
- Non so. Credo di sì -. Si interruppe per un istante,
cercando di mostrare una sicurezza che non provava. - Sì,
per sempre.
- Oh, Dio mio!
Aveva la voce rotta dall'emozione e lei temette che stesse per
scoppiare a piangere.
- Oh, Guy, non volermene. Non è colpa mia. Non posso farci
niente.
- Mi hai chiesto sei mesi. Ho accettato le tue condizioni. Non
puoi certo dire che ti ho dato fastidio, in tutto questo tempo.
- No, no, certo che no.
- Ho cercato di non far trasparire quanto sia stato infelice in
questi mesi.
- Lo so. E te ne sono molto grata. Sei stato incredibilmente comprensivo
nei miei riguardi. Ascoltami, Guy, ti ripeto ancora una volta
che non ti accuso di niente. Dopotutto, non eri che un ragazzo,
e ti sei comportato come tutti gli altri; so bene cosa significhi
sentirsi soli in questo posto. Oh, mio caro, sono così
triste per te. Lo sapevo fin dall'inizio . Ecco perché
ti ho chiesto sei mesi. Il mio buonsenso mi ripete che sto facendo
molto rumore per nulla, che sono irragionevole, che sono ingiusta
verso di te. Ma vedi, il buonsenso non ha nulla a che fare con
tutta questa storia; bambini nel villaggio, mi tremano le gambe.
Ogni cosa in questa casa; quando penso al letto in cui ho dormito,
mi vengono i brividi... tu non puoi sapere ciò che ho patito.
- Penso di averla convinta ad andarsene. E ho chiesto un trasferimento.
- Non servirebbe a niente. Lei ci sarà sempre. Tu appartieni
a loro, non a me. Penso che forse sarei riuscita a sopportare
tutto questo, se avessi avuto un bambino solo, ma tre; e i maschi
ormai sono quasi grandi. Hai vissuto con lei per dieci anni -.
Non riuscì più a contenere l'angoscia e il dolore
di tutti quei mesi. Era disperata. - È qualcosa di fisico,
non posso farci nulla, è più forte di me. Penso
a quelle sue braccia scure e sottili che ti abbracciano e mi sento
invadere dalla nausea. Penso a te che stringi quei bambini dalla
pelle scura. Oh, è orribile. Il tocco delle tue mani mi
è odioso. Ogni sera, ho dovuto fare uno sforzo enorme su
me stessa per riuscire a baciarti, ho dovuto serrare i pugni e
costringermi a sfiorarti la guancia -. Apriva e chiudeva le dita
nervosamente, angosciosamente, e aveva perso del tutto il controllo
della voce. - So che è colpa mia. Sono una sciocca, un'isterica.
Pensavo che ce l'avrei fatta, che sarei stata più forte
io. E invece non ci riesco, non ci riuscirò mai. È
causa mia, sono io quella che deve pagare. Se mi chiederai di
rimanere, io rimarrò ; ma se rimango, ne morirò.
Ti supplico di lasciarmi andare.
Le lacrime che aveva trattenuto così a lungo adesso le
rigavano le guance, e cominciò a piangere amaramente, con
disperazione. Non l'aveva mai vista piangere prima.
- Naturalmente non voglio trattenerti qui contro la tuo volontà,
- rispose lui con voce fioca.
Esausta, si appoggiò allo schienale della seggiola. Appariva
sconvolta. Era indicibilmente penoso vedere quel viso, solitamente
così quieto e sereno, abbandonarsi al dolore senza opporvi
nessuna difesa.
- Mi dispiace moltissimo, Guy. Ti ho rovinato la vita, ma anche
la mia ora non vale più niente. E dire che avremmo potuto
essere così felici insieme.
- Quando vuoi partire? Giovedì?
- Sì.
Lo fissò con sguardo compassionevole. Guy affondò
il viso tra le mani. Poi finalmente rialzò il capo.
- Sono stanchissimo, - mormorò.
- Posso andare?
- Sì.
Rimasero seduti per un minuto, forse due, senza dire una parola.
Quando il chik-chak emise il suo verso acuto, rauco, e così
bizzarramente umano, lei se ne andò. Guy si alzò
e andò fuori, sulla veranda. Si appoggiò alla ringhiera
e guardò l'acqua che scorreva dolcemente. Udì Doris
entrare in camera sua.
L'indomani si svegliò più presto del solito; si
avvicinò alla porta della camera di Doris e bussò.
- Sì?
- Devo risalire il fiume oggi. Tornerò tardi.
- Va bene.
Doris comprese. Aveva fatto in modo di stare via tutto il giorno,
in modo da non essere a casa mentre lei preparava i bagagli. Era
un'occupazione oltremodo dolorosa. Quando finì di sistemare
i vestiti, andò nel salotto e cercò con lo sguardo
le cose che le appartenevano. Le sembrava orribile portarle con
sé. Lasciò ogni cosa dov'era; prese unicamente la
fotografia della madre. Guy rientrò soltanto alle dieci
di sera.
- Mi dispiace di non aver potuto farti compagnia per la cena,
- disse. - Ho dovuto sbrigare un mucchio di faccende con il capotribù.
Lo vide vagabondare per la stanza con lo sguardo; Guy si accorse
che la fotografia della madre non era più al suo posto.
- È tutto pronto? -le domandò. - Ho dato ordine
che la barca sia pronta a salpare all'alba.
- Ho detto al servitore di svegliarmi alle cinque.
- È meglio che ti dia un po' di soldi -. Si avvicinò
alla scrivania e firmò un assegno. Poi prese qualche banconota
da un cassetto. - Tieni qualche spicciolo, dovrebbe bastarti fino
a Singapore, poi là potrai cambiare l'assegno.
- Grazie.
- Vuoi che ti accompagni?
- Oh, penso che sia meglio dirci addio qui.
- Va bene. Credo che andrò a dormire. Ho avuto una giornataccia,
e sono stanco morto.
Non le sfiorò neppure la mano. Si ritirò subito
in camera sua. Di lì a poco sentì che si era buttato
sul letto. Rimase seduta per qualche minuto, guardando per l'ultima
volta la stanza dove era stata così felice, e al contempo
così disperata. Sospirò profondamente. Si alzò
e andò a camera sua. Era tutto sistemato nelle valigie,
tranne quelle due o tre cose di cui aveva bisogno per la notte.
Era buio quando il ragazzo venne a svegliarla. Si vestirono in
fretta e quando furono pronti, trovarono la colazione ad attenderli.
Udirono d'un tratto il rumore dei remi della barca che si dirigeva
verso il pontile sotto il bungalow, e poi i servi che portavano
giù il bagaglio. Cercarono di mangiare, ma non riuscivano
a fingere. L'oscurità a poco a poco si assottigliò
lasciando intravedere il fiume. Aveva un aspetto spettrale. Non
era ancora giorno, ma la notte ormai era già svanita. Il
silenzio amplificava le voci degli indigeni sul pontile. Guy guardò
il piatto della moglie. Non aveva toccato cibo.
- Se hai finito, è meglio che andiamo. È ora di
partire.
Non rispose. Si alzò da tavola. Andò in camera sua
a controllare di non aver dimenticato nulla e poi, l'uno accanto
all'altra, discesero gli scalini. Un piccolo sentiero tortuoso
conduceva al fiume. Le guardie indigene con le loro eleganti uniformi
stavano allineate lungo il pontile, e quando arrivarono presentarono
le armi. Il comandante della barca le tese la mano per aiutarla
a salire. Si voltò e guardò Guy. Cercava disperatamente
di trovare un'ultima parola di conforto, di chiedergli ancora
una volta di perdonarla, ma delle sue labbra non usciva alcun
suono.
Lui le tese la mano.
- Arrivederci, ti auguro buon viaggio.
Si strinsero le mani.
Guy fece un cenno col capo al comandante e la barca partì.
L'alba si stava insinuando tra le rive del fiume ancora avvolto
dalla foschia, ma la notte incombeva ancora nell'oscurità
della giungla. Ritto sul pontile, Guy non si mosse finché
il battello si confuse con le ombra del mattino. Si voltò
con un sospiro. Annuì distrattamente quando la guardia
gli presentò le armi. Una volta raggiunto il bungalow,
chiamò il servitore. Passeggiò avanti e indietro
per la stanza raccogliendo tutto ciò che era appartenuto
a Doris.
- Imballa queste cose, - disse. - È meglio non lasciarle
in giro.
Poi si sedette sulla veranda e osservò il giorno che avanzava
a poco a poco, simile a un dolore amaro, immeritato e intollerabile.
Infine guardò l'orologio. Era ora di andare in ufficio.
Quel pomeriggio non riuscì a prender sonno, la testa gli
doleva terribilmente, così afferrò il fucile e andò
a passeggiare nella giungla. Non prese nulla, ma continuò
a camminare fino a che si sentì stremato. Verso sera tornò
a casa e bevete un paio di bicchieri e infine arrivò il
momento di vestirsi per la cena. Che senso aveva adesso cambiarsi
d'abito; tanto valeva indossare indumenti più comodi; si
infilò una giacca indigena piuttosto larga e un sarong.
Prima di Doris, quello era stato il suo abbigliamento abituale.
Era scalzo. Cenò svogliatamente, il ragazzo sparecchiò
e poi se ne andò. Si sedette a leggere il "Tatler".
Il bungalow era avvolto dal silenzio. Non riusciva a leggere e
lasciò cadere il giornale sulle ginocchia. Era esausto.
Non riusciva a pensare e la sua mente era assente. Il chik-chak
faceva un gran chiasso quella notte, e col suo richiamo rauco
e inatteso sembrava burlarsi di lui. Era incredibile pensare che
un suono così forte provenisse da un'ugola così
minuta. D'un tratto udì un bussare discreto alla porta.
- Chi è?
Pausa. Guardò la porta. Il chik-chak rideva sguaiatamente.
Un bambino scivolò nella stanza e rimase in piedi sull'uscio.
Era un piccolo meticcio con una maglietta cenciosa e con un sarong,
il maggiore dei suoi due figli maschi.
- Cosa vuoi? - disse Guy.
Il ragazzo fece un passo avanti e si sedette a gambe incrociate.
- Chi ti ha detto di venire qui?
- Mi ha mandato mamma. Chiede, hai bisogno di qualcosa?
Guy lo fissò intensamente. Il ragazzo non aggiunse altro.
Stava seduto ad aspettare, timidamente e con gli occhi bassi.
Poi Guy, immerso nelle sue dolorose riflessioni, affondò
il viso tra le mani. A cosa serviva? Era finita. Finita! Si arrese.
Si appoggiò allo schienale e sospirò profondamente.
- Dì' a tua madre di prendere le sue cose e le vostre.
Può tornare.
- Quando? - chiese il ragazzo, impassibile.
Calde lacrime rigavano il viso di Guy, quel viso buffo e tondo,
foruncoloso.
- Stanotte.
Racconto tratto dalla collana:
Racconti dei Mari del Sud, Torino, Einaudi, 1995
(traduzione di Paola Novarese)
L'autore, W. Somerset Maughan
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