LINDA, UNA STORIA ORRIBILE

Caio Fernando Abreu

A
Sergio Keuchguerian

"Tu non hai mai sentito parlare di maledizione
non hai mai visto un miracolo
non hai mai pianto tutta sola in un cesso sporco
né hai mai voluto vedere il volto di Dio."

(Cazuza: Só as mães são felizes) (1)


DOVETTE suonare più volte alla porta prima di sentire il rumore dei passi che scendevano le scale. Rivide il tappeto ormai logoro, un tempo color porpora, poi rosso, più tardi di un rosa sempre più chiaro - che colore era ora? - e udì il latrato stonato di un cane, una tosse notturna, dei rumori secchi. Poi la luce accesa all'interno della casa cadde filtrata dal vetro sul suo viso con la barba di tre giorni. Mise le mani in tasca alla ricerca di una sigaretta o un mazzo di chiavi da rigirare tra le dita, in attesa che si aprisse la finestrella in cima alla porta.
Incorniciato nel rettangolo dello spioncino, nel viso di lei gli occhi si fecero piccoli per cercare di vederlo meglio. Si squadrarono così per un attimo - lui fuori, lei dentro casa - finché la donna non allontanò il viso, senza mostrare alcuna sorpresa. Era invecchiata, notò mentre entrava. E si era incupita, si accorse in seguito.
"Non mi hai detto che venivi", farfugliò con quel suo tono aspro a lui familiare, che un tempo non capiva. Ma che ora, dopo tanti anni, aveva imparato a interpretare come un quanto-mi-sei-mancato, dái-entra, che-bello-rivederti, o qualcosa di simile. Più affettuosa, anche se un po' goffa.

Lui l'abbracciò, impacciato. Non erano soliti farlo, quel contatto, quelle carezze. Sprofondò intontito, rapido, in quell'odore conosciuto - sigaretta, cipolla, cane, sapone, crema di bellezza, carne vecchia, e tanti anni di solitudine. Afferrandogli le orecchie, come usava fare, lo baciò sul capo. Poi prese a spingerlo con la mano verso l'interno.
"Come avvisarti se non hai un telefono", rispose. "Ho deciso di farti una sorpresa."
Mentre accendeva luci, una certa ansia, lo spingeva sempre di più verso l'interno. A mala pena riuscì a rivedere la scala, la libreria, la cristalliera, i portafotografie impolverati. La cagnetta si attorcigliò intorno alle sue gambe, con un guaire sommesso.
"Vai via, Linda", gridò simulando il gesto di un calcio. La cagnetta si tirò in disparte, e lei rise. "Basta una minaccia, e lei obbedisce. Povera, quasi cieca. Un essere inutile, rognoso. Sa solo dormire, mangiare e cagare, aspettando la morte."
"Quanti anni ha?", chiese. Perché questo era il modo migliore per arrivare al dunque: passando per vie traverse, per domande banali. E andando oltre quei suoi modi aspri, oltre quei fiori violacei della vestaglia.
"Intorno ai quindici, credo". La sua voce era così roca. "Dicono che l'età dei cani bisogna moltiplicarla per sette."
Si sforzò un poco a pensare. Era questo il modo giusto.
"Allora sui novantacinque."
Lei gli mise la valigia su una sedia della sala. Strinse di nuovo gli occhi e si guardò intorno quasi spiando, come se si fosse appena svegliata.
"Cosa?"
"Linda, dicevo. Se fosse una persona avrebbe novantacinque anni."
Lei rise.
"Più vecchia di me, figurati. Vecchia da far paura". Si chiuse la vestaglia sul seno. Le sue mani si strinsero sulla gola. Piene di macchie scure, osservò, come lentiggini (che-ra-to-si, ripeté mentalmente), un po' di smalto sulle unghie tenute a filo delle dita ingiallite dalla nicotina. "Lo prendi un caffè?"
"Se non è troppo disturbo". Sapeva che continuava ad essere questo il modo giusto, mentre lei entrava sovrana in cucina, il suo regno. Con le mani in tasca, si guardò intorno appoggiandosi alla porta.
La sua schiena, così curva. Sembrava più lenta, pur avendo conservato quell'antica maniera di aprire e chiudere senza sosta le ante della credenza, disporre tazzine, posate, tovaglioli, facendo un gran rumore e insistendo perché si sedesse - mentre lui stava ad osservare. Imbrattate di unto, le pareti della cucina. La piccola finestra, il vetro infranto. Sulla parte rotta aveva incollato una pagina di giornale. Il Paese in preda a caos, malattie e miseria, lesse. E si sedette sulla sedia di plastica lacerata.
"Bello caldo", disse versando il caffè. "Adesso riesco a dormire solo dopo aver preso un caffè."
"Non dovresti. Il caffè tiene svegli."
Lei scrollò le spalle.
"Al diavolo. Con me funziona sempre tutto al contrario."
La tazzina aveva una macchia scura sul fondo e il bordo scheggiato. Lui girò il caffè, svogliatamente. D'un tratto, nell'attimo in cui ambedue rimasero in silenzio, provò il desiderio di fuggire. Come azionando il reverse di un videoregistratore, muoversi all'indietro, prendere la valigia, attraversare la sala, il corridoio d'ingresso, ripercorrere il sentiero in pietra del giardino e ritornare sulla stradina con le case quasi tutte bianche. Fino a raggiungere un taxi, l'aeroporto, l'altra città, lontana dal Passo di Guanxuma (2), verso l'altra vita dalla quale era venuto. Anonima, senza legami né passato. Per sempre, per non tornare mai più. Fino alla morte di uno di loro. Ebbe paura. E desiderò. Sollievo, vergogna.
"Vai a dormire", disse. "E' tardi. Non sarei dovuto venire così, senza avvisare. Ma come farlo se non hai il telefono."
Lei si sedette di fronte a lui, i lembi della vestaglia si aprirono. Tra i fiori color viola vide le molte rughe della pelle, un foglio di seta accartocciato. Poi lei strinse gli occhi, indagando il viso di lui mentre beveva un sorso di caffè.
"Cosa c'è?", chiese, lenta. Era il tono che indicava l'apertura verso un'altra modalità. Ma lui tossì, abbassando lo sguardo sul disegno a rombi della tovaglia. Rosso, verde. Plastica fredda, fragole dal sapore antico.
"Niente, mamma. Non c'è niente. Sono triste, tutto qui. D'un tratto mi è venuta un'enorme nostalgia. Di te, di tutto."
Dalla tasca della vestaglia lei estrasse un pacchetto di sigarette.
"Fammi accendere."
Allungò l'accendino. Lei gli toccò la mano, il tocco ruvido delle mani con macchie scure nel contatto con le mani bianche di lui. Carezza obliqua.
"Carino, l'accendino."
"E' francese."
"Cosa c'è dentro?"
"Un liquido, credo. Quel liquido che hanno gli accendini. Solo che questo è trasparente, negli altri non si vede."
Lei alzò l'accendino in controluce. Riflessi dorati, il liquido verde brillò. La cagnetta si infilò sotto il tavolo, con un guaire sommesso. Lei parve non accorgersi, affascinata da quel liquido dorato, al di là del verde.
"Sembra il mare", disse sorridendo. Diede un colpetto alla sigaretta contro il bordo della tazzina e gli restituì l'accendino. "Allora vuoi dire che sei venuto a trovarmi. Bene."
Lui strinse l'accendino nella mano. Caldo per il calore della mano macchiata di lei.
"E' così, mamma. Un attacco di nostalgia."
Il suo riso roco.
"Nostalgia? Sai che è più di un mese che Elzinha non si fa viva? Se fosse per lei potrei anche morire qui dentro, sola come un cane. Dio mi scampi. Non se ne accorgerebbe nemmeno, solo dal giornale. Se lo leggese sul giornale. Del resto, a chi interessa uno straccio vecchio?"
Lui si accese una sigaretta. Un forte colpo di tosse al primo tiro.
"Anch'io vivo da solo, mamma. Se morissi non se ne accorgerebbe nessuno. Neanche un giornale."
Lei aspirò a fondo, poi buttò fuori il fumo. Cerchi. Ma non li seguì con lo sguardo. Con la punta dell'unghia rimosse una scheggia dal bordo della tazzina.
"Destino", disse. "Tua nonna è morta sola. Tuo nonno è morto solo. Tuo padre è morto solo. Ricordi? Quel fine settimana quando io ero in spiaggia. Lui detestava il mare. Quella cosa enorme che mette addosso una paura, diceva". Gettò via la scheggia che aveva staccato dalla tazza. "Neanche un nipote. Morì senza aver avuto neanche un nipotino. Che avrebbe voluto più di ogni altra cosa."
"Lascia perdere, mamma. E' passato tanto tempo." Lui raddrizzò la schiena. Dolore. No, decise. Non in quel pozzo. Il fetore, giorni e giorni, l'allarme dei vicini. Passò la punta delle dita sui rombi sbiaditi della tovaglia. "Non capisco perché continui a vivere qui da sola. Questa casa è troppo grande per una persona. Perché non vai a vivere con Elzinha?"
Lei simulò uno sputo girando la testa di lato, un po' cinica. Quel cinismo da telenovela non era in sintonia con la vestaglia dai fiori di un viola sbiadito, i capelli quasi tutti bianchi, le mani con le macchie brune e le dita che stringevano una sigaretta ormai alla fine.
"E sopportare Pedro e le sue manie di grandezza? Figurati! Andarci per farmi tenere nascosta ogni volta che hanno visite? Per amor del cielo! La vecchia. La demente. La strega. La megera rinchiusa nello stanzino della donna di servizio, come una negra". Diede un colpetto alla sigaretta. "E come se non bastasse, tu credi che mi lascerebbero portare Linda?"
Da sotto il tavolo, sentendo il suo nome, la cagnetta guaì più forte.
"Dài, mamma, lo sai che non è proprio così. Elzinha ha l'università. E Pedro, in fondo, è una brava persona. Solo che."
Lei infilò una mano nella tasca della vestaglia ed estrasse un paio di occhiali con la montatura tenuta insieme da un elastico, le lenti piene di graffi.
"Fatti vedere meglio", disse.
Si sistemò gli occhiali. Lui abbassò gli occhi. Nel silenzio rimase ad ascoltare il ticchettio dell'orologio della sala. Un piccolo scarafaggio si stagliò sul bianco delle piastrelle dietro di lei.
"Sei dimagrito", osservò. Sembrava preoccupata. "Parecchio."
"Sono i capelli", disse passandosi la mano sulla testa quasi calva. "E la barba. Tre giorni."
"Perdi i capelli, vero?"
"E' l'età. Quasi quaranta". Spense la sigaretta. Tossì.
"E questa tosse canina?"
"E' il fumo, ma'. Lo smog."
Alzò lo sguardo, per la prima volta la guardò fisso negli occhi. Anche lei lo stava guardando fisso negli occhi. Verde sbiadito dietro le lenti degli occhiali, improvvisamente molto attenti. Adesso, in questa contromano (3), pensò. Stava quasi per dirglielo. Ma lei fu la prima a chiudere gli occhi e a sviare lo sguardo verso il basso, afferrando delicatamente la cagnetta rognosa e mettendosela in grembo.
"E il resto tutto bene?"
"Tutto bene, ma'."
"Il lavoro?"
Lui annuì col capo. Lei accarezzò l'orecchio senza peli della cagnetta. Poi tornò a fissarlo:
"E la salute? Ho sentito che c'è in giro una nuova malattia, l'hanno detto in tv. Una specie di peste."
"Stai tranquilla", tagliò corto. Accese un'altra sigaretta, le sue mani tremavano un poco. "E la signora Alzira? Sempre in gamba?"
Lei sedeva reclinata sulla sedia, la punta spenta della sigaretta tra le dita ingiallite. I suoi occhi si strinsero, come se vedesse attraverso di lui. Nel tempo, non nello spazio. La cagnetta teneva appoggiata la testa sul bordo del tavolo, i suoi occhi biancastri erano chiusi. La donna emise un sospiro, e scrollò le spalle:
"Poverina, più sclerotica di me."
"Tu non sei sclerotica, ma'."
"Credi? A volte mi trovo a parlare da sola in giro per la casa. L'altro giorno, sai chi mi son messa a chiamare tutto il giorno?" Attese un po', lui non disse niente. "Candida. Ti ricordi di lei? Quella negretta carina. Sembrava addirittura una bianca. L'ho chiamata e chiamata tutto il giorno. Candida, ehi Candida. Dove ti sei cacciata, piccola? Solo allora mi sono resa conto."
"Candida è morta, mamma."
Ripassò la mano sulla testa del cane. Ora più lentamente. Chiuse gli occhi, e fu come se tutte e due dormissero.
"Già, accoltellata. Come un maiale. Ricordi?"
Aprì gli occhi. "Vuoi mangiare qualcosa?"
"Ho mangiato sull'aereo."
"Per carità, quei cibi congelati. Sembrano plastica. Ricordi quella volta che sono venuta a trovarti?" Lui scosse il capo, lei non lo notò. Stava guardando in alto, seguendo il fumo della sigaretta che si disperdeva verso il soffitto macchiato di umidità, di muffa, di tempo, di solitudine. "Tutta chic, sembravo una signora. E poi in aereo. Una madame. Il beauty, i ray-ban. Se lo raccontassi nessuno mi crederebbe." Inzuppò un pezzo di pane nel caffè ormai freddo e lo mise nella bocca quasi sdentata della cagnetta. Linda ingoiò in un sol colpo. "Sai che mi è piaciuto di più l'aereo della tua città? Un bel manicomio, con tutti quei rumori. Non sembra avere niente di umano. Ma come fai a resisterci?"
"Ci si abitua, ma'. E poi finisce per piacerti."
"E Beto?", chiese all'improvviso. E abbassò lo sguardo finché i suoi occhi si infilarono dritti in quelli di lui.
E se ora mi sporgessi?, pensò. Se, allora, ecco. Ma il suo sguardo cadde sulle piastrelle della parete dietro di lei. Lo scarafaggio era scomparso.
"E' là anche lui. A fare la sua vita."
Lei tornò a fissare il soffitto.
"Tanto premuroso, Beto. Mi ha portato a cena, e mi ha aperto la porta dell'auto. Come in un film. Al ristorante ha spostato la sedia per farmi sedere. Nessuno l'aveva mai fatto prima". Strinse gli occhi. "Come si chiamava il ristorante? Un nome straniero."
"Casserole. La Casserole". Lui quasi sorrise. Aveva occhi che parevano quelli di un bambino, ricordò. "Una bella serata, vero?"
"Sì", annuì. "Bellissima. Sembrava un film". Stese la mano sul tavolo, per poco non toccò la mano di lui. Lui aprì le dita, una certa ansia. E una grande nostalgia. Lei allora si ritrasse, e affondò le dita sulla testa senza peli del cane.
"A Beto sei piaciuta. Sei piaciuta molto". Lui richiuse le dita, e le passò così, chiuse, sui peli del braccio. Alcuni ricordi, lontananza. "Ha detto che eri molto chic."
"Io, chic? Una vecchia grezza e sclerotica?" Rise, vanitosa, la mano con le macchie fra i capelli bianchi. Poi sospirò. "Così carino. Un ragazzo fine. Lui sì che è un ragazzo fine. L'ho detto anche a Elzinha, dritto in faccia a Pedro, perché gli arrivasse giusta giusta, anche se indiretta. Ad alta voce gliel'ho detto. Chi è senza arte né parte, glielo si legge in faccia. Non serve a niente ostentare, è già scritto. Guarda Beto, con i suoi pantaloni tutti strappati. Chi l'avrebbe detto che era un ragazzo tanto fine, con quelle scarpe da tennis?" Tornò a guardarlo negli occhi. "Lui sì che è un amico, figlio mio. Ti assomiglia anche un po', mi ero detta. Sembrano fratelli. La stessa altezza, lo stesso modo di fare".
"E' da molto che non ci vediamo, mamma".

Lei si avvicinò un poco, premendo contro il tavolo la testolina del cane. Linda aprì gli occhi biancastri. Anche se era cieca, sembrava che lo stesse guardando. Restarono a guardarsi così. Per un tempo quasi insopportabile, tra il fumo delle sigarette, i portacenere pieni, le tazzine vuote - tutti e tre, lui, la madre e Linda.
"E perché?"
"Mamma", fece per cominciare. La voce gli tremava. "E' così difficile", rispose. E non disse altro.
Fu allora che lei si alzò. All'improvviso, gettando la cagnetta a terra come se fosse un panno sporco. E cominciò a raccogliere tazzine, cucchiaini, portacenere, mettendo tutto nel lavandino. Dopo aver ammucchiato i piatti, versato il detersivo e aperto il rubinetto, muovendosi da un angolo all'altro della stanza mentre lui restava seduto lì, a guardare verso di lei, così curva, un po' invecchiata, i capelli quasi tutti bianchi, la voce sempre più roca, le dita sempre più ingiallite dal fumo, dopo tutto ciò rimise gli occhiali in tasca, si chiuse la vestaglia, lo guardò e - come chi vuol cambiare discorso, e anche questo era il segnale di una modalità diversa, che questa volta sarebbe stata quella giusta - disse:
"La tua camera è sempre la stessa, là di sopra. Io vado a letto perché domani è giorno di mercato e mi alzo presto. Le lenzuola pulite sono nell'armadietto del bagno."
E quindi fece una cosa che un tempo non avrebbe fatto. Lo afferrò per le orecchie e lo baciò non sulla testa, ma sulle guance. Quasi indugiando. E quell'odore - sigaretta, cipolla, cane, sapone, stanchezza, vecchiaia. In più una cosa umida che sembrava pietà, fatica di vedere. O amore. Una specie di amore.
"Domani parliamo meglio, ma'. Abbiamo ancora tempo. Dormi bene."
I gomiti sul tavolo, accese un'altra sigaretta mentre seguiva i suoi passi su per la scala fino al piano superiore. Quando sentì chiudersi la porta della sua stanza, si alzò e uscì dalla cucina.
Fece alcuni passi intontiti nella sala. L'enorme tavolo, legno scuro. Otto sedie, tutte vuote. Si fermò di fronte al ritratto del nonno - il viso leggermente inclinato, gli occhi di un verde slavato, come quelli della madre e come i suoi. Eredità. In mezzo al campo, pensò, morì solo con un revolver e il suo destino. Alzò la mano e la infilò nella tasca interna della giacca, estrasse una bottiglietta di marca straniera e bevve. Quando ebbe finito, alcune gocce di whisky scesero lungo gli angoli della bocca, il collo, la camicia, fino a terra. La cagnetta leccò il tappeto liso, gli occhi quasi ciechi, la lingua in ogni direzione alla ricerca del liquido.
Lui aprì gli occhi. Come se avesse appena avuto le vertigini, si trovò a fissare il grande specchio della sala. In fondo allo specchio sulla parete della sala di una vecchia casa, in una città di provincia, localizzò l'ombra di un uomo eccessivamente magro, i capelli quasi tutti caduti, gli occhi impauriti come quelli di un bambino. Mise la bottiglietta sul tavolo, si tolse la giacca. Era molto sudato. Lasciò cadere la giacca sullo schienale di una sedia. E cominciò a sbottonare la camicia macchiata di sudore e di whisky.
Uno ad uno, aprì i bottoni. Accese l'abat-jour affinché nella sala ci fosse più luce quando, a torso nudo, cominciò ad accarezzare le macchie purpuree, il colore antico del tappeto sulla scala - che colore era ora? - sparse sotto i peli del petto. Con la punta delle dita si toccò il collo. Sul lato destro, inclinando il capo, era come se palpasse un seme nascosto in un punto oscuro. Piegò poi le ginocchia chinandosi fino a terra. Mio Dio, pensò, prima di allungare l'altra mano per toccare il pelo della cagnetta quasi cieca, pieno di macchie rosacee. Uguali a quelle del tappeto liso della scala, simili a quelle sulla pelle del suo petto, al di sotto dei peli. Crespi, scuri, soffici.
"Linda", sussurrò. "Sei tanto bella e tanto linda, Linda".




(Traduzione di Bruno Persico)

Note:

(1) - Cantante rock degli anni 80, forse il più significativo cantautore del rock brasiliano di quegli anni, morto di AIDS nel 1990. Il testo di "Solo le madri sono felici" è un inno alla trasgressione e all'anticonformismo. (N.d.T.)
(2) - Luogo immaginario nell'estremo sud del Brasile, a cui l'autore fa convergere le esperienze adolescenziali dei suoi personaggi. (N.d.T.)
(3) -
Ana Cristina César, A Teus Pés (N.d.A.)

L'autore, Caio Fernando Abreu



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