PREFAZIONE A GEZIM
Armando
Gnisci
Il poeta Gezim Hajdari
scrive da anni in albanese e in italiano traducendosi - e cioè,
portando voce parole esperienza destino: sé, da sé
- incessantemente da una lingua ad un'altra, nella camera invisibile
del suo arsenale. Il suo è il lavoro del poeta migrante tra
le terre, le nazioni - quella dell'esser nati e quelle del ri-nascere
- e le lingue. È il lavoro dell'esule produttivo, che non
cerca più e solo Itaca, né piange sulla striscia della
propria ombra. È proprio nella condizione dell'esilio, testimonia
Gezim, che le lingue e le nazioni possono incontrarsi e scambiarsi
sfide e abbracci. Da questo luogo, non sentimentale e non romantico,
semmai mobile e nascosto, ancora difficile da nominare, parla il
poeta straniero. Straniero che insegna ad essere stranieri a tutti.
E per primi a quelli che pensano, invece, di essere proprietari
di sé e del destino degli altri, soprattutto degli umani
strani, estranei, mal riusciti, marginali, migranti: stranieri.
Gezim alza la voce da questo neoluogo nella lingua degli italiani.
Lui è nato e ri-nasce, lui ha la forza, inzuppata nel dolore,
di chi sa giocare le sfide e portare gli abbracci, al momento giusto.
E noi? Sappiamo come si giocano queste partite? Qualcuno ci ha avvertiti
che tocca a noi, ormai, rispondere? Che il poeta straniero ha già
conquistato la sua giornata?
Dovremo aspettare fino a quando un poeta italiano non scriverà
in albanese - alle condizioni che Gezim ha creato per poetare nelle
due lingue e nella loro oscillazione - per poter rispondere? O avverrà
qualcosa, prima?
Tre
nuove poesie di Gezim Hajdari
Ogni
giorno io creo una nuova patria
in cui muoio e rinasco quando voglio
una patria senza mappe né bandiere
celebrata dai tuoi occhi profondi
che mi accompagnano per tutto questo tempo
durante il viaggio verso cieli fragili
in tutte le terre io dormo innamorato
in tutte le dimore mi sveglio bambino
la mia chiave può aprire ogni confine
e le porte di ogni prigione nera
ritorni e partenze eterne il mio essere
da fuoco a fuoco e da acqua a acqua
l'inno delle mie patrie è il canto del merlo
ed io lo canto in ogni stagione di luna calante
che sorge dalla tua fronte di buio e di stelle
con la volontà eterna del sole
In quale stagione ti cerco
da quale pietra ti chiamo
su quale neve cammini
sei
ciò che rimane in me di una notte d'estate
erba verde che cresce nel campo bruciato
bella come la primavera in Darsìa*
in
te sale la luce scende il buio
ed io ti copro con fiori di ginestra canti di merlo
per i sentieri delle tue dita procedono i giorni presenti e futuri
in
qualsiasi lingua ti sogno sei la stessa: corpo e tempo
come una volta canti la tua infanzia: da collina a collina
lasciami che ti percorra come un pastore di capre
* Darsìa . provincia di colline e di venti dov'è
nato l'autore
Ricorda i tuoi giorni che mi hanno distrutto, senza rancore
i templi gli oracoli che mi hanno ingannato l'infanzia
le stagioni che mi hanno mai asciugato ovunque
Ricorda
le trincee disertate all'alba
le città arrese con le case spalancate che annunciavano
pietà
la mia povertà le mie paure l'esodo verso l'Ovest
Ricorda
l'entusiasmo con cui era attaccato alla vita
il sentiero che mi portava al verde
la traduzione delle mie poesie soprattutto in greco
Ricorda
il folclore delle cicale in estate il canto dei grilli
(anche dopo milioni di anni sarà uguale)
ciò che guardavo e amavo nella transitorietà delle
cose
.
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