UN DIALOGO SULLA PULSIONE DELLO
SCRIVERE
Monteiro Martins e Armando Gnisci
LA
PULSIONE VERBALE
Julio
Monteiro Martins
Da
dove viene il desiderio, a volte irresistibile, di scrivere? E
cosa sta succedendo invece quando questo desiderio, razionalmente
ancora presente, non viene più sostenuto dall'energia necessaria
per soddisfarlo?
Molte volte ho cercato di rispondere a questa domanda insieme
ai miei colleghi e allievi. Si tratta forse della questione essenziale
per chi ha fatto, o vuol fare, dello scrivere il proprio mestiere
o il proprio sacerdozio. Ed è probabile che la risposta
esatta sia troppo sfuggente per essere trovata o dipenda dall'influenza
reciproca di troppi elementi. Credo però di aver identificato
in questi anni almeno una delle forze vitali responsabili di questa
straordinaria motivazione, una forza che ho chiamato "pulsione
verbale".
Il termine "pulsione" l'ho preso in prestito dalle teorie
di Sigmund Freud sulle "pulsioni erotiche" e sulle "pulsioni
di morte". Ciò di cui parlo sarebbe qualcosa di simile
a quelle correnti di energia che emergono dall'inconscio, da aree
profonde e inaccessibili dell'essere, con una forza dirompente,
in grado di condizionare il comportamento del singolo e di indurlo
a mettersi a scrivere come se ciò fosse originato da una
irresistibile necessità. Anche la ragione, il raziocinio
logico, si devono piegare a questa forza eruttiva dello spirito,
che spesso smercia per una conclusione logica ciò che in
verità non è altro che una semplice giustificazione.
Come tutti i flussi di energia psichica, anche quello verbale
si esaurisce nel momento in cui si dà al mondo esterno,
vale a dire quando si trasforma in discorso e si materializza
in forma di narrativa orale o scritta, o addirittura - in assenza
di interlocutori concreti, o anche solo ipotetici o futuri, per
esempio i lettori- nella forma del soliloquio, di un intenso pensiero
articolato come un monologo silenzioso che si avvale della sintassi
del monologo orale.
Parte dell'esito di una scrittura, a mio parere, risulta della
maggiore o minore capacità dello scrittore di gestire questa
"pulsione verbale", attraverso una disciplina cosciente
o di un'intuizione sviluppatasi dall'esperienza empirica, in modo
tale che non si esaurisca con l'uso di altre espressioni non-letterarie
prima di essere canalizzata verso la scrittura artistica o teorica.
Si tratterebbe di una specie di "economia" verbale la
cui padronanza è indispensabile per chi scrive.
Ho conosciuto in passato diversi scrittori - compreso il caso
patetico del mio amico Macário, di Belo Horizonte, scrittore
senza libro, "l'uomo che traboccava", come in altri
tempi lo chiamavo - i quali, nonostante la loro abbondante fantasia
narrativa, non riuscivano quasi mai a stendere sulla carta le
loro storie perché prima le raccontavano oralmente agli
amici così tante volte, discutendone i più infimi
dettagli, considerando le opinioni più diverse sui carattere
dei personaggi, sulla verosimiglianza della trama o sul paragrafo
conclusivo, che quando si decidevano finalmente a scriverla, la
storia si era già trasformata in un ammasso informe e invertebrato
di possibilità, e il desiderio di scriverla si era ormai
convertito in stanchezza, in un senso di vuoto interiore e in
una sorta di nuova brama di fisicità.
Non senza ragione tanti giornalisti e professori si lamentano
di non riuscire più a scrivere le loro cose, anche se troverebbero
il tempo necessario per provarci. L'energia del loro "dire",
che non è più né meno di quella che è,
ha raggiunto il suo limite, è stata spesa e poi spenta
nei bisogni espressivi dei loro mestieri.
In verità, non sarebbe esagerato affermare che il silenzio
e la solitudine sono i grandi alleati degli scrittori (e il telefono
sarebbe il loro peggior nemico, secondo una famosa battuta di
Borges - ma anche, secondo me, e per le stesse ragioni, il parlare
troppo, anche personalmente). Questo accade non solo per la qualità
di approfondimento che un contatto intenso con l'inconscio può
portare alla creatività, permettendo un ampio flusso di
associazioni mentali, ma anche perché favorisce l'accumulo
progressivo dell'energia verbale che poi dovrà trovare
uno sbocco nella scrittura, sia narrativa, poetica o drammatica.
Non a caso Raymond Chandler consigliava l'isolamento totale dello
scrittore in uno spazio chiuso, senza libri e senza telefono,
come la situazione ideale per scrivere un testo di lungo respiro,
che vada oltre i frammenti e gli appunti.
È ovvio che la qualità del risultato c'entra poco
con tutto questo. Il nostro problema centrale qui è un
altro, legato a un certo "combustibile" interno, a una
consegna di sé allo scrivere, a una certa disponibilità
fortemente motivata. La qualità invece dipenderà
da altri elementi, dall'essenza di chi scrive, piuttosto che dal
suo agire. Dipenderà dal suo talento, dalla sua fantasia,
dalla sua cultura letteraria, capacità di osservazione,
arguzia, dalla sensibilità e dalla profondità del
suo pensiero, ma anche della sua capacità di dosare le
sue emozioni in modo appropriato.
La motivazione e l'energia non bastano, lo sappiamo. Ma il fatto
è che, se anche esiste un fondo di qualità superiori,
esse non serviranno a molto se alla fine la pulsione essenziale
di cui parlo è assente, bloccata, sospesa o in qualche
modo sprecata nelle pratiche infeconde che dominano la vita quotidiana
di tanti aspiranti scrittori.
SAGGIO E PUNTO
Armando
Gnisci
Quando
si vede una lucciola, non si pensa
che è apparsa ma che è sparita.
Clarice Lispector, Il segreto
Caro Julio,
ne "La pulsione verbale" hai scritto che quella che
stavi trattando è "forse la questione essenziale"
dello scrivere, per chi vive la scrittura come mestiere e vocazione.
E così il desiderio-pulsione verbale-scritturale nel tuo
discorso è il principio - sia nel senso di inizio che in
quello di legge fondamentale - di tale questione; mentre il suo
destino migliore è di essere, quindi, gestita dallo scrittore
attraverso una disciplina adeguata. Il tutto lo hai ambientato
dentro l'orizzonte, anche se alla lontana, del discorso freudiano.
Per la scrittura narrativa e per quella poetica - non so narrare,
come sai, ma ogni tanto scrivo qualche poema, se "mi accendo",
nei termini platonici e pre-freudiani che equivalgono alla pulsione
di cui parli tu, più la necessaria "occasione"
- mi sembra che la cosa possa funzionare. Per la scrittura saggistica,
che quella che pratico per mestiere e missione, non farei riferimento
all'orizzonte freudiano, almeno in senso stretto. Forse alla lontana,
come il tuo: non parlerei, cioè, di pulsione, ma di movimento
dentro un territorio nell'orizzonte di qualcosa di imprecisabile
in anticipo che possiamo chiamare evento e a-venire.
Vediamo: si può dire che la scrittura saggistica è
proprio quella che saggia. E cioè: innanzitutto, tasta
ed esplora. "Saggiare il terreno", si dice, quando esso
è sconosciuto, o, più esattamente, poco conosciuto
(qualcosa sappiamo sempre e già da prima intorno a quanto
andiamo facendo e del dove lo facciamo). Sull'area nella quale
stiamo per avanzare abbiamo: notizie - dette da altri, di "seconda
mano" - storie, miti, leggende, informazioni, dati e da essa,
però, è provenuto un fortissimo richiamo trainante.
E poi abbiamo tracce di senso, ipotesi, intuizioni mozze, fraintendimenti,
mezze spiegazioni, idee vaghe ecc.
Dopo l'esplorazione del saputo, delle notizie e delle ipotesi
lascio che il richiamo che continua a impressionarmi si apra con
tutta la sua forza dentro il mio territorio: la mente. La scrittura
saggistica mentale passa, quindi, a saggiare: adesso saggiare
significa avanzare propriamente sul terreno del richiamo e sulla
sovrapposizione insistente che esso va giocando sul perimetro
della mia mente, servendosi delle notizie e delle tracce raccolte
e cominciate ad essere saggiate. Infine: saggia nel senso che
mette alla prova, e cioè: saggia la qualità, la
preparazione, la direzione, il gusto, il senso, la consistenza,
il rischio ecc. Di cosa? E cosa va mettendo alla prova? La propria
capacità, sempre più protesa e al tempo stesso occupata,
di mettere insieme notizie, tracce, ipotesi ed esperienza - insomma:
tutto quello che si sa su tutto, niente di meno: okkay? più
l'esperienza nuova alla quale mi sono aperto e che perdura - per
tirarne fuori un nuovo pensiero, senza fermarsi a contemplare,
a meditare - la meditazione per un occidentale è una balla
metaforica, o meglio: non è occidentale, la si apprende
da altrove - ma in corsa, in itinere, saggiando ("chi si
ferma è perduto", dice un proverbio).
A questo punto - si tratta proprio di un punto: di uno stigma,
un evento-avvento e un kairós - avviene (viene avanti dal
verso del di fronte a me, mi viene in-contro) l'imprevedibile.
Al quale, però, io sono preparato: è quella preparazione
che io chiamo ascesi e tu chiami disciplina, solo che nel tuo
discorso la disciplina viene dopo, a disciplinare la pulsione,
mentre nel mio l'ascesi viene prima, è una propedeutica
allungata, una simulazione allenata all'avvento-evento, dopo essermi
avventurato e al contempo essermi fatto sede di una ancora indefinibile
invasione.
So che l'a-venire, chiamiamolo così, arriva dal resto dell'area
che non è stato ancora saggiato del terreno che da un po'
sto saggiando. Verrà avanti verso di me (e di sé)
che lo attendo in cavo, fattomi come una matrice umida, beante
e pronta (è solo una metafora dell'immaginario che la scrittura
crea nel suo ductus). Io ci conto sempre (me lo dice l'esperienza,
come quella dei vecchi cani da caccia), ormai, anche se nulla,
proprio nulla, dico, può garantire la sua venuta, nemmeno
che esso, proprio quello, si è fatto strada dentro la mia
mente: ogni volta a questa partita uno si gioca tutto quanto sa
e può: per uno come noi, si gioca sé. Perché
l'a-venire non lo genero io, dal mio inconscio, ad esempio, come
nel modello freudiano. Io l'ho ascoltato, e poi l'ho provocato
e l'ho aspettato con tutta l'attenzione del mio mestiere invisibile,
fatto solo di domande e di ritardi, di questioni insistenti e
di una specie di attività a bassissima intensità
(può sembrare: noia), di attesa e di scorrimento nella
realtà come se essa non ci fosse, di scarti e di rimandi,
di poste, di puntate, di vuoto. Arriva senza che io - io? non
sono io proprio e appunto questo movimento e questo punto d'incontro
che sto evocando e che ho preparato? - in quel momento-punto faccia
niente di speciale o di rituale o di tecnico o di "magico".
Eppure, quando l'a-venente arriva ha perfino il potere di sorprendermi.
È un clic, un refolo, una lama di luce volubile, un sorpasso
che è sempre già accaduto quando accade, una scossa
pacata e anticipata; anticipata rispetto a quando e dove si è,
come dire?, generata? prodotta? - sparita quando sembra essere
apparsa, come dice la nostra Lispector -, una mossa. So che tutto
ciò che sapevo e sospettavo, ma imperfettamente, fino ad
allora ora non mi manca più. Si ri-compone, invece, in
un ordine nuovo che mi rimette in cammino, come se mi fossi fermato
ad aspettarlo (il che non è vero, oppure sì, è
vero: in questo avvento, comunque, se ne dà una specie
di illusione). Tutto ha ora un senso e una marcia in più.
E un'offerta presente: e può diventare una teoria o, sommessamente
ma con gioia, inabissarsi nel flusso di conoscenza che sono e
che scrivo.
Questo
avvenimento accade nella trama invisibile che trapana i giorni
"normali" e si mette in moto da quando comincio a cercare
a partire da un richiamo, a pormi un problema e una serie di domande,
l'ansia di una rotta che non c'è. Così, ricostruendo,
avevo cominciato a saggiare il terreno, come un cane da punto:
che ha puntato essendo stato puntato da un punto opaco del terreno,
ma che emana profumo, voce, assalto. Sto muto e attento mentre
parlo, lavoro, ascolto, vivo, come se nulla fosse. E, invece,
sto immerso nella marea dell'occasione.
Ora una domanda diventa pressante: sei proprio tu a farmela. Tu,
chi? Tu, Julio e tutti quelli che ti sono venuti dietro leggendo,
i lettori che sono ormai caduti dentro questo testo e sono arrivati
al punto della domanda: la scrittura quando capita? Dopo che tutto
questo avvenimento-percorso saggiante è avvenuto, così
come è stato descritto fino a questo punto? O proprio durante/attraverso
l'accadere? E se capita durante e attraverso, come è possibile,
o meglio: come, e quando proprio, si può (ri)-(de)-scriverlo?
Non si tratta, sempre e comunque di un dopo? O, non me ne sono
accorto? [E chi se ne accorge, allora?]
Sostengo che: durante il corso dell'avvenimento tutto l'accadere
che avviene procede già come uno scrivere. Che vuol dire?
Adesso, adesso che lo sto sostenendo, non lo so; ma arriverà
il punto in cui lo saprò: non è così?
E poi, sostengo che: comunque, quando quella specie di forma cava
dell'accadere che ho descritto, accade con qualcosa di preciso
(dentro?), in un processo saggiante concreto - ecco, concreto:
come la creta a forma di vaso con il suo vuoto che lo fa essere
un vaso - allora la scrittura si comporta proprio come quell'avvenimento
che sembra essere accaduto nell'invisibile avventura del corpo
a corpo delle forze attraenti. Una vicenda che somigliava già
ad una scrittura. In più, durante lo scrivere arrivano
pacchi di valori aggiunti, anzi: che vengono aggiungendosi proprio
quando, di fatto, si scrive. Da tutte le parti di quello che ciò
che è successo ha scatenato, vengono pensieri, attacchi,
maniglie, associazioni, altre tracce, citazioni, invenzioni, ritrovamenti
e novità, a volte l'una appresso sopra a fianco contemporaneamente
a raffica all'insaputa dell'altra. Una moltitudine di a-venire.
Allora? Quando è che si scrive il saggio? Quando saggia
al completo: da quando punta ciò che attrae e verrà
fino a quando non mette un punto all'avvenimento. Un punto fermo?
Tutti quelli che scrivono sanno che la scrittura è incessante,
non si ferma, nemmeno quando finisce in un libro e sembra essersi
depositata in un fermo. Va attraverso di me, tanto quanto io mi
trovo a muovermi dentro di essa. Anche se siamo sempre reciprocamente
decalati, sfalsati, differiti e differenti, come dice una filosofia
della fine del XX secolo.
E comunque, io so di sapere ciò che riguarda quello che
faccio; so la mia poetica del saggio (vi siete accorti che sapere
- poetica e - saggio sono la stessa cosa in tre?). Quel saggio
trinitario segue tanto da vicino la scrittura - e viceversa -
che qualche volta la fotografa, la copia, la ricalca, l'acchiappa,
la para, la mima, come un'ombra cinese. A me sembra che si dia
qualche caso, o che deve essersi dato, in cui addirittura la anticipi.
A me: occidentale sempre in corsa. La scrittura, del resto, così
come ci hanno insegnato i nostri padri latini, è un cursus.
Ho detto che la meditazione, tirandosi fuori dalla corsa, è
impensabile, e a maggior ragione impraticabile, per un occidentale.
Ma, se penso al Tao, forse posso immaginare che possa essere praticabile
una corsa che si adagi nel flusso dell'irripetibile silenzio,
diversa dal precipitevole allungo che ci spinge nella ridda inarrestabile
dei nostri affari. Potrebbe essere pensata come una specie di
accordo tra corde differenti che si aggiusta e perfeziona camminando
insieme: in un sinodo = andando in compagnia sulla stessa strada.
La possibilità anche per noi di poter a volte confluire
in una simile corsa nuziale, ci sembra che possa avvenire solo
come scrittura: narrante, poetante, saggiante. Penso di poter
sostenere che le altre forme di scrittura siano irrimediabilmente
postume, giammai più in corsa. Come quando ci arriva la
luce di una galassia e quella luce è di milioni di anni
fa: e pure non si pensa che è sparita, ma che è
apparsa.
Le scritture postume occidentali: quella del pensiero, la filosofia;
quelle degli eventi avvenuti, la storiografia e l'informazione;
quella delle decisioni politiche, le leggi e i trattati; quella
delle parole di dio, i libri sacri; hanno questo fascino mortale:
di una luce che è sparita, ma sembra che proprio allora
appaia.
Vi è una sola "forma misteriosa del tempo" che
ha una scrittura, ma non ne è affatto vincolata, e che
può permettersi di tralasciarla: la musica. Essa è
veramente nuziale: avviene proprio quando si scrive. La sua scrittura
non è mai un frutto postumo del ricordo o un ascetico e
difficile assalto all'inevitabile sfasatura, ma sempre l'esecuzione
del suo evento, il suo avvenire eseguita. La musica somiglia alla
salute e alla salvezza. Somiglia, nel senso che arriviamo a figurarci
la perfetta salute e la gioiosa salvezza solo come musica. Essa
può darcene l'avviso e il flusso: più del racconto,
del poema e del saggio, più del teatro. La musica è
la ripetibile consonanza che possiamo portare in dote all'irripetibile
silenzio dell'oriente.
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