Banalità
del male - Voce tratta dal Dizionario
critico delle nuove guerre -
Marco Deriu
Nel
1961, Hannah Arendt seguì a Gerusalemme, per il The New Yorker,
il processo Eichmann. Ne scrisse un resoconto e poi un libro intitolato, appunto,
Eichmann in Jerusalem. A report on the banality of evil (tr. it. La
banalità del male, Arendt, 1993a). Otto Adolf Eichmann era stato, nel
regime nazista, l'organizzatore prima dell'espulsione e poi della deportazione
verso i campi di sterminio di milioni di ebrei. Quando iniziò il processo
a Gerusalemme sembrava che si dovesse giudicare il diavolo in persona. Ma nel
resoconto della Arendt, destinato a suscitare scandalo, la figura di Eichmann
veniva presentata come grottesca e ridicola piuttosto che come demoniaca: "Malgrado
gli sforzi del pubblico ministero, chiunque poteva vedere che quest'uomo non era
un "mostro". ma era difficile non sospettare che fosse un buffone"
(Arendt, 1993a, p. 62); "II guaio del caso Eichmann era che di uomini come
lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né
sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali" (Arendt,
1993a, p. 282). Per la Arendt, l'elemento terribile che si rivelava nella figura
di Eichmann stava piuttosto nell'assoluta incapacità di vedere e di pensare
le cose dal punto di vista degli altri: "Comunicare con lui era impossibile,
non perché mentiva, ma perché le parole e la presenza degli altri,
e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano". Eichmann, dice
Hannah Arendt, non capì mai quello che stava facendo, mancava dell'immaginazione
necessaria per comprendere a fondo il significato e le conseguenze delle sue azioni.
La tesi della Arendt è che Eichmann rappresenta l'emblema di un male banale,
estremo se si vuole, ma non radicale e tantomeno demoniaco. Qualcosa che si diffonde
con molta facilità, semplicemente in virtù della superficialità
e del conformismo. La riflessione di Paolo Rumiz sull'esperienza della guerra
nei Balcani arriva a conclusioni simili a quelle della Arendt; "Anni fa -
racconta il giornalista -, credevo che il "virus balcanico" fosse qualcosa
di oscuro e insondabile, un flagello biblico simile alI'Aids, contro cui la terapia
è ancora tutta da inventare. Oggi so che è un virus assolutamente
banale, che aggredisce gli individui deboli secondo schemi arcinoti e ripetitivi;
so pure che i vaccini per debellarlo esistono da sempre. Nonostante questo, il
microbo è onnipresente e si diffonde con facilità irrisoria. Ciò
avviene - oltre che per la nostra incultura - per la sua capacità mimetica.
Esso impiega infatti energie enormi per rendersi invisibile alle future vittime.
La sua specialità è fare credere all'assenza di un quadro epidemico"
(Rumiz, 1996, p. 162). Ma se il male si diffonde così facilmente è
importante domandarsi come preservare la possibilità di una convivenza
pacifica. Come difendere una società dalla violenza, casuale o organizzata,
legata all'intolleranza o politicamente razionale? Noi sappiamo, se guardiamo
a eventi recenti dell'ultimo decennio, che è sempre possibile che l'intolleranza,
il caos, il crimine organizzato o l'interesse cinico e spregiudicato di un gruppo
di potere prendano il sopravvento all'interno di una comunità o di un territorio
e che questo porti a una guerra civile e a un processo di persecuzione reciproca
tra gruppi diversi di popolazione. Abbiamo visto il caso della distruzione dell'ex
Jugoslavia e dei Balcani, ma anche il genocidio e le guerre continue in Ruanda
e Burundi. E per non credere che sia un problema che riguarda solo strutture politico-sociali
arretrate o incerte, possiamo anche citare il caso di Los Angeles, in cui all'improvviso
dopo la trasmissione di un video di un pestaggio di un cittadino di colore da
parte di alcuni poliziotti, è scoppiata una vera e propria guerra civile
tra la popolazione nera e le forze dell'ordine che ha devastato intere zone della
città. II pacifico vivere comune non è scontato: è in
qualche modo il risultato di un progetto politico e sociale. Per portare avanti
tale progetto è tuttavia necessario aumentare il nostro livello di sensibilità
su come il legame sociale può essere compromesso. Dobbiamo diventare più
attenti verso i meccanismi di distruzione del legame sociale. All'immagine
di un male banale ma contagioso ed epidemico Rumiz affianca quella di un bene
ingenuo e cieco, di un bene imbecille e infermo che ha il pericoloso difetto di
non saper fiutare il pericolo. Egli sottolinea, da questo punto di vista, come
sia molto rischioso continuare a parlare di integrazione, di convivenza in Europa
solamente a livello retorico, "nella beata ignoranza dei meccanismi della
disintegrazione" (ibidem, p. 9). Nel suo Maschere per un massacro Rumiz ha
insistito molto su questo aspetto, sottolineando che tutte le mosse preparatorie
del conflitto in Bosnia si sono svolte in gran parte alla luce del sole, e che
nonostante questo la maggioranza delle persone fino all'ultimo non voleva credere
che l'efferatezza potesse scatenarsi tra di loro. "La velocità impressionante
della pulizia etnica fu resa possibile non solo dalla sua lunga, meticolosa preparazione,
ma anche da questa incredulità delle vittime e della gente in generale.
Non esiste prova migliore, forse, che la Bosnia non è stata distrutta dall'odio
- come fa comodo a troppi supporre - ma da una diffusa ignoranza dell'odio"
(Rumiz, 1996, p. 7). Paradossalmente, racconta Rumiz, a Sarajevo è la "piccola
criminalità" a fiutare prima l'arrivo della guerra e organizzare un
minimo di difesa perché più consapevole delle possibilità
e dei meccanismi del male e della violenza. Eppure l'esperienza del nazismo
e della seconda guerra mondiale, da questo punto di vista, era stata chiara. Nell'ultimo
capitolo del suo libro L'universo concentrazionario David Rousset, per
esempio, avanzava una lucida e dolorosa riflessione: "Gli uomini normali
non sanno che tutto è possibile. Anche se le testimonianze costringono
la loro intelligenza ad ammetterlo, il corpo si rifiuta" (Rousset, 1997,
p. 123). Riflettendo sui suicidi di Levi, di Bettelheim, di Amery si capisce che
non è neanche semplicemente questo, quanto piuttosto: gli uomini normali
non vogliono sapere che tutto è possibile. Anche quando porti testimonianza,
non ti ascoltano veramente, non si fanno attraversare da quello che dici. E questo
il vero scacco cui si sono trovati davanti molti testimoni dei campi nazisti e
che coinvolge ancora i più lucidi testimoni del nostro tempo. La maggior
parte della gente preferisce negare gli eventi o anche rifugiarsi in schemi esplicativi
falsi ma molto comodi che si basano sulle categorie classiche vittima-aguzzino,
colpevole-innocente. Come nota un'altra testimone dell'epoca, Etty Hillesum: "II
dolore umano che abbiamo visto laggiù nel corso di quest'ultimo mezzo anno,
e che vi si può ancora vedere ogni giorno, è più di quanto
un individuo sia in grado di assorbire in un periodo così limitato. Del
resto, lo sentiamo dire ogni giorno e in tutti i toni: "Non vogliamo pensare,
non vogliamo sentire, vogliamo dimenticare il più possibile". E questo
mi sembra molto pericoloso" (Hillesum, 1990, p. 45). La stessa Arendt nel
suo libro sul totalitarismo ricorda che la "normalità del mondo normale"
è la più efficiente protezione contro la scoperta dei crimini di
massa. La ragione per cui i regimi dittatoriali o totalitari possono spingersi
così oltre, infatti, è che la gente "indulge nella pia speranza
che non sia vero e rifugge dalla realtà davanti alla follia pura e semplice"
(Arendt, 1996, p. 598). La gente "normale" ha una resistenza fortissima
ad ammettere il mostruoso e questa riluttanza può arrivare fino alla colpevole
cecità di fronte alle guerre e ai crimini di massa che costellano íl
nostro tempo. Questa riluttanza si può articolare in diversi livelli. -
si può negare che un certo genere di opere (i campi di concentramento,
le camere a gas, il genocidio, gli esperimenti medici, le torture più terribili,
l'utilizzo di armi proibite, il terrorismo di stato per accusare il nemico, ecc.)
siano veramente concepibili o attuabili da esseri umani; - si può negare
che queste opere, pur essendo possibili, possano essere commesse dalla propria
parte o al proprio gruppo (i paesi democratici, i cristiani, la propria nazione,
i propri vicini di casa, i propri parenti, ecc.) e si attribuiscono le notizie
alla propaganda nemica; si può riconoscere qualche fondamento alle notizie
ma negare che quello realmente successo sia veramente così grave: si tratterebbe
solo di qualche abuso, qualche comportamento eccessivamente duro, ma nulla dì
preoccupante; - si possono accettare certe notizie ma negare che possano essere
commesse da persone "normali" e dunque si attribuiscono eventuali atti
riprovevoli a singoli individui perversi o a minoranze isolate; - si può
pretendere che se qualcuno ha patito qualcosa è certamente perché
in qualche modo se lo meritava: le vittime erano pericolosi terroristi o criminali,
o bestie, o la feccia dell'umanità; - infine si può credere alle
notizie ma reprimere il più possibile la conoscenza e la consapevolezza
di quei fatti. Questo atteggiamento espone a due rischi estremi: lasciare il campo
libero ai criminali e rovesciare la propria incredulità in un nuovo estremismo.
E possibile infatti, come ha osservato Rumiz, che questa passività del
bene si trasformi per reazione in rabbioso interventismo, una volta che si prende
atto che questa passività ha consegnato docilmente le masse ai macellai
e ai signori della guerra. Se vogliamo parlare di pace, di nonviolenza, di
legame sociale e integrazione dobbiamo sviluppare una comprensione maggiore del
lato oscuro delle persone e delle dinamiche relazionali, dei meccanismi della
violenza, dell'intolleranza, del sadismo, ma ancor più del lato oscuro
dei sistemi politici ed economici in cui viviamo e siamo immersi. Dobbiamo chiederci
se la banalità del male ci è irriconoscibile semplicemente perché
si annida nell'assoluta normalità e familiarità dei nostri paesaggi
quotidiani. Riprendendo l'intuizione di Rumiz, l'insegnamento che ci viene dall'esperienza
balcanica è che ciò che ci trasforma in carne da cannone è
lo stesso imbonimento, la stessa inerte apatia, la stessa acquiescenza che ci
porta a seguire tutti lo stesso programma televisivo, o a comprare lo stesso prodotto
reclamizzato, o a votare in massa il primo pagliaccio che scende in campo promettendoci
di risolvere tutti i nostri problemi se solo acconsentiamo ad affidargli un po'
più di potere. Nell'indagine sulla banalità del male e sulle
dinamiche che portano a distruggere il legame sociale, Serge Latouche ha aggiunto
alcune importanti considerazioni aggiornando la riflessione di Arendt nell'immagine
di una "banalità economica del male" (Latouche, 2003a, pp. 107-140).
Per Latouche oggi la fonte prima del male banalizzato si situa nell'economia,
nel cuore stesso del suo funzionamento normale, ovvero nell"'economicizzazione
del mondo". Nel momento in cui l'economia si afferma sulla politica e sulla
società, quando la produttività e il profitto divengono il criterio
fondante e il mercato può imporre senza troppe resistenze la sua legge,
allora scompare la coscienza del male. Che ci fosse un rapporto tra la violenza
e il predominio dello scambio economico su quello umano emerge per altro già
dall'esperienza dei campi di sterminio nazista. Tanto i campi di concentramento
che i campi di sterminio, come ha notato Bettelheim, sono stati un'applicazione
estrema dell'idea di lavoro come mera utilità. Tutto, dal lavoratore alla
sua personalità, alle sue componenti organiche erano considerate merci
e valutate e scambiate solamente in riferimento alla loro utilizzabilità
come bene di consumo o di scambio. Non solo i campi di concentramento erano amministrati
secondo una logica di tipo aziendale industriale, legata alla produzione di massa,
ma soprattutto bisogna ricordare che Auschwitz è stato tra l'altro un centro
economico e di produzione dove operavano a stretto contratto alcune tra le più
grandi industrie della Germania: Krupp, Siemens, Union, Deutsche Ausrustungswerke,
e il gigante chimico IG Farbenindustrie. Tra i documenti rimasti a dimostrazione
di questo fatto ve ne sono alcuni che riguardano la corrispondenza commerciale
tra Auschwitz e il gruppo chimico IG Farbenindustrie, eccone un esempio: "In
previsione di ulteriori esperimenti con una nuova droga soporifera, vi saremmo
grati se ci poteste procurare un certo numero di donne".
"Abbiamo
ricevuto la vostra risposta, ma consideriamo che il prezzo di 220 marchi per donna
sia eccessivo. Vi proponiamo un prezzo non superiore a 170 marchi a testa. Se
siete d'accordo sulla cifra, prenderemo possesso delle donne. Ce ne abbisognano
circa 150". "Accusiamo
ricevuta dell'accordo. Preparateci 150 donne nelle migliori condizioni di salute:
appena pronte le prenderemo a nostro carico". "Ricevuta
l'ordinazione di 150 donne. Nonostante l'aspetto emaciato, esse sono state considerate
soddisfacenti. A giro di posta vi terremo al corrente dei risultati dell'esperimento". "Gli
esperimenti sono stati eseguiti. Tutti i soggetti sono morti. Ci metteremo presto
in contatto con voi per una nuova ordinazione". Più
in generale, i campi di concentramento erano pienamente inseriti nel mercato dell'epoca.
La ditta Topf, per esempio, costruì gli enormi crematori multipli dei lager
e perfino il colosso americano Ibm - come ha dimostrato il giornalista investigativo
americano Edwin Black - non si fece tanti problemi nel commerciare con il paese
nemico e anzi ebbe un ruolo cruciale nell'organizzazione dell'Olocausto. Come
si legge nel suo L'Ibm e l'olocausto. I rapporti pro il Terzo Reich e una
grande azienda americana (Black, 2001) tramite la filiale tedesca Dehomag, amministrata
prima direttamente e poi tramite la filiale di Ginevra, la ditta americana guidata
da Thomas Watson offri il suo knowhow per mettere rapidamente in piedi
un sistema di archiviazione che permetteva, attraverso le schede perforate Hollerith,
l'immagazzinamento e la gestione di un numero enorme di dati. L'Ibm sfruttò,
e in alcuni casi addirittura anticipò, il bisogno di un'ossessiva classificazione
della popolazione per attuare la politica discriminatoria del Reich nei diversi
paesi d'Europa. L'elaborazione dei dati dei censimenti grazie alla tecnologia
Ibm rese possibile l'organizzazione cosi rapida ed efficiente della deportazione
degli ebrei. Tramite i fori nella scheda personale di ogni deportato si decretava
chi veniva mandato in campi di lavoro e chi in campi di sterminio. Lo stesso numero
tatuato sulle braccia dei deportati non era altro che il numero della personale
scheda Hollerith corrispondente. Le macchine a schede perforate trovarono la loro
collocazione perfino dentro i campi. Ancora oggi la banalità economica
del male può essere letta in filigrana dietro le guerre contemporane, alla
base delle quali c'è molto spesso il controllo delle risorse fondamentali
su cui si basa la nostra economia e il nostro benessere, dal petrolio al legname,
dall'oro ai diamanti, dal rame all'uranio. Il sanguinoso conflitto in Congo,
per esempio, è stato finanziato da alcune multinazionali disposte a tutto
pur di approvvigionarsi di un importante minerale, il coltan, finora sconosciuto
alla maggior parte dei cittadini dei paesi occidentali. H suo prezzo è
passato da 65 dollari al kg nel 1998 a 375 nel 2004. Da questo minerale, composto
da colombite e tantalite, si estrae il tantalio, un elemento metallico indispensabile
per fabbricare i microcondensatori che sono utilizzati nei computer, nei palmari,
nei cellulari e perfino nella PlayStation della Sony. Chi avrebbe mai pensato
che ci fosse una connessione tra i nostri Gsm, e addirittura la PlayStation e
una delle guerre più sanguinose degli ultimi anni? I bambini che pretendono
la PlayStation per non essere da meno dei loro compagni di classe rischiano di
entrare senza rendersene conto (e senza che se ne rendano conto nemmeno i loro
genitori) dentro alle dinamiche delle economie di guerra. Non ci può essere
un'immagine più paradigmatica dell'odierna "banalità economica
del male". Come possiamo non collaborare al male, opporci alle guerre,
se per la gran parte ci sfuggono i legami tra i nostri oggetti di uso quotidiano,
il nostro consumo, il nostro stile di vita, le logiche di mercato, l'etica esasperata
del profitto delle multinazionali e le relazioni internazionali? C'è
un legame tra la banalità del male dei sistemi totalitari e quella del
mercato globale? Tra la guerra economica e quella civile? Questo fra l'altro mette
in luce la difficoltà di individuare e processare i colpevoli che stanno
dietro guerre, colpi di stato e accordi commerciali che hanno devastato interi
paesi: "Perché incolpare il generale Pinochet e non i dirigenti della
Att, che sono i veri responsabili del colpo di stato contro la democrazia cilena?
- si domanda Serge Latouche - Quando si trascineranno in un'aula di giustizia
i padroni della United Fruit, responsabili di migliaia di morti in Guatemala?
Quando ci si deciderà a perseguire i dirigenti dell'Fmi, responsabili della
miseria e della morte di milioni di persone nel Sud del mondo, o nell'ex Unione
Sovietica? Si capisce bene che si tratta di una cosa impossibile poiché
complice è l'intera società. Eppure, senza trascinare tutta la Germania
davanti al tribunale di Norimberga, è stata in parte realizzata una catarsi
collettiva. Qualcosa dello stesso genere sarebbe necessario sulla scala della
società occidentale" (Latouche 2003a, p. 133). Tutto questo presuppone
che la critica alla banalità del male rivolta da Hannah Arendt ai cittadini
dei regimi totalitari sia aggiornata alla critica della banalità economica
del male dei cittadini delle liberal-democrazie di massa contemporanee, che la
critica all'ottusità burocratica sia aggiornata alla critica dell'ottusità
consumistica. Le masse dei cittadini dei paesi ricchi, accecate dal mito della
crescita e dello sviluppo, non riescono a guardare al di là del loro naso
e a capire che questa forma di "benessere" è fondata sull'impoverimento
delle relazioni umane nelle nostre comunità e sulla militarizzazione delle
relazioni con le nostre alterità sul piano internazionale. Ecco la doppia
realtà con cui dobbiamo fare i conti: la banalità del male e l'ottusità
del bene. E dunque è un doppio vaccino quello che dobbiamo trovare; qualcosa
a metà tra un'"angosciata immaginazione" (Arendt) e un senso
integro dell'umanità che lotta contro la mercificazione del mondo non solo
in nome della giustizia e della pace, ma ancor più in nome di una più
profonda sensibilità verso l'esistenza.
(Voce
tratta dal Dizionario critico delle nuove guerre, Emi editrice, Bologna
2005.)
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