Franz
Kafka: il costruttore di modelli
Hannah Arendt
Quando Franz Kafka, un ebreo praghese di lingua tedesca, morì di tisi all'età
di quarantun anni nell'estate del 1924, la sua opera era conosciuta da una piccola
cerchia di scrittori e da una ancora più ristretta di lettori. Da allora
la sua fama è andata lentamente diffondendosi. Negli anni Venti era già
uno degli autori più importanti dell'avanguardia letteraria tedesca ed
austriaca, e negli anni Trenta e Quaranta le sue opere raggiungevano ormai gli
stessi strati di lettori e letterati francesi, inglesi ed americani. La sua fortuna
non ha subito flessioni durante gli ultimi decenni e la tiratura delle sue opere
non è mai stata proporzionale al crescente interesse che esse hanno incontrato
presso i critici letterari né al vasto e profondo influsso esercitato sugli
scrittori del tempo. Una caratteristica quasi esclusiva dell'influsso della prosa
di Kafka è che le "scuole" più diverse abbiano cercato
di rivendicare per sé il suo modello; sembra quasi che chiunque si considerasse
"moderno" non potesse assolutamente trascurarla per l'evidente e tipico
carattere di "novità" come fino allora non era apparso in nessun
autore con la stessa intensità e semplicità senza riguardi. È
un fatto molto sorprendente perché Kafka, a differenza di altri autori
moderni, si è tenuto lontano da ogni manierismo ed ogni esperimento. La
sua lingua è chiara e piana come la lingua quotidiana, purgata solo da
ogni trascuratezza e colore gergale. Il tedesco di Kafka sta all'infinita varietà
degli stili come l'acqua a quella di tutte le bevande possibili. La sua prosa
non si distingue per nessuna particolarità, e non rivela mai nulla di seducente
o di affascinante: è piuttosto un semplicissimo strumento di comunicazione
e, se lo si analizza, la sua unica caratteristica è proprio che Kafka non
avrebbe potuto esprimersi in un modo più semplice, più chiaro e
più conciso. La mancanza di ogni manierismo sconfina quasi nell'assenza
di stile, ed il suo non-innamorarsi delle parole in quanto tali arriva ai limiti
della freddezza. Kafka non predilige parole particolari, né particolari
costruzioni sintattiche: ne risulta così un nuovo genere di perfezione
che pare distaccarsi totalmente da tutti gli stili del passato. Nella storia
della letteratura non c'è forse nessun esempio che dimostri l'assurdità
della teoria del "genio incompreso" meglio di quello della fama raggiunta
da Kafka. Nella sua opera non c'è riga o storia che abbia potuto soddisfare
nella loro ricerca di "divertimento ed insegnamento" (Broch) i lettori
formatisi nel secolo scorso. L'unica cosa dell'opera di Kafka che possa allettare
ed ammaliare il lettore è la verità: la seduzione del suo perfetto
non-stile (ogni stile si allontana dalla verità quanto più è
magicamente seducente) ha raggiunto un grado tanto elevato da permettere che le
sue storie riescano ad affascinare il lettore anche quando egli non arrivi ad
afferrarne bene l'effettivo contenuto. La vera arte di Kafka consiste nel fatto
che il lettore rimane a lungo ammaliato da una vaga ed indefinita magia che è
associata al limpido ricordo di certe situazioni ed immagini. Il lettore trasferisce
poi questa magia nella sua vita in un modo tanto deciso che un giorno, facendo
una certa esperienza, improvvisamente gli si rivelerà con la forza dell'evidenza
il vero significato della storia da lui letta. Der Prozess,
il libro su cui sono state scritte nei due decenni trascorsi dalla pubblicazione
tante interpretazioni da riempire una piccola biblioteca, è la storia di
K., un uomo accusato senza sapere che cosa ha commesso, che non riesce a scoprire
secondo quali leggi sia condotto il processo e pronunciata la condanna, e che
alla fine viene giustiziato senza che sia mai venuto a sapere che cosa sia effettivamente
successo. Cercando di capire perché si trovi in quella situazione, scopre
ad un certo punto che, dietro l'ordine di arrestarlo, c'è una grande organizzazione.
Un'organizzazione che alle sue dipendenze non ha solo guardiani corrotti, sorveglianti
ottusi e giudici istruttori che quando va bene sono semplici e modesti, ma anche
una magistratura di alto e sommo grado con tutto un codazzo di intrattabili servitori,
scrivani, gendarmi ed altri aiutanti, e forse anche il boia [...] E il senso di
quest'organizzazione? [...] Consiste nell'arrestare persone innocenti e nell'istruire
contro di loro processi assurdi che nella maggior parte dei casi si concludono,
come il mio, in un nulla di fatto. Quando K. s'accorge che tali processi, a
dispetto della loro assurdità, non sempre si concludono necessariamente
senza un risultato concreto, si prende un avvocato che con lunghi e sottili discorsi
gli spiega come ci si possa adattare a quella situazione e quanto sia irragionevole
mettersi a criticarla. Però K., che non vuole rassegnarsi e congeda l'avvocato,
incontra il cappellano del carcere che gli tiene una predica sulla grandezza recondita
di quel sistema e gli consiglia di non chiedersi se tutto ciò sia vero
dal momento che "non si deve ritenere tutto vero, ma soltanto necessario".
In altre parole, se l'avvocato si sforzava soltanto di dimostrare che così
è il mondo, il prete, al servizio di tale mondo, ha il compito di provare
che questo è il suo ordine. E poiché K. ritiene che questa sia una
"ben misera concezione" e replica: "La menzogna viene fatta ordine
universale", è chiaro che perderà il processo; e poiché,
d'altra parte, questo non era neppure il "suo giudizio definitivo" e
aveva tentato anzi di respingere quegli "insoliti ragionamenti" quasi
fossero "cose irreali" che in fondo non lo riguardavano, non solo perde
il processo, ma lo perde in un modo tanto infamante che alla fine, quando sarà
giustiziato, non avrà da opporre che la vergogna. La forza della macchina
che afferra ed uccide K. non è altro che l'apparenza della necessità,
la quale può realizzarsi soltanto tramite l'ammirazione degli uomini per
la necessità. La macchina si mette in moto perché la necessità
è considerata qualcosa di sommo e perché il suo automatismo, interrotto
solo dall'arbitrio, viene preso come simbolo della necessità. La macchina
resta in moto grazie alle menzogne dette in ossequio a questa necessità,
tanto che in piena conseguenza un uomo che non si assoggetta a questo "ordine
universale", cioè a questa macchina, viene considerato un criminale
che agisce contro una specie di ordine divino. Per assoggettarsi bisogna smettere
di chiedersi che cosa siano la colpa e l'innocenza e dichiararsi pronti a svolgere
il ruolo assegnato dall'arbitrio nel gioco della necessità. Nel caso
del Prozess la sottomissione non viene raggiunto con mezzi violenti,
ma semplicemente con il crescente senso di colpa che l'accusa vuota ed immotivata
riesce a destare nell'imputato K. E un senso di colpa che ha le sue radici nella
naturale convinzione che nessun uomo sia privo di colpe. Per K., un impiegato
di banca sempre tanto occupato da non avere neppure il tempo di scervellarsi per
tali banalità, questo senso di colpa è fatale: lo porta infatti
a confondere il male organizzato, che diabolicamente lo circonda, con l'espressione
di quella generica colpa umana che è innocua e in realtà innocente
se la si confronta con la malafede che fonda "sulla menzogna l'ordine universale"
facendo anche uso, ed abuso, della giustificata umiltà degli uomini. Al
funzionamento della diabolica macchina burocratica in cui l'innocente si trova
preso si accompagna, quindi, una evoluzione interiore provocata dal senso di colpa.
Dal suo progredire il protagonista viene "educato", modificato e formato
tanto da venir adattato al ruolo che si è escogitato per lui e che lo rende
semplice compartecipe del gioco universale della necessità, dell'ingiustizia
e della menzogna. Questo è il modo in cui il protagonista si adatta alla
sua situazione, e questi due processi concomitanti, l'evoluzione interiore ed
il funzionamento della macchina, s'incontrano infine nella scena conclusiva, quando
K. si lascia portar via, e poi giustiziare, senza la minima protesta o resistenza.
Viene ucciso perché è "necessario", e si sottomette per
questa necessità e per il turbamento dovuto al suo senso di colpa. E la
sola speranza che balena alla fine del romanzo resta: "Era come se la vergogna
dovesse sopravvivergli". La vergogna, cioè, che tale sia l'ordine
del mondo e che lui, Josef K., ne sia, anche se vittima, un docile membro. Già
subito dopo la pubblicazione si comprese che Der Prozess conteneva
implicitamente una critica alla burocrazia governativa della vecchia Austria,
le cui numerose nazionalità, in conflitto fra di loro, venivano rette da
un'uniforme gerarchia di funzionari. Kafka, impiegato in una società di
assicurazioni sociali ed amico di ebrei dell'Europa Orientale ai quali doveva
procurare i permessi di soggiorno per l'Austria, conosceva esattamente la situazione
politica del suo Paese. Sapeva bene che se uno s'impigliava nella rete dell'apparato
burocratico non aveva più scampo. Il dominio della burocrazia aveva come
conseguenza che l'interpretazione della legge degenerasse in uno strumento d'arbitrio,
mentre un assurdo automatismo nei gradi inferiori dei funzionari suppliva alla
cronica inettitudine degli interpreti della legge, un automatismo cui venivano
praticamente demandate tutte le vere decisioni. Negli anni Venti, però,
quando il romanzo apparve per la prima volta, il vero volto della burocrazia non
era ancora abbastanza conosciuto in Europa, anche perché essa era stata
realmente fatale solo ad un numero trascurabile di persone, e si considerò
quindi immotivato e sproporzionato al suo contenuto effettivo l'orrore per la
burocrazia espresso nel romanzo. Ci si spaventò di più per il romanzo
che per il tema stesso, e si cominciò così a cercare altre interpretazioni,
apparentemente più profonde, che furono poi trovate, secondo la moda del
tempo, in una cabalistica esposizione di realtà religiose o, se si vuole,
di una teologia satanica. L'opera stessa di Kafka rende naturalmente possibili
simili errori, errori d'interpretazione che non sono meno determinanti di quelli
ben più volgari commessi nelle interpretazioni psicoanalitiche della sua
opera. Kafka descrive davvero una società che si ritiene vicaria di Dio
in terra, e rappresenta uomini che considerano le leggi di questa società
come dei comandamenti divini, immutabili di fronte alla volontà umana.
E proprio tale divinizzazione del mondo e la presunzione di costituire una necessità
divina rappresentano il male a cui gli eroi di Kafka non riescono a sottrarsi.
Egli mira a distruggere questo mondo ricalcandone l'orribile struttura con dei
tratti oltremodo chiari e contrapponendo così ai diritti umani la realtà.
Ma il lettore degli anni Venti, affascinato dai paradossi e confuso dal gioco
delle contraddizioni, non voleva sentir ragioni: le sue interpretazioni di Kafka
rivelavano più il lettore che l'autore. Ammirando ingenuamente il mondo
che Kafka aveva presentato come orribile ed intollerabile nelle sue descrizioni
più che realistiche, scopriva quanto egli fosse adatto per "l'ordine
universale" ed anche quanto stretto fosse il legame fra la cosiddetta élite
e l'avanguardia di quell'ordine. Del tutto trascurata fu, invece, l'amara e sarcastica
osservazione di Kafka su quella ipocrita necessità e sulle necessarie menzogne
che concorrono a determinare il "carattere divino" dell'ordine mondiale,
un'osservazione che è pure la vera chiave per decifrare chiaramente la
struttura e l'azione del romanzo. Il secondo grande romanzo di Kafka, Das
Schloss, ci conduce nello stesso mondo del Prozess, ma
questa volta non sono più gli occhi di un uomo che si è sempre disinteressato
del governo e degli altri problemi generali, e che è quindi in balìa
dell'apparente necessità, a guardare questo mondo, bensì gli occhi
di un altro K. che ora s'avvicina volontariamente ad esso come un estraneo col
proposito di realizzare un progetto ben preciso: trapiantarsi in un paese, diventarne
cittadino, costruirsi una casa, sposarsi, trovare un lavoro, divenire, insomma,
un membro attivo della società umana. La caratteristica dello Schloss
è che il protagonista mira ai fini più naturali e generali che ci
siano e che lotta per conquistarsi delle cose che sembrano essere garantite all'uomo
fin dalla nascita. Mentre non richiede che il minimo necessario per la sua esistenza,
già dall'inizio è chiaro che lo esige come diritto e che non è
disposto ad accontentarsi di meno di questo suo diritto. E pronto ad inoltrare
tutte le domande necessarie per avere un permesso di soggiorno, ma rifiuta che
gli venga concesso come magnanima elargizione; è pronto a cambiare il suo
lavoro, ma non può rinunciare ad un "lavoro regolare". Tutto
questo dipende però dalle decisioni del Castello, e per K. le difficoltà
cominciano quando diviene chiaro che esso soddisfa i diritti dei cittadini solo
concedendo grazie come doni o privilegi. Poiché K. esige solo i suoi diritti
e non dei privilegi, vuole ottenere lo stesso diritto di cittadinanza degli altri
abitanti del villaggio ed essere "il più lontano possibile dai signori
del Castello", respinge quindi entrambi, la magnanima elargizione e ogni
rapporto privilegiato col Castello; spera così che "d'un colpo si
aprano per lui tutte quelle vie che, se fosse dipeso soltanto da quei signori
lassù e dalla loro grazia, sarebbero rimaste per sempre non solo chiuse,
ma anche invisibili". A questo punto gli abitanti del villaggio prendono
un posto di primo piano nell'azione del romanzo. Sono sconvolti dal fatto che
K. aspiri semplicemente a diventare uno di loro, un semplice "operaio del
villaggio", e che rifiuti di entrare a far parte della classe che domina.
Cercano a più riprese di spiegargli che non ha nessuna esperienza del mondo
e della vita, che lui non sa ancora che la vita dipende essenzialmente dalla grazia
o dalla disgrazia, da una benedizione o da una maledizione, e che non c'è
nulla di più naturale e di meno casuale della fortuna o della sfortuna.
K. non vuole rassegnarsi all'idea secondo cui, come dicono gli abitanti del villaggio,
giustizia ed ingiustizia, ossia essere nel giusto o nel torto, sarebbero ancora
una parte di quel destino che deve essere accettato e compiuto, ma non modificato. Solo
da questo momento assume il suo vero significato l'estraneità dell'agrimensore
K. che è venuto da fuori: non essendo né un abitante del villaggio
né un funzionario del Castello egli vive al di fuori dei rapporti di potere
che vigono nel villaggio. Continuando a rivendicare i suoi diritti umani, K. dimostra
di essere l'unico ancora in grado di concepire una semplice esistenza umana sulla
terra. La specifica esperienza del mondo ha insegnato agli abitanti del villaggio
a considerare l'amore, il lavoro e l'amicizia come dei doni che essi possono ricevere
"dall'alto", dalle stanze del Castello, ma di cui non possono più
liberamente disporre. Così anche i rapporti più semplici sono avvolti
in una misteriosa oscurità; l'ordine universale del Prozess compare
qui sotto forma di benedizione o maledizione cui ci si sottomette con timoroso
e reverente rispetto. Il proposito di K. di veder riconosciute sul piano della
giustizia le sue legittime aspirazioni ad una vita umana appare quindi una cosa
naturale, ma in una simile società rappresenta un'eccezione inaudita, uno
scandalo. K. si trova perciò costretto a lottare così strenuamente
per un minimo di naturali esigenze umane quasi esse racchiudessero in sé
il massimo irraggiungibile di ogni aspirazione umana; gli abitanti del villaggio
si allontanano così da lui, presentendo nelle sue richieste una "hybris"
che potrebbe compromettere tutta la loro vita. K. è estraneo a loro non
perché come straniero è privato dei suoi diritti umani, ma perché
è venuto nel villaggio e li esige. Sebbene gli abitanti del villaggio
temano che una sventura possa abbattersi da un momento all'altro su K., non gli
succede proprio niente. K. non riesce a conquistarsi nulla e la sua storia si
conclude - secondo la versione pensata, ma trasmessa solo oralmente, da Kafka
- con una morte del tutto naturale dovuta all'esaurimento di ogni energia. K.
raggiunge, senz'averlo voluto, un solo risultato: riesce ad aprire gli occhi ad
alcuni degli abitanti del villaggio col solo atteggiamento di condanna per tutto
quello che accade attorno a lui:
Hai
una straordinaria visione delle cose [...] A volte mi aiuti con una parola, certamente
perché vieni da fuori. Invece noi, con le nostre terribili esperienze e
continue ansie, ci spaventiamo senza difenderci ad ogni scricchiolio, e se uno
ha paura subito ce l'ha anche l'altro pur senza sapere esattamente perché.
In questo modo non si riesce più a dare una giusta valutazione delle cose.
[...] Che fortuna per noi che tu sia venuto! K.
rifiuta questo ruolo; non è venuto a "portar fortuna", né
ha abbastanza tempo e forze per aiutare gli altri: chi pretendesse questo da lui
"confonderebbe le sue strade". Vuole solo mettere e tenere in ordine
la propria vita e, poiché nel perseguire questo proposito non si sottomette,
come il K. del Prozess, all'apparente necessità, di lui resterà
non la vergogna, ma il ricordo negli abitanti del villaggio. Il mondo di Kafka
è senza dubbio un mondo terribile. Ed oggi sappiamo forse meglio di vent'anni
fa che esso non è solo un incubo, ma che riflette in maniera molto precisa
la struttura della realtà in cui siamo costretti a vivere. La grandezza
della sua arte è che ancora oggi riesce a dare le stesse sconvolgenti impressioni
di allora, e che l'orrore della Strafkolonie non ha perso nulla della sua
immediatezza malgrado la realtà delle camere a gas. Se le opere di Kafka
fossero davvero delle semplici profezie di incombenti sciagure, non varrebbero
davvero più di tutte le altre apocalittiche profezie che ci hanno tormentato
sin dall'inizio del secolo, o, meglio, fin dagli ultimi trenta-quaranta anni del
secolo scorso. Charles Péguy, che ha avuto il discutibile onore di essere
annoverato fra tali profeti, ha detto una volta: "I1 determinismo, nella
misura in cui esso può essere addirittura immaginato, forse non è
altro che la legge dei resti". Si tratta di una verità molto precisa.
Se è vero che la vita viene inevitabilmente e naturalmente a concludersi
con la morte, si può sempre predirne la fine. La via naturale è
sempre quella del declino e della fine, ed una società che si rimetta ciecamente
al carattere di necessità delle leggi che si è data non potrà
che finire. I profeti, da parte loro, non possono essere altro che profeti di
disgrazie dal momento che delle catastrofi si possono sempre prevedere. Il miracolo
è rappresentato dalla salvezza e non dalla fine perché solo la salvezza,
e non la fine, dipende dalla libertà dell'uomo e dalla sua capacità
di modificare il mondo ed il suo corso naturale. La folle idea, tanto diffusa
ai tempi di Kafka come ancora ai giorni nostri, che il compito dell'uomo sia quello
di sottomettersi ad un processo predeterminato da forze qualsiasi, non può
che accelerare il declino naturale perché nella follia della sua libera
scelta l'uomo non fa altro che venire in aiuto alla Natura e alla sua tendenza
verso il declino. Le parole del cappellano della prigione nel Prozess
svelano la vera natura dell'occulta teologia e della più intima fede dei
funzionari, cioè una fede assoluta nella necessità; questi finiscono
per essere degli esecutori di tali necessità, quasi ci fosse bisogno di
funzionari per mettere in funzionamento il processo del declino e della rovina.
In quanto funzionario della necessità l'uomo diventa un funzionario totalmente
superfluo al servizio della legge naturale della caducità, e, dal momento
che egli è più che natura, si abbassa al livello di efficace strumento
di distruzione. Come una casa costruita dagli uomini secondo dei criteri umani
sarà certamente condannata allo sfacelo non appena essa rimarrà
disabitata e sarà abbandonata dall'uomo al suo destino, altrettanto certo
è che il mondo, costruito dagli uomini e funzionante secondo leggi umane,
tornerà ad essere una parte della natura e, in quanto tale, abbandonato
al suo catastrofico declino non appena gli uomini decideranno di ridiventare una
parte della natura, ovvero uno strumento cieco ma estremamente preciso delle leggi
naturali. In tale contesto è relativamente irrilevante che l'uomo, ossessionato
dalla necessità, creda nel progresso o nel declino del mondo. Se il progresso
fosse davvero "necessario", se costituisse una legge davvero inevitabile
e sovrumana che abbracciasse tutte le epoche della nostra storia e nella cui rete
l'umanità fosse fatalmente impigliata, la forza ed il cammino del progresso
non potrebbero essere meglio descritti di come ha fatto Walter Benjamin in queste
righe delle sue Geschichtsphilosophische Thesen: "L'angelo
della storia [...] ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di
eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine
e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e
ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata
nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più
chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge
le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò
che chiamiamo il progresso, è questa tempesta."1 La
migliore dimostrazione che Kafka non appartiene alla schiera dei nuovi indovini
è forse il fatto che leggendo le sue storie più terrificanti e più
atroci, che nel frattempo hanno trovato riscontro nella realtà se addirittura
non ne sono state superate, continua sempre ad assalirci un senso d'irrealtà.
Sono i suoi eroi spesso senza nome e contrassegnati da una semplice iniziale.
Ma ammettendo pure che la loro seducente anonimità sia dovuta soltanto
al caso dell'incompletezza dei suoi racconti, questi personaggi non sono affatto
degli uomini, delle persone che noi potremmo ungiorno incontrare nella vita reale.
Sebbene siano minuziosamente descritti non possiedono affatto quelle singole e
singolari caratteristiche, quei piccoli e spesso superflui tratti del carattere
che insieme concorrono a dare la vera immagine di un vero essere umano. Questi
personaggi si muovono in una società in cui ognuno ha un ruolo specifico
ed in cui ciascuno è, per così dire, definito dalla propria professione;
essi si distinguono da quella società ed assumono un ruolo centrale nell'azione
in quanto, a differenza di tutti gli altri, non hanno un impiego o un lavoro determinato
e il loro ruolo rimane quindi indefinibile. Ne consegue così che neppure
gli altri personaggi delle opere di Kafka sono uomini reali. I suoi racconti non
hanno niente a che fare con la realtà dei romanzi realisti. Il mondo
di Kafka, rinunciando completamente al carattere realistico che imita l'aspetto
esteriore del mondo, tipico dei romanzi realisti, rinuncia così, ed in
modo forse ancora più radicale, anche al carattere realistico che imita
la realtà del mondo interiore, tipico del romanzo psicologico. Gli uomini
fra cui si muovono gli eroi di Kafka non hanno alcuna caratteristica psicologica
perché non esistono che in funzione dei loro ruoli, cioè dei loro
impieghi e delle loro professioni, né hanno altre qualità che possano
essere definite psicologicamente perché ogni volta sono completamente presi
fino all'anima dai loro momentanei progetti: vincere un processo, ottenere un
permesso di soggiorno o di lavoro, o altro ancora. Questa astrattezza, priva
di qualità specifiche, delle figure di Kafka può facilmente convincere
a considerarle erroneamente esponenti di idee o rappresentanti di opinioni, e
tutti i tentativi della critica contemporanea di scoprire una teologia nell'opera
di Kafka sono effettivamente condizionati da questo equivoco. Se invece si considera
il mondo dei suoi romanzi senza preconcetti e prevenzioni, si scopre che i suoi
personaggi non hanno né il tempo né la possibilità di sviluppare
una propria caratteristica individuale. Quando, ad esempio, in Amerika
sorge l'interrogativo se il portiere-capo non abbia forse scambiato per una svista
il protagonista con un'altra persona, il portiere esclude che ciò sia possibile
perché non potrebbe rimanere portiere-capo se gli capitasse di scambiare
una persona per un'altra: il suo lavoro è proprio quello di non confondere
le persone. L'alternativa è chiara: o è un uomo come gli altri,
e quindi la sua percezione e la sua capacità di riconoscere le persone
non sono infallibili, oppure è un portiere-capo e come tale può
attribuirsi un tipo di perfezione sovrumana, almeno in questa sua funzione. Non
è che gli impiegati diventino infallibili perché sono costretti
dalla società a lavorare con la precisione dell'infallibilità. I
funzionari, gli impiegati, gli operai di Kafka sono ben lontani dall'essere infallibili,
però essi tutti agiscono presumendo di avere un'abilità ed una competenza
sovrannaturali. La differenza fra i romanzi di Kafka e la consueta tecnica
del romanzo consiste nella rinuncia a descrivere il conflitto fondamentale di
un funzionario fra la sua esistenza privata e la sua attività, e di non
raccontare più come l'ufficio abbia divorato la vita privata di chi con
esso ha da fare, o come l'esistenza privata, la famiglia ad esempio, l'abbia costretto
a diventare disumano identificandosi costantemente con la sua funzione proprio
come fa un attore per la sola durata di una rappresentazione. Kafka, invece, ci
mette subito di fronte al risultato di una tale evoluzione poiché per lui
è solo il risultato ad avere importanza. L'esibizione di una competenza
senza limiti e l'apparenza di un'abilità fuori del normale rappresentano
il motore nascosto che aziona il meccanismo dell'annullamento di cui sono prigionieri
i protagonisti di Kafka e che è responsabile del piano e sicuro andamento
di quanto di per sé è assurdo. Il tema principale dei romanzi
di Kafka è il conflitto tra un mondo, presentato come un simile meccanismo
che funziona senza alcun intoppo, ed un eroe che cerca di distruggerlo. Questi
eroi, a loro volta, non sono degli uomini normali come quelli che incontriamo
ogni giorno, ma delle variazioni d'uno stesso tipo umano la cui unica caratteristica
è quella di concentrarsi fermamente su quanto vi è di più
naturale ed umano. La funzione del protagonista è sempre la stessa: scopre
che il mondo e la società normali sono in realtà anormali, che i
giudizi unanimemente accettati delle persone più rispettabili sono sostanzialmente
follie, e che le azioni condotte secondo le regole del gioco finiscono per rovinare
tutti. Gli eroi di Kafka non sono spinti da convinzioni rivoluzionarie, ma esclusivamente
dalla buona volontà che, quasi inconsapevolmente ed involontariamente,
mette a nudo le strutture segrete di questo mondo. L'effetto originale ed irreale
dell'arte narrativa kafkiana trova la sua origine soprattutto nell'interesse per
queste nascoste strutture e nel disinteresse per le facciate, per le apparenze
e le semplici manifestazioni esteriori del mondo. Perciò è assolutamente
sbagliato definire Kafka surrealista. Infatti, mentre il surrealista tenta di
presentare come possibili tanti aspetti e punti di vista contraddittori della
realtà, Kafka li inventa liberamente, non fidandosi mai della realtà
perché a lui non è la realtà che importa, ma la verità.
In contrasto con la tecnica del fotomontaggio tanto cara a tutti i surrealisti,
la tecnica di Kafka potrebbe essere immediatamente paragonata a quella tipica
della costruzione di modelli. Così come un uomo che voglia costruire una
casa, o valutarne la stabilità, si fa subito disegnare uno schizzo di questa
casa, allo stesso modo Kafka si procura uno schizzo del mondo esistente. Confrontandolo
col progetto di una casa vera esso è naturalmente molto "irreale";
ma senza lo schizzo la casa non si sarebbe potuta costruire, né si sarebbero
potuti conoscere i pilastri e le fondamenta che sono le sole cose a garantirne
l'esistenza nel mondo reale. Partendo da questo schizzo, basato sulla realtà
e la cui scoperta è, ovviamente, più frutto di un processo del pensiero
che di una percezione sensoriale, Kafka costruisce i suoi modelli. Per comprenderli
il lettore ha bisogno della stessa forza d'immaginazione impiegata nel momento
della loro prima concezione e può raggiungere questa comprensione grazie
alla forza d'immaginazione perché non si tratta di libera fantasia, ma
di prodotti del pensiero che sono stati utilizzati da Kafka come elementi delle
sue costruzioni. Per la prima volta nella storia della letteratura un artista
richiede al lettore l'impiego della stessa attività mentale che l'ha sorretto
nel produrre la sua opera. Non è altro che quella forza d'immaginazione
che secondo Kant è "così potente nella creazione di un'altra
natura con la materia della natura reale". Allo stesso modo anche gli schizzi
e i disegni possono essere compresi soltanto da coloro che sono capaci e disposti
ad immaginare presenti e reali le intenzioni dell'architetto ed il futuro aspetto
della costruzione. Kafka pretende in ogni momento dai suoi lettori questo sforzo
di reale immaginazione. Per questo il lettore passivo, educato e formato dal romanzo
tradizionale, e la cui unica attività consiste nell'identificarsi in uno
dei personaggi, resta deluso da Kafka. Lo stesso vale per il lettore curioso che,
deluso della vita, si guarda intorno alla ricerca di un "Ersatz" del
mondo in cui possano accadere cose che non avvengono nel suo mondo reale, oppure
che cerca istruzione per una semplice sete di sapere. I racconti di Kafka lo deluderanno
ancor più della sua propria vita perché non contengono nessun elemento
di sogno ad occhi aperti e non offrono consigli, né istruzione o conforto.
Solo quel lettore che per una ragione o un'incertezza qualsiasi vada alla ricerca
della verità potrà capire qualcosa di Kafka e dei suoi modelli,
e gli sarà grato quando, ogni tanto, riuscirà improvvisamente ad
intravvedere la vera struttura di fenomeni estremamente banali leggendo una pagina,
o una semplice frase, dei suoi racconti. Caratteristico di questa astrazione,
di quest'arte che lascia intatto solo quello che è essenziale, è
il breve racconto che segue, il quale tratta di una circostanza particolarmente
semplice e per niente inconsueta: Confusione
di ogni giorno2 Un fatto di tutti i giorni: il suo frutto una
confusione di tutti i giorni. A. deve concludere un affare importante con B. che
abita a H. Si reca per un primo colloquio a H., impiega per l'andata dieci minuti,
altrettanti per il ritorno e a casa si vanta di questa straordinaria rapidità.
Il giorno seguente torna a H. per la conclusione definitiva dell'affare. Siccome
è da prevedere che ciò richieda alcune ore, A. parte la mattina
molto per tempo. Ma nonostante che tutte le circostanze, almeno secondo lui, siano
esattamente le stesse del giorno prima, per arrivare a H. impiega questa volta
dieci ore. Giuntovi la sera, stanco, si sente dire che B., seccato dell'assenza
di A., è partito mezz'ora prima per il villaggio di A.,anzi avrebbero dovuto
incontrarsi per la strada. Gli consigliano di attendere, ma A., in pensiero per
il suo affare, si mette subito in cammino e corre a casa. Questa volta, senza
nemmeno badarci, percorre la distanza addirittura in un istante. A casa viene
a sapere che B. è arrivato già la mattina, subito dopo la partenza
di A.; anzi, avendo incontrato A. sulla soglia, gli aveva rammentato l'affare,
ma A. gli aveva risposto che non aveva tempo e doveva andar via in fretta e furia. B.
però, nonostante l'incomprensibile contegno di A., era rimasto ad aspettarlo.
Più volte, gli dicono, aveva chiesto se A. era ritornato, e si trova ancora
di sopra, nella camera di A. Felice di poter ora parlare con B. e di potergli
spiegare ogni cosa, A. sale le scale di corsa. E quasi arrivato, inciampa, si
busca uno strappo muscolare, quasi svenuto dal dolore, incapace persino di gridare,
solo mugolando nel buio, sente che B. (non capisce bene se molto lontano o vicinissimo)
scende furibondo la scala con grande fracasso e scompare definitivamente. In
questo racconto la tecnica con cui Kafka costruisce il suo impianto narrativo
è quasi fin troppo evidente. Ci sono, innanzitutto, tutti i fattori essenziali
che generalmente concorrono a far fallire un appuntamento: lo zelo eccessivo (A.
parte troppo presto ed ha tanta fretta da non riconoscere B. scendendo le scale),
l'impazienza (il tragitto sembra tanto lungo che A. si preoccupa più di
esso che dello scopo del suo viaggio, cioè l'incontro con B.), l'ansia
ed il nervosismo che lo spingono in fretta e furia sulla via del ritorno quando
avrebbe potuto tranquillamente attendere il rientro di B. a H. Tutti questi fattori
provocano infine quella ben nota "perfidia dell'oggetto" che accompagna
sempre ogni totale fallimento, ed indicano e suggellano il definitivo crollo di
chi si arrabbia per come va il mondo. Partendo da questi fattori molto generici,
e non dall'esperienza di un avvenimento specifico, Kafka costruisce la circostanza
centrale del suo racconto. Dal momento che nulla di reale si frappone ad attenuare
la costruzione kafkiana, i singoli elementi possono caricarsi della gigantesca
forza comica insita in essi tanto che a prima vista pare di leggere una di quelle
storie fantastiche alla Münchhausen che amano raccontarsi i marinai. L'impressione
che la storia sia esagerata scompare non appena decidiamo di leggerla non come
resoconto di una circostanza reale o di un fatto qualsiasi dovuto a confusione,
bensì come un modello della confusione stessa la cui logica grandiosa cercano
disperatamente d'imitare le nostre limitate esperienze di fatti incomprensibili.
Questo audace rovesciamento di modello e di imitazione, nel quale, a dispetto
d'una tradizione millenaria, la finzione appare improvvisamente come modello e
la realtà come imitazione da verificare, è una delle fonti essenziali
dello "humor" kafkiano, e rende anche questa storia tanto divertente
da riuscire a consolarci di tutti gli appuntamenti ai quali siamo o saremo mancati.
Infatti il riso di Kafka è un'espressione diretta di quella spensierata
libertà umana per cui l'uomo vale ben più del suo fallimento già
per il fatto che egli può immaginare una confusione maggiore di ogni confusione
reale. Da quanto s'è detto dovrebbe esser chiaro che il narratore Kafka
non è affatto un romanziere nel senso del romanzo classico dell'Ottocento.
Alla base del romanzo classico c'era un sentimento della vita che accettava fondamentalmente
il mondo e la società sottomettendosi alle vicende della vita così
come esse venivano ed accogliendo il destino come una forza superiore al bene
e al male. L'evoluzione del romanzo classico corrispose al lento declino del "
citoyen" che aveva cercato per la prima volta con la Rivoluzione Francese
e con la filosofia di Kant di governare il mondo con le leggi inventate dall'uomo.
Il periodo del suo massimo fulgore fu accompagnato dalla totale realizzazione
dell'individuo borghese volto a considerare il mondo e la vita come teatri di
avvenimenti e desideroso di vivere sensazioni ed esperienze più di quanto
gli potesse offrire l'ambito generalmente angusto ed immobile della sua vita.
Tutti questi romanzieri, sia che dipingessero realisticamente il mondo, sia che
sognassero altri mondi fantastici, erano in eterna concorrenza con la realtà.
Il romanzo classico ha ora appena concluso la sua parabola in America nella forma
elaboratissima del romanzo-reportage, il che è accaduto per una naturale
conseguenza se si considera che ormai la fantasia non può più entrare
in concorrenza con la realtà degli avvenimenti e dei destini della società
contemporanea. A controbilanciare la tranquilla sicurezza del mondo borghese,
in cui l'individuo esigeva dalla vita la sua parte legittima di esperienze e sensazioni
pur senza riceverne mai abbastanza, c'erano i grandi uomini, i geni, le eccezioni
che rappresentavano agli occhi degli individui borghesi quasi un'incarnazione
maestosa ed impenetrabile di qualcosa di soprannaturale che ora si poteva chiamare
"destino", come nel caso di Napoleone, ora "storia", come
nel caso di Hegel, oppure "volontà di Dio", a sentire Kierkegaard,
secondo il quale Dio avrebbe voluto stabilire un esempio proprio con la sua persona,
o ancora "una necessità", come Nietzsche definì se stesso.
La sensazione più alta per chi era smanioso di esperienze rimaneva quella
del destino stesso, ed il tipo più elevato di individuo era perciò
quello che aveva un destino, una missione, una vocazione da servire o di cui era
il compimento. Grande non era più, quindi, un'opera o un'azione, ma l'uomo
stesso proprio perché incarnazione di qualcosa di soprannaturale. La genialità
non era più un dono divino elargito a degli individui che pure rimanevano
sempre uomini; l'intera persona diventava un'unica incarnazione del genio e non
poteva perciò rimanere più a lungo un comune mortale. Che questa
concezione del genio, inteso come una specie di mostro sovrumano, fosse propria
dell'Ottocento e non di un'epoca anteriore lo rivela chiaramente anche la definizione
del genio data da Kant. Per lui il genio è il dono con cui "la natura
impone le regole all'arte"; oggi si può non essere d'accordo con questa
concezione naturalistica ed anche pensare che nel genio sia l'umanità stessa
ad "imporre le regole all'arte", ma al momento è importante vedere
che in questa definizione del XVIII secolo non c'è ancora alcuna traccia
di quella vuota grandezza che cominciò ad imperversare col Romanticismo
subito dopo Kant. Che Kafka appaia così moderno, ed al tempo stesso
così lontano dai suoi contemporanei e così estraneo agli ambienti
letterari di Vienna e Praga di quel periodo, si spiega col fatto che evidentemente
non volle essere né un genio né la personificazione di qualche grandezza
oggettiva, e che d'altra parte rifiutò appassionatamente di assoggettarsi
ad un destino qualsiasi. Non era certo innamorato del mondo più di quanto
lo siamo noi, ed anche della natura pensava che la sua superiorità sugli
uomini non durasse che fino al momento del "vi lascio in pace". A lui
interessava un mondo costruito dagli uomini nel quale le azioni umane non dipendessero
che dall'uomo stesso e dalla sua spontaneità ed in cui la società
umana fosse retta da leggi sancite dagli uomini e non da forze misteriose, sia
che venissero interpretate come soprannaturali o come basse. Un tale mondo non
era più frutto di un sogno, ma doveva essere direttamente costruito dall'uomo,
e Kafka in persona voleva essere un cittadino di questo mondo, un "membro
della comunità", e non più un'eccezione. Naturalmente ciò
non significa che lui fosse modesto, come invece è stato detto qualche
volta: Kafka ha pur sempre annotato con sincero stupore nei suoi diari che ogni
sua frase era già perfetta così come l'aveva trascritta di sfuggita
- e ciò corrisponde al vero. Kafka non era modesto, ma umile. Per poter
diventare, almeno sulla carta, cittadino di un mondo simile, dal quale fossero
bandite tutte le visioni sanguinarie e tutti gli incantesimi omicidi (come quello
che in via sperimentale cercò di descrivere nello "happy end"
di Amerika), egli doveva assolutamente anticipare la distruzione del
mondo esistente. I suoi romanzi rappresentano appunto una distruzione anticipata
del mondo: dalle sue rovine fa sorgere l'immagine sublime d'un individuo ideale
che con la sua buona volontà può davvero spostare montagne, costruire
nuovi mondi e pure passare indenne attraverso la distruzione e le macerie di tutte
le precedenti costruzioni difettose e vacillanti perché a lui infatti,
solo che egli sia di buona volontà, gli dèi hanno dato un cuore
indistruttibile. E poiché gli eroi di Kafka non sono persone con cui venga
naturale identificarsi, bensì soltanto dei modelli che sono abbandonati
nell'anonimato a dispetto dei loro nomi, ci sembra quasi che ognuno di noi sia
chiamato ed esortato con quei nomi. Infatti quest'uomo di buona volontà
può essere chiunque ed ognuno, forse persino io e tu.
Note: 1
W. Benjamin, Angelus Novus - Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962,
pp. 76-77. 2 In F. Kafka, Tutti i racconti, trad. di E. Pocar, Milano,
Mondadori, 1979, vol. II, pp. 149-150.
(Saggio tratto da Il
futuro alle spalle, il Mulino, Bologna, 1966. Traduzione di Valeria Bazzicalupo
e Silvano Muscas.)
Hannah Arendt (1906-1975) si era formata a contatto di pensatori come Husserl,
Bultmann, Jaspers, Heidegger. Profuga in Francia nel 1933 con l'avvento del nazismo,
e poi cittadina americana, è autrice di fondamentali opere di filosofia e teoria
politica tra le quali ricordiamo "Vita activa", "La banalità del male"
e "Le origini del totalitarismo".
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