Morti
immaginarie
Fabrício Carpinejar
Il saggista francese Michel Schneider ha scoperto un filone del genere biografico,
un sottogenere fantasma, quasi invisibile. Molto più interessante della
vita delle personalità. Una sorte di "mortegrafia", la storia
di come gli scrittori sono morti. È lì a stipare gli scaffali delle
librerie con titoli come La fine di, Gli ultimi istanti di, Gli ultimi giorni
di. La morte porta via più tempo della vita. Nessuno aspira a passare
a miglior vita senza prima lasciare un segno. Quanti celebri scrittori non hanno
elaborato un personale epitaffio con profetico anticipo, trasformando il proprio
trapasso in un paragrafo lapidario dei loro libri? Quanti non hanno già
immaginato la loro morte affinchè fosse ricordata come una poesia? Quanti,
"ancora in salute", si sono preoccupati di ciò che sarebbe stato
scritto nel necrologio? In Morti immaginarie, vincitore del premio francese
Médicis nel 2003, Michel Schneider ricorda come è stata la fine
di Michel de Montaigne, Pascal, Kant, Goethe, Pushkin, Balzac, Rilke, Dumas, Nabokov,
Truman Capote, fra 36 altri personaggi. Attraverso un approccio psicoanalitico
e una minuziosità poetica, si immerge nelle opere, nei diari, nelle testimonianze
degli amici che accompagnano il processo e trasforma la materia grezza in un profilo
fittizio. Scioglie la cera del museo. Demistifica le ultime parole degli scrittori
e smonta l'artificio intellettuale di alcuni funerali. "Non c'è un'ultima
parola per lo scrittore. O meglio, tutte le sue parole sembrano essere le ultime".
Tesse un sudario vivido tra dramma e commedia. Se non fosse che le lacrime sono
d'obbligo, susciterebbe risa incontenibili. La morte non rispetta promesse.
Dimenticarla non esime dal viverla. In Morti immaginarie, si soffre con
Stendhal (Henri Beyle), che desiderava morire lontano dal pubblico, al sicuro
dagli sguardi curiosi, e finisce per crollare teatralmente su un marciapiede di
Parigi all'imbrunire, con un attacco apoplettico. Si assiste allo strazio del
pensiero di Pascal e alla sua "malattia di voler esser sempre malato".
Maniaco per i dettagli, tutte le volte che cambiava cappotto, scuciva il testamento
dalla fodera di quello usato per poi ricucirlo nel nuovo. Ci si commuove di fronte
al comportamento di Alexandre Dumas, che va a trovare il figlio non appena avverte
la sua fine, dicendo "Sono venuto a morire a casa tua". Schneider
alterna l'affettività del lettore collaudato, con lo slancio del critico;
è un ammiratore guarito dal distacco. In certi momenti esala la freddezza
del medico legale, in altri invece è diafano, lirico, con scintille di
originalità come il suo conterraneo Gaston Bachelard. Per esprimere le
sue contraddizioni aspira alla naturalezza del sogno concluso e poi interpretato. Se
i moribondi e gli eredi cercano di lasciare per l'eternità le virtù
e gli effetti della genialità, Schneider preferisce i difetti mascherati
e i fallimenti involontari, i dettagli e le indiscrezioni omesse. Scandaglia ciò
che è pubblico e esulta per ciò che potrebbe essere accaduto nella
spicciola scena privata. Crea nuove ipotesi per sfidare le certezze, o almeno,
per riequilibrare il peso delle verità sulla bilancia dopo interminabili
speculazioni. Con lo stile raffinato, in cui si intrecciano umorismo e paradosso,
il suo testo possiede l'indiscreta leggerezza delle note a piè di pagina.
Descrivendo il percorso di Dino Buzzati, con un unica frase esprime l'ironia della
sorte, quando riunisce il matrimonio e la morte come progetti intenzionali della
vita. "Nel 1961, dopo la morte della madre, a Buzzati è avvenuto un
cambiamento impercettibile e, in pochi anni, ha fatto due cose fino ad allora
impensabili: sposarsi e morire". Uno dei miti abbattuti è il trapasso
di Goethe. È risaputo che la sua ultima esclamazione è stata "Licht!
Licht! (Luce! Luce!)" e trasmette una visione metaforica e illuminata, un
congedarsi degno di un classico. La vera affermazione che esplose dalla sua bocca
non avrebbe suscitato nessuna meraviglia e sarebbe passata inosservata. Comune
tra i mortali come il mal di denti. È rivolta alla nipote Ottilie e consiste
in una semplice richiesta "Dammi la mano". La
vera agonia non permette di scrivere letteratura, destinata più al mutismo
che ai cinguettii. Sicuramente non offre tempo per vaneggiamenti scintillanti.
Gli orpelli spettano ad amici e parenti che, investiti dell'aura di testimoni
della fine, assumono il ruolo dello scrittore e esagerano nei dettagli. Schneider
non è tanto stupido da credere che la biografia sia l'imitazione della
realtà. Fin dall'inizio la concepisce come finzione e approfitta di questa
condizione ibrida per narrare, per esempio, la morte di Balzac in tre versioni
diverse. La prima a partire dal resoconto di Victor Hugo, la seconda tratta da
Octave Mirbeau, confidente del pittore Jean Gigoux, amante della moglie di Balzac
e la terza è un aneddoto fittizio di ciò che lo scrittore stesso
avrebbe potuto dire della sua morte. L'azzardo di parlare invece di Balzac "post
mortem", come Brás Cubas, personaggio del romanzo "Quincas Borba"
di Machado de Assis, è uno dei pregi dell'opera, che vuole mettere in dubbio
la veridicità delle due confessioni precedenti. La raccolta di saggi
fa da contrappunto, tentando di scuotere l'ingenuità e la facile credulità.
Lavora consapevolmente ispirato da "Vidas imaginárias" di Marcel
Schwob, del 1896, romanzo che ricrea momenti della vita del pittore Paulo Uccello,
del poeta Lucrezio e di altre figure artistiche e storiche e che trova in Jorge
Luis Borges uno dei suoi più entusiasti ammiratori. "Uno di quei libri
che porto con me ovunque vado, che accarezzo e maltratto come se facesse parte
di me. È lo specchio in cui cerco le mie cupe morti immaginarie",
confessa il saggista francese. Dei ritratti funerari, quelli che più
commuovono, con un tocco pungente di lirismo, sono quelli di Rilke (nato a Praga
nel 1875 e morto in Svizzera nel 1926) e Marina Tsvetaeva (nata a Mosca nel 1892
e morta a Kazan nel 1941). Tra loro intrattenevano una fitta corrispondenza e
i capitoli quasi si toccano per la drammaticità e l'atmosfera lugubre.
In entrambe le riscritture risuonano le canne dell'organo della chiesa. Si potrebbe
dire che si complementano. "La morte è una lettera" puntualizza
Michel Schneider. Marina scrive a Rilke quando lui era già partito e continua
a scrivergli anche dopo che era morto, facendogli delle domande. "Com'è
scrivere laggiù dove vivi ora?" Un amore postumo, ardente e impossibile,
a cui non importa l'assenza di risposta. Sola, a vivere di stenti in un'Unione
Sovietica totalitaria e pragmatica, Marina non riesce a superare l'idea del suicidio.
Non è un colpo di testa ma una decisione che si concretizza nell'impiccarsi
il 31 agosto del 1941. Come lei stessa annota "Nessuno vede - nessuno sa
- che già da circa un anno i miei occhi cercano un gancio... È da
un anno che provo ad ammazzarmi", scriveva Marina. Per quanto l'autore
cerchi di scrivere la sua morte, non sarà opera sua. La morte è
apocrifa. Non è di nessuno.
(Articolo
tratto dal supplemento Idéias del Jornal do Brasil, 2006. Tradotto da Julio
Monteiro Martins, insieme ai suoi allievi dell'Università di Pisa: Maria Teresa
Maré, Silvia Mencarelli, Nunzia De Palma, Maria Serena Serra, Gaia Bertoneri, Evajori Ori, Gianluca Piana, Claudia Sgadò e Laura Marletti.)
Fabrício Carpinejar è poeta e autore, tra gli altri, di Cinco
Marias e O amor esquece de começar.
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