Umorismo e combattività


Leandro Konder



La parola "umore" è nata nel campo della medicina. Si pensava, nel Medioevo, che i caratteri degli esseri umani fossero determinati dagli "umori". Questa credenza proveniva dall'Antichità: nel 2° secolo d.C., Galiano riteneva che gli umori fossero quattro: il sangue, la flemma, la bile gialla e la bile nera.
La bile nera, mali conia, in eccesso generava malinconia. La flemma in eccesso generava indifferenza. La bile gialla era legata alla collera, agli eccessi di ira. Il sangue, pressando troppo, causava emorragie (per evitare questo, i medici usavano le sanguisughe).
Questo uso del termine "umore" è presente in diversi autori, cristiani e arabi, medievali e rinascimentali. Lo troviamo, per esempio, nelle commedie di Ben Johnson, in Inghilterra. Gli "umori" venivano menzionati dagli autori che cercavano di spiegare il motivo per cui determinati personaggi, agivano come agivano. Gli autori di testi comici erano portati a credere che la tendenza al ridicolo fosse una conseguenza dell'eccesso di un "umore" peculiare, che però non era nessuno dei quattro sopra citati. Questa linea di pensiero portava gli osservatori a focalizzare la loro attenzione sul soggetto, più che sull'oggetto, sugli autori, più che sulle opere.
Col passare del tempo, intanto, la teoria si indebolì. Man mano che la adottavano, le persone si rendevano conto che le osservazioni che facevano non erano del tutto convincenti. Se l'umore fosse derivato da "umore" del nostro organismo, chi fosse stato più provvisto di questo "umore" avrebbe avuto più fecondità "umoristica". Tuttavia, possiamo constatare che esistono soggetti sempre in malumore, ma comunque buffissimi. Esistono soggetti sempre di buon umore ma senza simpatia.
Quindi, il problema non è dei soggetti: si riscontra nella realtà oggettiva delle opere. Appartiene al lato estetico del comico. Nelle commedie, nelle parodie, nelle satire, c'erano senza dubbio scene, situazioni, personaggi, che facevano ridere. Ma gli scrittori e i lettori si chiedevano: da dove venivano queste risate? Cos'è che faceva tanto ridere?
In generale, è stato necessario iniziare da una battaglia preliminare, attorno al riconoscimento della commedia come genere letterario "rispettabile", degno di ammirazione. Già nella Grecia antica, c'era molta resistenza a questa valorizzazione del comico, come si vede nelle invettive fatte contro gli scritti di Aristofane.
Aristotele, il filosofo, ha incluso nella sua Arte poetica una parte dedicata alla commedia, che, nel frattempo, si è persa. (L'italiano Umberto Eco, nel suo romanzo "Il nome della rosa", ha creato un personaggio di finzione - Jorge de Burgos, sacerdote cieco, ultraconservatore - che ha distrutto l'ultima copia che ancora esisteva della Commedia di Aristotele, argomentando quello che nelle Sacre Scritture non consta che Gesù abbia permesso che apparisse sul suo viso divino questa "smorfia"; niente indica che Lui abbia riso qualche volta).
La spiegazione, l'humor come conseguenza di un "umore" esistente negli esseri umani, ha perso la sua credibilità sul piano in cui la teoria degli "umori" non trovava spiegazione scientifica. Il nome, tuttavia, è prevalso: l'umore.
Il critico russo Mikhail Bakhtin, nella prima metà del 20° secolo, ha osservato che la storia dei giganti Pantagruel e Gargantua, raccontata da Rabelais nel 16° secolo, non si lascia ridurre a una parodia della narrazione medievale. Nessun racconto medievale presenta qualcosa come l'utopica Abbazia di Theleme, il cui emblema, affisso al portone d'ingresso, era "Fais ce que vouldras" (Fai quello che vuoi). Anche il Don Chisciotte di Cervantes non si riduce a una parodia delle novelle di cavalleria. Come classificheremmo il Tristram Shandy di Lawrence Sterne? Possiamo verificare che in relazione a queste tre opere, giustamente, si è parlato molto di umore.
Generalmente, l'umore non provoca risate. Si esprime, prima, nel sorriso (parola che sarebbe stata creata da San Geronimo). Gradito da sottigliezze e ambiguità. Vive di contraddizioni. E si mostra attento alle contraddizioni intime della soggettività. L'umorista ritiene "buffe" le persone che sono buffe senza sapere che lo sono. Pensa buffo il mondo. Ride della condizione umana. E ride di se stesso (non si considera molto seriamente).
Manifestazioni di humor ci sorprendono in opere "serie". Nell'Amleto di Shakespeare, il principe uccide Polonio e, quando gli chiedono dov'è il consigliere, risponde: "A cena". Aggiunge: "Non alla cena dove lui mangia, ma a quella in cui è mangiato". Nello stesso Amleto, il principe di Danimarca sente due becchini conversare, parlando di lui, senza che lo riconoscessero. Dicono che Amleto è pazzo e per questo lo hanno mandato in Inghilterra. E commentano: "Se lui fosse veramente pazzo, dovrebbe starci bene, perché là tutti sono fuori di testa".
Questo è uno dei paradossi dell'humor. Per elevarsi al livello filosofico dell'humor (ridere di se stesso), il soggetto deve sviluppare una straordinaria capacità di distaccarsi dal suo oggetto. Necessita di una notevole soddisfazione intellettuale e anche di un po' di crudeltà.
Per fiorire, l'umore è solito andare oltre il terreno marcato per la pratica della carità; è solito esonerarsi dall'esercizio della solidarietà umana, nella sua espressione sentimentale. Questo rimane molto chiaro quando l'inglese Jonathan Swift affronta il tema della miseria dei bambini poveri in Irlanda. Invece di esprimere la sua solidarietà in termini espliciti, appassionati, veementi e probabilmente innocui, Swift è ricorso all'ironia e ha fatto un capolavoro dell'humor, riscotendo dai paesi dei bambini poveri che avessero più iniziativa, che uccidessero i loro figli, che li cucinassero e vendessero la loro carne, trasformata in delicati manicaretti, disputati dai clienti dei migliori ristoranti.
La costruzione dell'humor è complicata. André Gide ha detto una volta che con bei sentimenti si fa mala letteratura. L'affermazione è discutibile. Più convincente è la constatazione che con bei sentimenti è possibile fare barzellette ma difficilmente si riuscirà a fare un humor di qualità, universalmente accessibile (capace di oltrepassare le frontiere costituite dalle circostanze particolari).
L'humor, nella letteratura, generalmente, tende a essere consumato dal grande pubblico nelle sue forme più accessibili. E noi, in Brasile, abbiamo avuto eccellenti umoristi, sempre sorprendenti, nel tratto o nelle parole, generalmente abbastanza accessibili nelle loro invettive, nelle croniche e nei racconti buffi, nei poemetti scherzosi, nelle satire e nelle frottole. Abbiamo una squadra di fuoriclasse, da Emilio de Menezes a Carlito Maia e al Barone di Itararé, passando per Millôr Fernandes, Henfil, Sérgio Porto e Cassio Loredano, e tanti altri. (Evito di citare i compagni del supplemento Quaderno B, per non sembrare scena di favoritismo, di adulatori. O, siccome ora se ne parla tanto, e è contenuto nel Codice Penale, indizio di "formazione di quadriglia").
Possiamo essere orgogliosi dell'humor nella nostra cultura. E dobbiamo riconoscere che, attualmente, una delle fonti di questo humor è la rivolta contro le classi dominanti (qualsiasi sia la loro sembianza); è il pretesto contro gli approfittatori dell'onda del disprezzo che colpisce il nostro paese. Il quadro davanti al quale ci siamo messi esigerebbe molto sarcasmo, molta contundenza, molta presa in giro.
Molière, scrittore francese, autore di commedie indimenticabili, già diceva che, per cucinare un animale di grande portata, serve del sale grosso ("Il faut du gros sel pour saler les grosses bêtes"). I nostri umoristi stanno rispondendo esattamente a questa domanda. Stanno - con piacere! - abbassando la stecca.




(Tratto dal supplemento Idéias del Jornal do Brasil, dell'Ottobre 2005. Traduzione di Alessandro Giometti.)




Leandro Konder, filosofo e sociologo brasiliano, insegna Teoria Politica all'Istituto Bennett di Rio de Janeiro.



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