Celebrazione
Giancarla De Quiroga
Il tredici marzo di ogni anno tutti i discendenti,
legittimi o meno, arrivavano al paese con le rispettive famiglie per celebrare
il compleanno di nonno Carmelo. Avevano già festeggiato il suo centenario
un paio di volte, dato che sul vero anno di nascita circolavano seri dubbi, aggravati
dal misterioso incendio dell'anagrafe che aveva sprofondato l´incolpevole
popolazione al completo in uno stato di illegalità. I parenti piú
prossimi non avevano bisogno di provare i loro legami di sangue, ma gli altri
- quelli lontani, incerti o improbabili - dovevano farsi identificare per guadagnare
il diritto a essere ospitati nella vecchia casona e a partecipare ai festeggiamenti.
Qualche volta per l´identificazione bastava un´espressione del viso,
un atteggiamento, un gesto o persino un neo ereditato; in altri casi un rapido
interrogatorio chiariva i dubbi e dissipava i sospetti, una sola domanda era sufficiente
per identificare senza equivoci l´autentico discendente o l´impostore
che voleva godere abusivamente di tre giorni di festa. Questa volta Angelo
Custode, nipote legittimo del centenario, domandò a un giovane, che assicurava
di appartenere alla famiglia senza essere tuttavia in grado di precisare il vincolo
di parentela: " Perché il nonno ha la mano sinistra deforme?"
Il ragazzo rispose che, se era vero ciò che gli aveva raccontato la
sorella di sua nonna, mentre andava a caccia, una tigre gliel'aveva staccata con
una zampata. Ciononostante, il nonno era riuscito a strangolare la belva con la
destra, salvando cosí la propria vita. La risposta corretta e l´entusiasmo
che il giovane mise nel racconto fecero sí che fosse immediatamente integrato
nel clan familiare. Superata la prova dell´identificazione, tutti si
sistemarono in casa, invandendo stanze, depositi e cortili; rimisero in sesto
letti arrugginiti, srotolarono materassi macchiati di urina, di sangue e amori
dimenticati, appesero amache, stesero sui pavimenti sacchi a pelo e stuoie, gonfiarono
cuscini cinesi, fino a convertirli in accettabili materassini. Prima assegnarono
le stanze ai gruppi familiari, poi, man mano che si susseguivano gli arrivi, improvvisarono
camere da letto dove gli ultimi venuti erano accolti tra grida di sorpresa, espressioni
di benvenuto e interminabili interrogatori. Verso mezzanotte, quando la discussione
per sistemare chi era rimasto senza letto si fece piú accalorata, qualcuno,
di cui nessuno osò mettere in dubbio la parentela, ordinò in tono
autoritario che tutti andassero a dormire dove potevano e con chi volevano, purché
non rompessero le scatole e lo lasciassero riposare in pace. Gli unici privilegiati
furono i gemelli ottantenni, primogeniti del nonno, che si installarono nella
camera matrimoniale con il letto a baldacchino. Invece un ospite gigantesco, parente
assodato, che nessuno aveva voluto accogliere nella propria stanza perché
aveva fama di russare come un trombone, dovette coricarsi su alcune pelli di mucca
nella vasca da bagno, da dove fu cacciato all´alba da un´orda di donne
seminude che pretendevano di fare la loro toeletta mattutina. Nonostante tutto,
poche persone dormirono la notte dell´arrivo. Ricordi comuni e vicende vissute
insieme li tennero svegli fino all´alba. Alcuni chiedevano notizie di nascite,
morti, matrimoni, amori, divorzi e litigi familiari; altri rievocavano le monellerie
di quand´erano bambini, le avventure vissute nell´adolescenza, le
escursioni sui tetti e le visite notturne alla stanza dei fantasmi; altri infine
si aggiravano nostalgici per tutta la casa, sperando di scoprirvi qualche traccia
della loro infanzia. La mattina dopo, gli ospiti ancora insonnoliti fecero
colazione in tre turni, le domestiche distribuirono biberon ai bambini e a metà
mattina misero in ordine la sala de pranzo e il salotto decorando tutta la casa
con palloncini, stelle filanti e ghirlande di fiori. Erano tutti riuniti quando
il nonno arrivò su una sedia di giunco alla quale erano state applicate
le rotelle. Il suo viso decrepito era nascosto da un cappello di paglia, le sue
mani grinzose come la pergamena - la sinistra deforme era simile a un artiglio
- riposavano sopra la coperta che schermava le gambe inerti. Era ridotto cosí
da piú di vent´anni, vittima - a quanto si diceva - del suo leggendario
valore, quando aveva tentato di domare un puledro selvaggio, arrivato da non si
sa dove, il quale dopo averlo disarcionato e calpestato varie volte fino a lasciarlo
definitivamente immobile, era sparito misteriosamente. A spingere la sedia era
sua figlia Filomena, un´anziana vestita di nero con il petto decorato da
medaglie, crocette e scapolari, che assunse la regia della cerimonia e parlò
ai convenuti con voce tremante ma nondimeno solenne: "Avvicinatevi tutti
per fare gli auguri al nonno, don Carmelo Paredes Mora". Dopodiché
mormorò una preghiera a Maria Vergine, un´altra a San Rocco e a molti
altri santi. Si formò una fila e tutti i presenti, cominciando dai piú
anziani, si chinarono a baciare la mano deforme del centenario facendogli gli
auguri. Quando arrivò il turno dei bambini qualcuno, come negli anni precedenti,
rifiutò di posare le labbra su quella pelle avvizzita; altri, in cambio,
chiesero inutilmente che il nonno raccontasse loro come aveva ucciso la tigre
con una sola mano e come il cavallo selvaggio, con la coda di fulmine e gli occhi
di fuoco, gli aveva fatto fare diciassette capriole prima di calpestarlo. Finita
la cerimonia cominciò la festa: si serví liquore di canna da zucchero
e si spararono mortaretti e petardi, suscitando le grida dei bambini e il panico
dei cani, che si rifugiarono sotto i tavoli abbaiando disperatamente. Alle
due del pomeriggio venne servito un pranzo pantagruelico: carne al forno, pollo,
maiale e anatra, riso e banane fritte; tutti mangiarono a piú non posso
e brindarono con vino e birra alla salute del nonno, augurandosi a vicenda di
potersi ritrovare l´anno successivo per una nuova celebrazione. Poi una
rumorosa banda formata da dieci musicisti tirò fuori gli strumenti e si
aprirono le danze. In un angolo del salotto, Filomena annodò un tovagliolo
al collo del padre e comiciò a dargli da mangiare con spietata determinazione.
Il nonno restò appisolato sulla sua sedia per tutto il pomeriggio, nonostante
la musica stridente, dalla quale non lo proteggeva neanche la sua sordità.
Quando si svegliò, intravide attraverso le nuvole bianchicce delle sue
cateratte visi vagamente familiari, coppie ebbre che ballavano sfrenate e bambini
che strillavano disperatamente mentre cercavano le madri, scatenate in deliranti
girotondi. Verso sera Filomena lo riportò nella sua stanza, gli fece
fare le sue abluzioni, lo mise a letto con l´aiuto di un cameriere e gli
diede il suo biberon di latte con cannella. Il vecchio rimase immerso nell´oscurità,
senza riuscire ad addormentarsi per lo strepito della musica. Aveva l´impressione
che la sua vita si fosse convertita in un eterno compleanno e temeva che la celebrazione
fosse un castigo per terribili peccati che non riusciva piú a ricordare.
Era sicuro che la colpa di tutto il fracasso fosse di quella donna che riconosceva
per il tintinnio delle medaglie e per l´inconfondibile puzzo di nafatalina.
Chi era Filomena? Chi era sua madre? si domandò. Riandando alla sua giovinezza
ricordò, con una stretta al cuore, che non era riuscito ad arrivare in
tempo al capezzale di sua madre moribonda, ma subito dopo dimenticò il
motivo della sua angoscia; rimase con una vaga sensazione di disagio e si domandò
di nuovo: sarà forse figlia di Lucilla? Mentre rovistava nei meandri
della memoria, gli tornò alla mente l´immagine della prima moglie,
che aveva sposato per saldare un debito d´onore ed estinguere alcuni mutui
bancari. Gli aveva dato due gemelli appena tre mesi dopo le nozze e poi tre o
quatto figlie, delle quali nonostante tutti gli sforzi non riusciva a ricordare
i nomi. Quando Lucilla morí di febbre da parto, si affrettò a sposare
sua cognata, inspiegabilmente vergine nonostante avesse già trent´anni;
ebbero molti figli, dei quali parecchi l´avevano preceduto nella tomba. Quando
anche Emilia morí - di colica o di polmonite? - fu difficile trovare una
nuova moglie disposta a prendersi cura di tanti orfanelli. A provvedere a loro
e alla casa ci pensò Filippa, la governante. Era lei che si incaricava
di dar da mangiare ai bambini e all´ora di pranzo distribuiva sgridate e
pizzicotti quando era necessario; amministrava il bilancio familiare con parsimonia
e a sera riceveva il vedovo nella sua stanzetta, come piaceva a lui: dopo un bel
bagno e in silenzio. Gli diede altri figli (quanti? non ricordava), i quali, imitando
i fratellastri, la chiamavano Fili anziché mamma. Dove sarà Filippa?
Non sarà morta? si chiese il nonno, per domandarsi subito dopo: chi cavolo
è Filippa? Il sonno tardava ad arrivare e pur tra lacune e vuoti di
memoria vide sfilare tutta la sua vita in una vorticosa successione di immagini;
vide sé stesso entrare in chiesa al braccio delle figlie vestite da sposa;
assistere al battesimo di nipoti e pronipoti e presiedere le riunioni di compleanno
alle quali, nonostante le morti di tanti familiari, assisteva sempre piú
gente. All´improvviso s´insinuò nella sua mente l´immagine
di Rosalia e gli fece male il cuore. Voleva cacciarla via, ma non poté
resistere alla seduzione del ricordo. Molti, molti anni prima, dopo che Ramone,
suo fratello maggiore, era rimasto vedovo, Carmelo lo aveva accolto in casa con
la sua bambina appena nata, per il battesimo della quale accettò di fare
da padrino. Mai avrebbe pensato che quella bambina gli avrebbe sconvolto l´esistenza.
Giocava con lei, le permetteva di salirgli sulla schiena a cavalcioni e di frustarlo,
mentre lui girava carponi come un puledro per tutta la casa; piú tardi
egli stesso le insegnò a montare a cavallo e anche a leggere e a scrivere.
Quando la figlioccia compí dieci anni, le regalò una bambola
importata dalla Spagna che rideva e piangeva; non tornava mai da un viaggio senza
portarle qualche regalo; lei riconoscente gli accarezzava il viso con le manine
soavi, gli baciava la punta del naso e si strofinava a contatto con la sua barba.
La vedeva crescere graziosa e civettuola, tollerava i suoi capricci e anche i
rimproveri di sua moglie, che gli rinfacciava di preferire Rosalia alle proprie
figlie. Ricordò come la bambina assaporava la frutta, come addentava le
mele; ricordò come era fiorito il suo corpo nell´adolescenza e come
la vista dei suoi seni aveva cominciato a inquietarlo. A quel tempo sulle prime
non volle ammetterlo e cacciò via il pensiero cercando di nascondersi la
verità, ma alla fine dovette riconoscere, con spavento, che si era innamorato. A
quel punto tentò di evitare la nipote, non la consolava piú quando
piangeva, fingeva indifferenza, cercava di sfuggire la sua presenza, ma qualche
volta, in circonstanze inevitabili, quando la ragazza avvicinava la sua guancia
per baciarlo, egli si voltava rapidamente e faceva in modo di sfiorare le sue
labbra con le proprie, notando che lei si turbava, arrossiva e abbassava lo sguardo.
La evitava e la cercava, la desiderava e la respingeva, la amava nelle sue veglie
tormentose e sfogava il suo desiderio su qualsiasi donna incontrasse. Conservò
in segreto la sua passione senza speranza, si diede all´alcol per dimenticarla,
immaginando situazioni disperate in cui amarla; arrivò persino a desiderare
la morte di suo fratello... finché una notte, al termine di una festa familiare,
si ubriacò, perse il controllo e gridando il nome dell´amata, rivelò
il suo amore impossibile. Ramone lo guardò inorridito, sfoderò
il revolver che portava alla cintola e lo avrebbe ucciso all´istante, senza
il provvidenziale intervento di un parente che gli assestò un colpo facendogli
perdere i sensi. Carmelo si rinchiuse nella sua stanza piangendo di rabbia
e impotenza, maledicendo la sua cattiva stella che fra tante donne al mondo, l´aveva
fatto innamorare proprio della nipote carnale. Continuò a bere finché
cadde vinto dal sonno e all´alba, quando si svegliò, vide dalla finestra
Ramone che preparava una carretta e i cavalli, caricandovi le valigie e un baule;
vide anche Rosalia, morta di sonno, che seguiva suo padre di malavoglia. Gli sembrò
che rivolgesse un ultimo sguardo verso la sua finestra prima che Ramone la obbligasse
rudemente a montare sulla carretta. Decise d´impulso che le avrebbe impedito
di partire, anche a costo di uccidere suo fratello, se fosse stato necessario;
ma quando uscí dalla stanza, chiuse la porta con tanta violenza che la
mano rimase incastrata e profondamente lacerata. Scese le scale senza curarsi
del dolore lancinante né del sangue che sgorgava a schizzi intermittenti
dalla ferita, lasciando un rivolo scarlatto. Perse i sensi per qualche istante;
quando rinvenne uscí di casa e vide che la carretta si allontanava velocemente,
scomparendo nella bruma dell´alba. Corse bestemmiando alla stanza della
ragazza, si buttò su quel letto che conservava ancora la tiepidezza del
suo corpo, affondò il viso nel suo cuscino, aspirò la sua fragranza
di frutto acerbo e pianse come un bambino. In quel momento si rese conto che se
pure avesse vissuto cent´anni, non avrebbe piú potuto amare un´altra
donna. A mezzogiorno lo svegliarono il dolore lancinante e le pulsazioni della
mano; li sopportò con coraggio, non cosí il dolore del distacco. Non
riusciva a rassegnarsi, fece eseguire delle ricerche e venne a sapere che sua
nipote era stata rinchiusa in un convento, come castigo per l´amore che
aveva ispirato e che, sospettava Ramone, lei stessa avrebbe provocato. Carmelo
sapeva che suo fratello non avrebbe mai permesso che si sposassero e quando finí
per decidere che avrebbe rapito sua nipote e sarebbe fuggito con lei all´estero,
abbandonando i figli, le terre e tutti i beni, fu informato che Rosalia era morta,
forse per la fatica del viaggio o per l´inclemenza climatica dell´altipiano. Allora
perse interesse per la vita, fu colto da febbre e delirio, trascurò i propri
figli e il lavoro nelle tenute; non prestava attenzione nemmeno alla mano infetta,
che i chirurghi gli volevano assolutamente amputare per prevenire la cancrena.
Ci mise piú di un anno a cicatrizzarsi e quando guarí, rimase atrofizzata
e deforme, simile a un artiglio; ma ciò non gli importava, tanto non avrebbe
mai potuto accarezzare il corpo della sua amata... Carmelo non rivide mai piú
Ramone; un procuratore vendette le sue terre a un detestato vicino e quando gli
comunicarono la morte del fratello per un attacco di dissenteria, non poté
reprimere un sentimento di vergognosa e sterile gioia. Il nonno assistette
impotente al secondo giorno di festegiamenti, assaporò la zuppa preparata
da Filomena e quando fece per leccarsi le labbra secche, la lingua sentí
una strana protuberanza nella gengiva inferiore. Quella sera a letto avvertí
di nuovo il gonfiore, che gli provocava un doloroso prurito. La mattina dopo,
quando si svegliò, si rese conto che la gengiva si era aperta, lasciando
affiorare appena un corpo minuscolo ed estraneo. Indugiò ad accarezzarlo
con la lingua, finché si convinse che gli stava spuntando un dentino. Non
ci poteva credere...stava sognando? Improvvisamente fu pervaso dall´illusione
di poter ringiovanire, recuperare i denti, la vista, l´udito, il movimento
e la potenza; ma alla fine, stanco di pensare a tutte le possibilità che
gli si sarebbero aperte se fosse ringiovanito davvero, ancora pieno di stupore
e con una strana sensazione di incontrollabile euforia, fu vinto dal sonno e si
addormentò soddisfatto. I festeggiamenti si conclusero il terzo giorno
con la cerimonia della torta: una monumentale composizione di dodici piani, ornata
di decorazioni di zucchero, che sembrava il capolavoro di un carpentiere. Tutti
collaborarono sistemando le cento candeline e poi soffiando per spegnerle; un
coro di cento voci stonate intonò la canzone di rigore in un inglese detestabile;
seguirono interminabili discorsi pronunciati dai discendenti, alcuni commoventi,
altri ampollosi, la maggior parte incoerenti, infine ripresero i balli e la festa
continuò. Il nonno assistette alla cerimonia con rassegnata sottomissione,
domandandosi quali orrendi crimini avesse commesso per meritare che tanta gente
estranea invadesse la sua casa e si ubriacasse senza alcun rispetto. Aveva l´intima
certezza di aver vissuto quella situazione il giorno prima, poi ricordò
che era l´anniversario della sua nascita e arrivò alla conclusione
che tutti i suoi compleanni si susseguivano incalzanti in un ciclo interminabile
e infernale. Non riusciva a comprendere perché quella vecchia che puzzava
di naftalina volesse obbligarlo a mangiare la torta di ananas che aveva sempre
detestato. Quando tentò di sputare il primo boccone, la sua lingua urtò
contro il dentino. Ricordò di averlo scoperto il giorno prima - o forse
durante il compleanno precedente? - e fu colto da un intimo compiacimento. Chiuse
la bocca perché non avrebbe sopportato il casino che la semplice scoperta
avrebbe provocato tra i presenti. Quando lo portarono a letto, si abbandonò
al flusso dei ricordi, ricordò tutte le donne che erano passate per la
sua vita, tutte quelle che aveva posseduto, giacché amare, non ne aveva
amato nessuna. Non ne aveva nemmeno baciato piú nessuna sulla bocca, perché
non svanisse il sapore delle labbra di Rosalia. Gli ritornò alla mente
Catalina, la donna che aveva risvegliato il suo desiderio di ottuagenario e che
aveva tentato di possedere una sera sotto una palma; fu in quell´occasione
che la vista gli si annuvolò, sentí un ronzio alle orecchie e perse
i sensi. Quando si riprese, era condannato alla sedia a rotelle per sempre. Alla
memoria gli balzarono le immagini di altre donne, ma le respinse tutte, fuorché
quella di Rosalia, immortalata nei suoi quindici anni, con le sue manine soavi
e la sua fragranza di pesche. Come ogni notte, si domandò se si sarebbe
svegliato il giorno dopo o se dal sonno sarebbe passato direttamente a miglior
vita. L´imminenza della morte gli causava un timore indefinito: a volte
si sforzava di non addomentarsi perché la Parca non potesse sorprenderlo
nel sonno, altre volte invocava con impazienza l´ultimo respiro per porre
termine a quell´angosciosa attesa. Esplorò la gengiva con la lingua
e la presenza del dentino - non era un sogno, era lí, esisteva davvero
- lo riempí di allegria. Si abbandonò all´onda del passato,
inseguí ricordi perduti, ricostruí quelli piú piacevoli,
gli si fecero incontro alcuni sgradevoli: tentò di allontanarli ma non
ci riuscí. All´improvviso, ebbe una rivelazione e intuí che
la morte, di cui avvertiva l´approssimarsi, consisteva nel rivivere la vita
mille volte nel ricordo, con la possibilità di modificarla fino a quando
fosse diventata perfetta. Allora sarebbe rincasato in tempo per veder morire
sua madre e le avrebbe chiuso gli occhi con una dolce carezza. La morte di suo
fratello sarebbe stata eroica e opportuna, una piazza avrebbe portato il suo nome
e lui avrebbe poputo sposare Rosalia grazie a una dispensa papale. Lei non sarebbe
morta, immune da febbri e polmoniti, sarebbe rimasta sempre al suo fianco con
la sua tenerezza infinita. Decise che avrebbe conservato la sua mano deforme,
ormai ci era abituato, ma si sarebbe ridotta cosí dopo aver lottato con
la tigre e averla vinta, proprio come voleva la leggenda. Avrebbe saputo con sicurezza
chi era la madre di Filomena - ma non poteva essere altri che Rosalia - e avrebbe
fatto l´amore con Catalina senza alcun incidente. Ma si affrettò
a cacciare quel pensiero, perché se avesse avuto presso di sé Rosalia,
nessun´altra donna avrebbe potuto risvegliare il suo desiderio. Continuò
a dipanare il tessuto del tempo ritoccando incontri, riempiendo lacune, cancellando
azioni inconfessabili, rendendosi protagonista delle gesta che gli venivano attribuite,
ricuperando il tempo perduto, per terminare la sua vita generosamente, libero
da rancori e da rimorsi, circondato da figli, nipoti e pronipoti, serenamente,
confortato dalla tiepida presenza di Rosalia. Non sapeva tuttavia dire se era
riuscito a ricostruire la sua esistenza solamente in un compleanno o in successivi
festeggiamenti, ma dopo aver dato l´ultima pennellata alla sua vita, si
sentí liberato della paura della morte, lasciò sfuggire un breve
rutto che gli portò alla bocca un sapore di frutta, riportò un´altra
volta alla mente l´immagine di Rosalia, rabbrividí al ricordo e al
freddo dell´alba e si lasciò morire dolcemente, con un sorriso sulla
bocca semiaperta, nella quale affiorava appena un dentino bianco e brillante.
Revisione di Gian Tarquinio Sini e Antonello Piana
Giancarla
De Quiroga
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