Evocrazia contro New Deal -
Evo Morales e il nuovo "asse del male" in America Latina - Hugo
Velarde
La
Bolivia è di nuovo al centro dei conflitti per il futuro dell'America Latina.
Il paese andino assume un ruolo da protagonista nella lotta per la sovranità
contro l'ammaccato New Deal neoliberale. La maggioranza della popolazione latinoamericana
non ha piú intenzione di tollerare il rapinoso sfruttamento delle risorse
naturali da parte di imprese multinazionali e "deregolate" borghesie
nazionali, che dopo i sanguinosi compromessi con le dittature militari degli anni
Settanta e Ottanta hanno assunto, a partire dal 1989, nuove vesti. Una delle
attuali bandiere popolari è Evo Morales. I suoi avversari gli negano un'autentica
volontà democratica, denunciando la sua abilità politica e mediatica
come "evocrazia populista e totalitaria". Inflessibile nella sostanza
ma pragmatico nella realizzazione, Morales ha fatto capire durante il vertice
UE-America Latina a Vienna che la sua politica di nazionalizzazioni non altera
le garanzie giuridiche di un equo commercio, perorato dal Segretario dell'ONU
Annan nell'interesse degli investitori stranieri. A questo fine tuttavia, ha affermato
Morales, occorre tornare a una sovranità nazionale che le imprese petrolifere
hanno finora paralizzato, con la collusione dei governi neoliberali. Cosciente
della propria debolezza nazional-statale, Morales si è sforzato - perfino
prima di prendere le redini del governo - di stringere alleanze strategiche col
Venezuela e con Cuba, formando cosí oggi il nuovo "asse del male",
come affermano i suoi inferociti avversari alla solita, irrazionale maniera. In
effetti Morales rispolvera consapevolmente il mito della "nuestra America",
come un'eco di José Martí e Che Guevara, con un pathos emancipatorio
antiimperialista accompagnato dal modello della democrazia sociale, che gode di
molta popolarità nel subcontinente - ancor di piú dopo il terremoto
politico scatenato dal Presidente boliviano il Primo Maggio di quest'anno, che
lo ha catapultato sulla bocca di tutti. Per decreto Morales ha realizzato
la promessa elettorale di nazionalizzare l'industria del petrolio e del gas, e
simili passi sono stati preannunciati anche per il settore minerario e quello
forestale, che nelle regioni subtropicali del paese come Santa Cruz de la Sierra,
Beni e Pando producono rendite enormi. Morales punta allo sfruttamento ecologicamente
sostenibile dei legnami pregiati sotto il controllo dello stato, per arrestare
il disboscamento della foresta tropicale. A questo pacchetto appartiene anche
un'aggiornamento della riforma agraria del 1953, che prevede una redistribuzione
delle terre ai contadini che oggi ne sono privi. Una simile riforma potrebbe rivelarsi
esemplare anche per il vicino Brasile. Tra Morales e Lula perciò si possono
già prevedere nuovi motivi di attrito, dopo che le nazionalizzazioni hanno
colpito in larga misura Petrobras, il colosso statale brasiliano che deteneva
il 43% dell'estrazione di gas in Bolivia. Ma non sono le comuni convinzioni politiche
a tenere banco, quanto gli interessi nazionali. Con un cieco nazionalismo,
come denunciano i conservatori, le decisioni di Morales non hanno niente a che
fare. Attraverso la nazionalizzazione delle riserve di gas e petrolio, legittimata
da un referendum nel 2004 (quindi prima dell'elezione di Morales), vengono decurtate
solo le rendite straordinariamente alte delle multinazionali. Delle riserve di
circa 1,4 bilioni di metri cubi di gas, all'impresa statale YPFB spetta in futuro
almeno il 50% piú 1. Le imprese straniere possono firmare accordi e contratti
tramite joint ventures, secondo il modello norvegese, con possibilità di
guadagno del 20%. Detto questo, il governo bolivano ha imposto alle ventisei
imprese petrolifere straniere attive nel paese un ultimatum di sei mesi per restituire
le licenze e firmare i contratti aggiornati alle nuove condizioni, che prevedono,
nell'ambito dell'estrazione di piú di 2,8 milioni di metri cubi di gas
al giorno, un profitto netto non superiore al 18%, cosí che lo stato ne
trattenga almeno l'82% (una proporzione perfettamente capovolta rispetto alle
attuali condizioni). Se confrontate con quelle di altri paesi esportatori di petrolio
e gas, come il Messico, il Venezuela, la Norvegia, la Nigeria, ma anche l'Arabia
Saudita, il Kuwait e l'Iran, simili condizioni non sono affatto anomale. Questi
paesi infatti trattengono da anni, per mezzo delle imprese di stato e senza suscitare
le grida di scandalo delle multinazionali, piú di due terzi delle entrate.
Quindi l'accusa secondo cui in Bolivia gli investitori non avrebbero piú
alcuna sicurezza è a dir poco assurda, senza considerare che i contratti
favorevoli alle multinazionali finora vigenti erano stati ratificati nel 1996
per decreto dal governo neoliberale di Sánchez de Lozada, ma non erano
mai passati per il parlamento. Possiamo essere certi che alle multinazionali non
era sfuggita la mancanza di legittimazione costituzionale dei loro accordi. Evo
Morales, che nel frattempo verrebbe preferibilmente visto dalla borghesia boliviana,
come da quella argentina e brasiliana, nei panni di un pastore di lama, porta
avanti il suo progetto politico secondo un piano definito. Il 29 Aprile, due giorni
prima del decreto di nazionalizzazione, ha fatto ingresso all'Avana nell'Alternativa
Bolivariana per l'America (ALBA), a cui già appartengono Cuba e il Venezuela,
un progetto alternativo alla Zona Americana di Libero Commercio (ALCA) di matrice
statunitense. Forse non suona ancora come la grande svolta economica, ma proprio
il progetto di una nuova politica che promuova una collaborazione alternativa
al neoliberalismo potrebbe rivelarsi un ulteriore successo di Morales. In un paese
come la Bolivia, dove i conflitti sociali e la povertà diffusa non consentono
nemmeno per un attimo di tirare il fiato, il successo o il fallimento dell'"Evocrazia"
dipenderà soprattutto dall'interpretazione che essa darà della democrazia
sociale.
Traduzione di Antonello Piana.
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