La visitina

- Brano tratto dal romanzo Essere senza destino -


Imre Kertész





(...) A parte Zbischek, anche qualcun altro è venuto a fare una visitina a Pjetka: un rapido scambio di parole, di tanto in tanto anche qualche oggetto, e benché io non abbia mai visto di cosa si trattasse, in fondo era assolutamente chiaro, si capiva, è ovvio. Altri ancora venivano per l'uno o l'altro degli ammalati, sempre sgattaiolando via veloci, furtivamente, quasi in segreto. Si sedevano sul letto per un minuto, magari appoggiavano sulla coperta un pacchettino fatto su alla meglio con un pezzo di carta, discretamente, quasi scusandosi. E poi - benché io non riuscissi a sentire i loro sussurri, e se anche li avessi sentiti non li avrei comunque compresi - sembravano chiedere: come va la guarigione, cosa c'è di nuovo; e raccontare: là fuori invece le cose vanno così e così; e riferire: questo o quello ti manda i suoi saluti e vuole sapere come stai; e assicurare: anche i saluti dell'ammalato verranno riferiti, certo; e improvvisamente constatare: ora il tempo è scaduto, a questo punto gli danno qualche colpetto sulle braccia e sulle spalle come per dire: non ti preoccupare, torneremo presto, fatto questo sgattaiolano via, di fretta e furia, il più delle volte soddisfatti - ma senza altro risultato, senza altro vantaggio e senza un tangibile beneficio, mi sembrava, dunque dovevo supporre che fossero venuti soltanto per quelle poche parole, soltanto per vedere il loro ammalato. E anche se io non lo avessi saputo, era chiaro, la loro fretta lo indicava: stavano compiendo un'infrazione che poteva passare solo grazie alla condiscendenza di Pjetka e sicuramente anche a condizione che ci si spicciasse. Già, sospetto persino, e dopo la lunga esperienza oso persino asserirlo, che il rischio, questo atto arbitrario, per non dire questa ripicca, era parte integrante dell'impresa - e comunque è quanto leggevo su quelle facce che si dileguavano frettolosamente, quanto deducevo dalla loro espressione difficilmente definibile ma in qualche modo allietata dalla disobbedienza riuscita, come se così - era questa la mia impressione - fossero riusciti a cambiare, a scardinare, a falsificare un poco la situazione, quel certo ordine, la monotonia delle giornate e forse addirittura un pochino la natura stessa; in ogni caso questo è quanto pensavo. Ma gli uomini più bizzarri li ho visti al capezzale di un ammalato disteso un pezzo più avanti, accanto alla parete divisoria sull'altro lato. Pjetka lo aveva portato in spalla quel mattino e si era dedicato a lui con notevole solerzia. Vedevo che doveva trattarsi di un caso difficile e sentivo che era un russo. Quella sera i visitatori riempirono a metà la camera. Vidi molte R, ma anche altre lettere, berretti di pelliccia e calzoni stranamente imbottiti. Uomini che su un lato della testa avevano i capelli e sull'altro erano completamente calvi. Altri avevano capelli normali che erano stati rasati solo in mezzo, dalla fronte alla nuca, come una
lunga striscia disboscata, esattamente della larghezza di un tagliacapelli. Giacche con le solite toppe ma anche con due pennellate rosse incrociate, un po' come quando in un testo scritto si cancella una lettera, un numero, un segno che non serve. Su altre schiene c'era un grande cerchio rosso ben visibile anche da lontano con dentro un grande punto rosso, una sfida ammiccante, che come un bersaglio pareva segnalare: sparare qui, per ogni eventualità. Stavano lì in piedi, si spostavano con piccoli passi da una parte all'altra, si consultavano in silenzio, uno si era chinato per sistemare il cuscino dell'ammalato, un altro aveva cercato di carpirgli una parola o uno sguardo, almeno così mi era parso, e tutt'a un tratto vidi luccicare tra loro qualcosa di giallo, chissà da dove comparve un coltello e con l'aiuto di Pjetka anche un bicchiere di metallo, poi un lieve gorgogliare e, qualora non mi fossi fidato dei miei occhi, a quel punto era il mio naso a poter testimoniare senza alcun dubbio che quella cosa gialla appena vista era effettivamente e indiscutibilmente un limone. A un tratto la porta si aprì di nuovo e io rimasi di stucco perché a entrare così di corsa era il dottore e questo non si era mai visto prima a un'ora tanto insolita. Gli fecero subito largo, lui si chinò sul malato e lo visitò appena, toccò qui e là, ma poco, e se ne tornò subito via, a dire il vero con una faccia piuttosto imbronciata, severa, anzi inviperita, senza rivolgere a nessuno una sola parola né degnare alcuno di uno sguardo, semmai scantonando addirittura gli sguardi diretti su di lui - questa in ogni caso era la mia impressione. Poco dopo vidi i visitatori diventare stranamente calmi e silenziosi. Qualcuno ancora si staccò dal gruppo, si avvicinò al letto, si chinò sull'ammalato - poi cominciarono ad andarsene, da soli, in due, proprio come erano venuti. Solo un po' più turbati di prima, in modo più stentato, più stanco. In quell'istante provai anch'io per loro una certa compassione perché lo vedevo: avevano definitivamente perso una speranza sia pure nutrita senza motivo, una fiducia sia pure covata in segreto. Un po' più tardi Pjetka si caricò in spalla con molta cura il cadavere e lo portò via da qualche parte.




(Brano tratto dal romanzo Essere senza destino, Feltrinelli editore, Milano, 1999. Traduzione di Barbara Griffini.)




Imre Kertész è Premio Nobel per la Letteratura 2002.




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