La
prima volta che lo vidi mi fece un'impressione strana. La montatura degli occhiali
neri da quattro soldi si univa alla barba incolta, contigua ai capelli corvini,
lunghi fino alle spalle. La giacca militare gli conferiva un aspetto da ribellante,
la fisarmonica con i tasti mancanti da nomade musicante. Calzava le scarpe da
ginnastica come ciabatte, quasi che il piede reclamasse libertà, polvere,
contatto diretto con la strada. Le dita della mano non cessavano il loro moto
impercettibile sui braccioli del sedile. Guardava fuori dal finestrino, disinteressato
ai passeggeri circostanti. Immaginavo, dietro quella maschera, un'espressione
sprezzante, o forse annoiata. Mi sentivo attratto. Ero pronto ad avvicinarmi per
attaccare discorso, ma avevo paura degli occhi nascosti dietro lenti troppo scure.
Rimasi seduto al mio posto, limitandomi a lanciare uno sguardo discreto, di tanto
in tanto. Scese alla mia stessa fermata. Il passo inelegante accentuò la
postura noncurante dei suoi simili, così diversi da lui. Si fermò
davanti al bar della stazione, mise una mano in tasca, tirò fuori qualche
moneta, le contò. Poi entrò per consumare l'ennesimo pasto randagio,
di certo meno proteico di quanto avrebbe desiderato. Io proseguii per la mia strada,
portandomi via nell'iride, capovolta, la sua barba incolta.
Oggi è
di nuovo qui. Aspettiamo lo stesso treno. Dove starà andando? Si appoggia
con una mano sul cassonetto dei rifiuti. Altri avrebbero cercato appoggio su una
colonna, un distributore automatico di bevande, una ringhiera del sottopassaggio;
mai su un contenitore d'immondizie. Lui non prova ribrezzo per quello che c'è
lì dentro. Guardo la sua mano e mi pare di cogliere una specie di tenerezza
nel modo in cui le dite si poggiano su quella superficie impura. Una carezza.
Arriva il treno, saliamo. Prendo posto vicino a lui. Sul sedile di fronte qualcuno
ha lasciato dei quotidiani. Ne raccoglie uno, il quotidiano dei mercati finanziari:
parla di banche, azioni, investimenti sicuri. Penso che lo rimetterà subito
a posto con lo stesso gesto incurante con il quale l'ha raccolto. Invece alza
gli occhiali neri sulla fronte ed inizia a leggere. Gli occhi sono dello stesso
colore delle lenti, le sopracciglia folte. Le palpebre si contraggono per mettere
a fuoco le parole. Ci scivola sopra per un minuto o due. Poi lascia scivolare
gli occhiali sul naso, poggia il giornale, volge lo sguardo fuori dal finestrino.
Mi faccio coraggio. Lo fisso per qualche istante. Lui sembra non farci caso. Sorrido.
-
E' un bello strumento. La tastiera si può far riparare. Ci hai provato?
- A me piace così, con i tasti mancanti. Non sempre le cose diventano
più belle quando le ripari.
- Mi chiamo Luca.
- Io Raul.
- Da
dove vieni?
- Sono stato in così tanti posti che non so più qual
è la mia patria.
- Il paese natale non si dimentica mai.
- Il mio
paese natale è quello dove andrò. Partire è morire. Arrivare
è nascere.
- Raul è un bel nome. Ovunque sia nato e nascerai,
sarà il nome giusto per te.
- E tu dove vai?
- Torno a casa. Io sono
un sedentario. Un po' t'invidio.
- Tanti m'invidiano. Ma poi m'ignorano.
-
Anche io avevo un po' paura di te, senza offesa, hai un aspetto poco rassicurante.
-
Credi che tutti gli altri su questo treno, ben vestiti, rasi, composti, siano
persone affidabili? A te ispirano sicurezza? A me fanno pena.
- Hai ragione,
è una questione di punti di vista.
- E' una questione di maschere. A
volte incrocio i loro sguardi sprezzanti. Pensano che non sia stato capace di
farmi una vita. Io la vita l'ho sposata e le resto fedele. Loro, invece, non andranno
da nessuna parte. Uomini senza patria; non nascono perché hanno paura di
morire.
- Forse hai ragione, Raul. Forse è come dici tu.
- Tu, invece,
sei uno che vuole vedere chi c'è dietro la maschera.
- Vorrei sapere
chi c'è dietro la mia. Ma credo di dover morire e nascere molte volte prima
di scoprirlo. E' tanto che suoni la fisarmonica?
- Tutta la vita. La suonavo
prima ancora di nascere.
- Già nel grembo materno? Che storia, da scriverci
un racconto.
- Tasti bianchi e neri sotto le dita della mano destra, bottoni
sotto quelle della sinistra. Li sfiori, premi, colpisci, mentre il mantice si
riempie d'aria con il movimento periodico di andata e ritorno del braccio sinistro.
Respiri e suoni. Le note si staccano dal corpo come parole. Solo alcune rimangono
in una cassa di risonanza sul fondo dello strumento, rimbalzano nel suo interno.
Risonanze viscerali. Note implose in attesa d'essere partorite.
- Mi fai venire
voglia d'imparare a suonare la fisarmonica.
- Tu suoni già la chitarra.
-
Come fai a saperlo? Sei un indovino? Magari sai leggermi la mano.
- Mi è
bastato leggerti le unghie: quelle della destra sono lunghe e quelle della sinistra
corte.
- Ho smesso da tempo di suonare, ma le unghie non le ho mai tagliate.
Dovrei farlo, se volessi suonare la fisarmonica, vero? Se c'è una cosa
che mi commuove sono le note di una fisarmonica lontana mentre cammino per le
strade della città; quel senso di grazia e tristezza ineluttabile. Più
di tutto amo i tanghi argentini. Li sai suonare?
- Qual è il tuo preferito?
-
Libertango.
- Te lo suono con piacere.
- I passeggeri potrebbero avrebbero
qualcosa da ridire?
- Su questo treno non c'è nessuno. Ci siamo solo
tu ed io.
Raul impugna la fisarmonica, la posa sulle gambe, accarezza con
la destra i tasti bianchi, neri e mancanti, con la sinistra i bottoni. Inizia
a suonare. Accenna prima qualche variazione sul tema, accompagnata da accordi
brevi. Poi scandisce il tempo martellando ritmicamente i tasti con la destra,
mentre la sinistra respira note lunghe. Infine intona la melodia. Le note esplodono
silenziose. Sgorgano dallo strumento come vento, come acqua. Pensavo di conoscere
questo brano, eppure, lo sento per la prima volta. M'investe una raffica di emozioni
e ricordi. Rivedo scene della mia infanzia. Ho le guance umide di lacrime. Guardo
la faccia di Raul: sta cambiando. E' scomparsa la barba, la sua pelle è
diventata liscia, ha i capelli a caschetto e una camicia bianca. Al polso un braccialetto
di madreperla. Col piede porta il tempo. Anche le scarpe sono bianche. Sorride.
E' diventato un bambino.
- Chi sei, Raul?
- Sono quello che tu non hai
voluto essere. I tuoi sogni, i tuoi sbagli. Sono il tuo angelo.
- Sto sognando,
vero? Sei un prodotto della mia immaginazione.
- Sono lo strumento che non
hai suonato, le decisioni che hai preso, il racconto che hai scritto: "Il
manico impolverato della chitarra, le cui corde desuete erano ormai prossime a
spezzarsi, gli sembrava il tronco di un albero inaridito....."
- Santo
cielo, Raul, non puoi conoscere quella pagina, non l'ho mai letta a nessuno.
-
E' davvero bella. Te la leggo io, se vuoi. Me la ricordo a memoria:
"Il
manico impolverato della chitarra, le cui corde desuete erano ormai prossime a
spezzarsi, gli sembrava il tronco di un albero inaridito. La teneva lì,
nell'angolo della sua stanza, in mezzo a due scaffali coperti di spartiti musicali,
impolverati anch'essi, che forse oggi non avrebbe neanche più saputo leggere.
Aiuola dimessa di una stagione lontana. Quand'era l'ultima volta che l'aveva suonata?
Più volte aveva pensato di liberarsene, regalandola a qualcuno, ma qualcosa
dentro gli impediva di farlo. Forse sperava che il suo talento non fosse andato
del tutto perduto, che un giorno per miracolo l'avrebbe resuscitato. Oppure voleva
avere sempre davanti agli occhi, come un monito, il ricordo di una decisione sofferta
che oggi gli appariva errata. "La musica è una nobile passione, ma
non può essere un mestiere. Faresti meglio a studiare e trovarti un lavoro
normale". Lo avevano consigliato. Gli era sempre sembrato inconsistente quell'argomento.
Eppure, l'aveva seguito. Non l'avevano costretto. Aveva deciso lui. "Se studierò
al conservatorio di musica non diventerò mai un avvocato. Se studio legge,
invece, potrò sempre suonare la chitarra per diletto." Si era convinto.
Come siamo bravi a trovare compromessi, cercando di salvare tutto a tutti i costi.
Ma la vita non si fa fregare, ti aspetta al varco, per anni, decenni, sta lì
in un angolo a guardarti silenziosa. Hai scelto bene? Ti domanda beffarda. Sei
stato fedele ai tuoi sogni, alla tua vocazione? "No, non lo sono stato -
aveva capito in quell'istante - per paura di una vita appassionante e incerta,
dedita all'arte. In compenso, ora ho una vita noiosa e sicura. Ed è quello
che mi merito." Stava per piangere, capiva che ormai era troppo tardi per
cambiare. Prese il suo portatile ed iniziò a scrivere: "il manico
impolverato della chitarra..."
Sai cosa mi piace del tuo racconto?
La sua struttura ciclica; è la struttura tipica degli errori: ci promettiamo
di non ripeterli più e ci ricadiamo di nuovo. Un recinto senza uscita.
Ad ogni sbaglio un giro di cinta. Non è così, Luca?
- Chi sei?
-
Te l'ho già detto. Ma tu non mi vuoi credere. Sono il tuo angelo.
-
Ho le allucinazioni, sto parlando da solo. La gente penserà che sono matto.
-
Non preoccuparti, non ci ha visto nessuno. Ci siamo solo tu ed io su questo treno.
- Voglio uscire dal recinto.
- Devi fare un salto.
- Il recinto è
troppo alto.
- Basta un salto per passare dal cerchio alla spirale, per iniziare
a salire. Adesso devo andare.
- Non lasciarmi. Ti prego. Senza di te prenderò
altre decisioni sbagliate.
- Hai già preso una decisione, ora non hai
più bisogno di me.
Lo scompartimento è vuoto. L'aria è
pregna di note. Sul sedile difronte la fisarmonica di Raul è ancora calda.
Una voce mi raggiunge dalle portiere alle mie spalle.
- Signore, siamo al
capolinea. Si scende.
- La ringrazio, mi ero... addormentato.
- Signore,
sta dimenticando la fisarmonica. Che roba, la gente dimentica di tutto, ci mancava
ancora una fisarmonica. Lei non immagina che lavoro sia pulire i treni.
- Questo
strumento non è mio. Lo ha lasciato un uomo con la barba e i capelli lunghi,
gli occhiali neri ed una giacca militare. E' appena sceso. Lo avrà notato
di sicuro.
- Non ho visto nessuno. Lei è solo in questo vagone.
-
Ed un bambino con la camicia bianca ed i capelli a caschetto? Lo ha visto?
-
Prenda questa fisarmonica, per favore, anche se non è la sua, la prenda
lei. Io non saprei che farmene. Finirà in un deposito a prendere polvere.
Scendo
dal treno. Mi guardo intorno. Cappotto di cachemire color cammello, scarpe di
cuoio, sciarpa di seta, una borsa di pelle nella mano sinistra, una fisarmonica
con i tasti mancanti sulla spalla destra. Chissà la gente cosa penserà?
Pensi pure quello che vuole.