Il bulldog


Arthur Miller



Gli era capitato di leggere sul giornale un breve annuncio che diceva: "Cuccioli di bulldog nero pezzato tre dollari cadauno". Disponeva di qualcosa come dieci dollari, guadagnati imbiancando la cantina, che non aveva ancora messi sul libretto, ma in casa non avevano mai avuto un cane. Suo padre stava schiacciando un pisolino lungo, quando l'idea gli balenò in mente, e sua madre, nel bel mezzo d'una partita a bridge, quando le chiese se non aveva niente in contrario si strinse nelle spalle distrattamente e giocò un jack. Lui allora si aggirò per casa, qua e là, cercando di prendere una decisione, e si diffuse in lui la sensazione che era meglio affrettarsi, prima che qualcun altro se lo portasse via, il suo cagnolino. Aveva infatti già in mente un particolare cucciolo che apparteneva a lui: era il suo cuccioletto, e il cucciolo lo sapeva. Non aveva idea, lui, di come si presentasse un bulldog pezzato, ma gli suonava bene e sarebbe stato, di certo, rude e meraviglioso. I tre dollari, poi, ce li aveva, con tutto che gli rodesse spenderli, per via che i suoi avevano grattacapi finanziari, da quando suo padre era andato di nuovo in fallimento. Il breve annuncio non precisava quanti ce ne fossero, di cuccioli. Magari erano solo due o tre... e a quest'ora forse erano stati già venduti.
L'indirizzo era Schermerhorn Street, mai sentita nominare. Telefonò e una donna dalla voce rauca gli spiegò con quali mezzi arrivarci. Venendo dal quartiere di Midwood, a
Brooklyn, bisognava prendere la linea Culver della soprelevata e cambiare a Church Avenue. Se l'annotò e rilesse le indicazioni alla donna. Ce li aveva ancora, i cuccioli, grazie a Dio. Impiegò più di un'ora ad arrivarci, ma il treno era mezzo vuoto, essendo domenica, e con il vento che entrava dai finestrini aperti faceva più fresco che giù in strada. Dall'alto della ferrovia aveva visto, negli spiazzi erbosi, alcune vecchie donne italiane, foulard rosso in testa, chine a cogliere giunchiglie, dette anche tromboncini, di cui si riempivano il grembiale. Sapeva dai compagni di scuola italiani che danno sapore al vino e si mangiano nell'insalata. Ne aveva assaggiata una, una volta, mentre giocavano a baseball in uno spiazzo vicino a casa sua, ma era amara e salata come le lacrime. Il vecchio trenino dai vagoni di legno, praticamente vuoto, traballava e sferragliava leggermente nel pomeriggio torrido. A un certo punto aveva visto degli uomini che, davanti a casa, annaffiavano le loro automobili come fossero elefanti accaldati. La polvere fluttuava piacevolmente nell'aria.
Il quartiere di Schermerhorn Street fu per lui una sorpresa, del tutto diverso dal suo, a Midwood. Le case erano signorili, in arenaria rossiccia, mica come quelle della sua strada, che erano rivestite di assicelle, edificate solo pochi anni prima, o, al massimo, le più vecchie, intorno al 1920. Persino i marciapiedi erano antiquati, lastricati di pietrone quadrate, anziché in cemento, con ciuffi d'erba che spuntavano dagli interstizi. Era evidente che non ci abitavano ebrei lì, forse perché la zona era così tranquilla, così sfaccendata, e non c'era un'anima che sedesse fuori a godersi il sole. Molte finestre erano spalancate e c'erano persone inespressive appoggiate sui gomiti, a guardar fuori, e alcuni gatti pigramente sdraiati sui davanzali. Le donne erano perlopiù in reggiseno e gli uomini in canottiera, esposti alla brezza. Il sudore gli colava a rivoli giù per la schiena, non solo per il caldo, ma anche perché si rendeva conto, solo adesso, di essere l'unico, lui, a desiderare un cane, dal momento che i suoi genitori non avevano un'opinione precisa al riguardo, e il fratello maggiore gli aveva detto: "Ma che, sei matto? Spendi quei quattro soldi che hai per un cagnetto? Chissà manco se di razza! E cos'è che gli dai da mangiare?". Lui aveva azzardato: "Beh, degli ossi" e il fratello, che la sapeva sempre più lunga su tutto, aveva esclamato: "Ossi! Se non ci hanno ancora i denti! ". "Allora, beh, della minestra," aveva borbottato lui. "Minestra! Lo vuoi nutrire a minestrine, un cane?" D'un tratto si accorse che era arrivato al numero che cercava. Lì impalato si sentì, come suol dirsi, cascare il culo. Lo sapeva che era uno sbaglio, come un sogno strampalato, o come una bugia che si tenta stupidamente di avvalorare. Il cuore aveva accelerato i battiti e, sentendosi avvampare, proseguì fino a metà dell'isolato successivo. Era l'unico essere umano in circolazione per la strada deserta, e alcuni, dalle finestre, lo stavano a guardare incuriositi. Ma come poteva tornarsene a casa, dopo essersi scaraventato così lontano? Gli sembrava di aver viaggiato per settimane, per un anno intero. Tornare a mani vuote, con la metropolitana? Tanto valeva dargli come minimo un'occhiata, al cagnolino, se la donna glielo avesse consentito. Aveva consultato l'Enciclopedia del sapere, che dedica due pagine intere a fotografie di cani: c'era il bulldog bianco inglese, dalle zampe anteriori ricurve e i denti che protrudono dalla mascella inferiore, e, fra gli altri, il piccolo bulldog bianco e nero di Boston, e il pitbull dal muso lungo, ma neanche una foto del bulldog pezzato. Tutto sommato, dei pezzati sapeva soltanto, in sostanza, che costavano tre dollari. Però doveva perlomeno dargli un'occhiata, al suo cucciolo. Tornò quindi sui suoi passi e suonò alla porta del seminterrato, come la donna gli aveva detto. Lo squillo fu tanto forte da spaventarlo ma, ragionò, se fosse scappato e quella si fosse affacciata giusto in tempo per vederlo, sarebbe stato ancora più imbarazzante, quindi rimase fermo in piedi col sudore che gli colava sul labbro.
Un portoncino si aprì, sotto il livello della strada, e una donna uscì fuori guardandolo attraverso le sbarre impolverate del cancello di ferro. Indossava una sorta di vestaglia di seta rosa pallido, di cui stringeva i lembi in una mano, e aveva i capelli neri, lunghi, sciolti sulle spalle. Lui non osava guardarla in faccia, sicché non avrebbe saputo dire che aspetto avesse, ma avvertiva che era tutta tesa, lì in piedi dietro al cancello chiuso. Forse, pensò, stentava a figurarsi perché avesse suonato il campanello, quindi si affrettò a chiederle se era lei che aveva messo l'annuncio sul giornale. Oh! Il suo atteggiamento era mutato lì per lì e lei aveva tirato la spranga e aperto il cancello. Era più bassa di lui e aveva un odore singolare, come una miscela di latte e aria stantia. La seguì in casa, dove era tanto buio da non poter quasi distinguere gli oggetti, ma si udiva lo stridulo abbaiare dei cagnetti. La donna dovette alzare la voce per chiedergli dove abitava e quanti anni aveva, e, quando lui le disse "tredici", si batté una mano sulla bocca e disse che era molto alto per la sua età, ma lui non riusciva a capire perché mai questo sembrasse imbarazzarla, magari avrà pensato lì per lì, come tanti altri, che ne avesse quindici. Comunque la seguì in cucina, sul retro dell'appartamento, dove finalmente poté guardarsi intorno, dato che ormai da un po' era fuori dall'abbaglio del sole. Dentro uno scatolone di cartone scoperto, dai bordi irregolarmente tagliati per abbassarlo, vide tre cuccioli e la loro madre, la quale alzò il muso e lo guardò dimenando la coda lentamente. Non gli parve che assomigliasse a un bulldog, ma non osava dirlo. Era semplicemente una cagna marrone, con macchie nere e delle striature qua e là, come pure i cucciolettí. Non gli piaceva il modo in cui gli penzolavano le orecchie, ma alla donna disse che aveva voluto vederli, i cagnolini, pur non avendo ancora deciso niente. Poi non sapeva più che altro dire, veramente, allora, tanto per non dare l'impressione che i cagnetti non fossero di suo gradimento, chiese se poteva prenderne uno in braccio. La donna disse che non aveva niente in contrario e si chinò, allungò le mani, sollevò due cuccioli dallo scatolone e li depose sul pavimento di linoleum azzurro. Non somigliavano mica a nessuno dei bulldog che lui aveva visto, ma si vergognava di dirle che, in realtà, uno così lui non lo voleva. La donna prese su un cucciolo, disse: "Tieni" e glielo consegnò.
Non aveva mai tenuto in braccio un cane e temeva che gli scappasse via, allora se lo strinse al petto. Lo sentì calduccio sulla pelle, molto morbido e un tantino disgustoso, ma in un certo qual modo eccitante. Aveva gli occhi grigi, come due bottoncini. Gli seccava che sull'Enciclopedia del sapere non ci fosse la foto di un cane di quel tipo. Un vero bulldog ha un che di rude e pericoloso, ma quelli lì erano solo dei cagnetti marroni. Seduto sul bracciolo di una poltrona imbottita, verde, con il cucciolo in grembo, non sapeva come comportarsi. La donna intanto gli si era avvicinata e a lui era parso che gli accarezzasse i capelli, ma non ne era sicuro perché li aveva molto folti. Via via che i secondi passavano, ticchettando, lui percepiva sempre più l'indecisione. Poi la donna gli chiese se gradiva un bicchier d'acqua, e lui disse di sì, e lei andò alla cannella e fece correre dell'acqua, il che a lui diede modo di alzarsi in piedi e deporre il cucciolo nello scatolone. La donna tornò, gli porse il bicchiere e, quando lui lo prese, mollò i lembi della vestaglia, scoprendo le tette simili a due palloncini un po' sgonfi, dicendo che non riusciva a credere che avesse solo tredici anni. Lui bevve l'acqua a grandi sorsi e le stava restituendo il bicchiere, quando quella attrasse verso di sé la sua testa e lo baciò. Chissà perché, in quel frattempo, lui non era stato capace di guardarla in faccia, e adesso che avrebbe voluto non riusciva a vedere che una massa sfocata e i capelli. Lei allungò le mani su di lui e, tutta fremente, cominciò a smaneggiare cominciando dall'interno delle cosce. Quel non so che si faceva sempre più acuto finché fu - quasi - come quella volta che, per svitare una lampadina fulminata, aveva sfiorato un filo scoperto. Non sarebbe mai riuscito a ricordare come fosse finito lungo steso sul tappeto, gli restava semmai la sensazione di una cascata d'acqua che si era abbattuta su di lui. Ricordava di essere entrato nel calore di lei e che la testa gli sbatteva ripetutamente contro la zampa di un divano. Fu solo quando era già quasi arrivato a Church Avenue, dove doveva cambiare e prendere la soprelevata, che si rese conto che la donna non aveva voluto i tre dollari, non ricordava di aver acconsentito ma, adesso, aveva sulle ginocchia una scatola di cartone con dentro un cagnolino che guaiva. Al grattare degli unghioli sul cartone gli corse un brivido giù per la schiena. La donna - ricordò adesso - aveva praticato due fori sul coperchio e il cucciolo provava a infilarci la punta del muso.
Sua madre sobbalzò quando lui sciolse lo spago e il cagnetto saltò su e si arrampicò fuori, abbaiando. "Cosa fa?" strillò agitando le mani per schermarsi come se il cucciolo stesse per attaccarla. A quel punto, lui non ne aveva più paura, e lo prese in braccio lasciando che gli leccasse il viso. Vedendo ciò, sua madre si era calmata un poco. "Avrà fame?" domandò e stava a bocca leggermente aperta, pronta a tutto. Lui depose il cagnetto sul pavimento e disse che probabilmente, sì, aveva fame, ma secondo lui poteva mangiare solo cose molli, sebbene i dentini fossero aguzzi come spille. Lei allora tirò fuori una ricotta e ne mise un pezzetto per terra, ma il cagnetto dopo averla annusata ci fece pipì. "Dio del cielo!" lei gridò e ci stese subito sopra un foglio di giornale, per assorbirla. Quando sua madre si chinò a quel modo, lui ripensò al calore della donna e, pieno di vergogna, scosse la testa. D'un tratto gli tornò in mente il nome - Lucille -, così gli aveva detto di chiamarsi, mentre stavano stesi sul tappeto. Proprio quando lui stava scivolandole dentro, lei aveva aperto gli occhi e aveva detto: "Mi chiamo Lucille". Intanto sua madre aveva tirato fuori una ciotola di tagliolini avanzati e la depose in terra. Il cagnolino sollevò una zampetta e ribaltò la ciotola, versando un po' del brodo di pollo che stava in fondo. Si diede a leccarlo avidamente, sul linoleum. "Gli piace il brodo di pollo!" esclamò sua madre tutta allegra, quindi decise, immediatamente, che avrebbe certo gradito un uovo, e mise a bollire dell'acqua. In qualche modo il cucciolo aveva capito che era a lei che bisognava star appresso, quindi la seguiva, passo passo, avanti e indietro dalla fornelliera alla ghiacciaia. "Mi viene dietro!" disse sua madre, ridendo contenta.
Il giorno dopo, all'uscita da scuola, si fermò dal ferramenta e comprò un collarino per cani di piccola taglia, da settantacinque cent, e il signor Schweckert gli regalò un pezzo di cordone a mo' di guinzaglio. Ogni sera, prima di addormentarsi, pensava a Lucille come si tira fuori qualcosa di prezioso da uno scrigno segreto, e si chiedeva se avrebbe trovato il coraggio di telefonarle e, magari, andarla di nuovo a trovare. Il cagnetto, cui aveva messo nome Rover, sembrava crescere a vista d'occhio, di giorno in giorno, anche se non dava alcun segno di somiglianza con un bulldog. Secondo il padre del ragazzo, Rover avrebbe dovuto abitare in cantina, ma forse si sentiva solo soletto laggiù perché non la smetteva di abbaiare. "Ha nostalgia della mamma," diceva sua madre, sicché ogni sera il ragazzo lo metteva a nanna in una vecchia cesta giù in cantina ma poi, quando aveva abbaiato abbastanza, lui aveva il permesso di portarlo in cucina e lasciarlo dormire lì, su un mucchietto di cenci, e per tutti il silenzio era un sollievo. Sua madre aveva provato a portare il cagnetto a passeggio per le strade più tranquille del quartiere, ma quello si ostinava a intralciarla, a intorcinarle il guinzaglio intorno alle caviglie, tanto che lei, temendo di fargli male, si spossava a furia di seguirlo nel suo frenetico zigzagare. Non accadeva sempre, ma spesso, quando guardava Rover, il ragazzo ripensava a Lucille e gli pareva quasi di sentire il suo calore. Si sedeva su un gradino della soglia e accarezzando il cane pensava a lei, all'interno delle sue cosce. Tuttora non riusciva a rievocare il suo viso, solo i lunghi capelli e il collo robusto.
Un giorno sua madre preparò una torta al cioccolato e, toltala dal forno, la mise a raffreddare sul tavolo in cucina. Era spessa almeno quindici centimetri, e doveva essere proprio squisita. Lui si dilettava molto a disegnare in quel periodo, disegnava cucchiai e forchette o pacchetti di sigarette o, talvolta, il vaso cinese su cui era raffigurato un drago, insomma qualsiasi cosa che avesse una forma interessante. Così quel giorno, dopo aver messo la torta su una sedia accanto al tavolo, si sedette a disegnare per un po', poi uscì all'aperto e, per chissà quale motivo, si occupò dei tulipani piantati in autunno che cominciavano a germogliare. Poi gli venne il ghiribizzo di andare a cercare una palla da baseball, praticamente nuova, che era andata smarrita l'estate scorsa e che, lui era certo, o quasi, doveva trovarsi in cantina dentro uno scatolone. Non vi aveva mai frugato fino in fondo poiché, sempre, era stato distratto dal ritrovamento di qualcos'altro che non ricordava di averci messo. Si accingeva a scendere in cantina dall'ingresso esterno, nel cortile posteriore, quando notò che sul pero, da lui piantato un paio d'anni prima, era sbocciato un fiore, o quel che sembrava un fiore, su uno dei rami più sottili. Se ne stupì e si sentiva orgoglioso: era un successo. Aveva pagato trentacinque cent il piantime di quel pero, in Court Street, e trenta cent per un melo che aveva piantato a un paio di metri di distanza, con l'intento di appendervi un'amaca, un giorno. Forse l'anno venturo: gli alberelli erano ancora troppo esili. Amava sempre rimirarli, perché li aveva piantati lui, e aveva la sensazione che loro, in qualche modo, sapessero che li stava guardando, e persino che, a loro volta, lo guardassero. Il cortile posteriore confinava con la palizzata, alta quasi dieci metri, che circondava un campo da baseball, l'Erasmus Field, dove giocavano, nei weekend, squadre di semiprofessionisti e dilettanti, squadre come la House of David e i Black Yankee o come quella in cui giocava Satchel Paige, celebre come uno dei più grandi lanciatori del paese, tranne che, essendo nero, non poteva giocare nei grandi campionati, ovviamente. Quelli della House of David avevano tutti la barba lunga - non aveva capito mai perché, lui: forse erano ebrei ortodossi, sebbene non ne avessero l'aspetto. Certe volte una palla fallosa, scagliata troppo forte dal lato destro del campo, poteva cadere lì nel cortile. Era quella, appunto, la palla che gli era venuta voglia di andare a cercare, ora che con l'arrivo della primavera il clima andava facendosi mite. In cantina si diede a frugare nello scatolone e immediatamente lo stupì constatare quanto fossero affilati i suoi pattini da ghiaccio. Ricordò che un tempo usava una morsa per tenerli saldamente a fianco a fianco di modo che si potesse passare sulle lame una mola. Buttò da parte un logoro guantone da esterno e un guanto da portiere di hockey, il cui compagno non si trovava più, alcuni mozziconi di matita, un astuccio di pastelli, un pupazzo di legno le cui braccia, tirando uno spago, battevano come ali. A un certo punto udì il cagnetto abbaiare, su in casa, ma non era il suo solito bau bau: era ininterrotto, molto stridulo e forte. Corse di sopra e vide sua madre che scendeva dal piano di sopra, la vestaglia svolazzante dietro di lei, e sul viso un'espressione di paura. Udiva gli unghioli del cagnetto raspare sul linoleum. Si precipitò in cucina. Il cagnetto stava correndo torno torno, in cerchio, e sembrava strillare. Il ragazzo vide subito che aveva il ventre gonfio. La torta era in terra... quel poco che ne restava. "La mia torta!" gridò sua madre, e raccattò il piatto con gli avanzi levandolo in alto come per salvarlo dal cagnetto, sebbene non restasse quasi niente. Il ragazzo fece per acchiapparlo, ma Rover gli sgusciò tra le mani e corse in soggiorno. Sua madre dietro, urlando: "Il tappeto! ". Rover badava a correre, descrivendo un cerchio più grande, ora che aveva più spazio, e una schiuma gli colava dalle fauci. "Chiama la polizia!" gridò sua madre. D'un tratto, il cagnetto ruzzolò e, giacendo su un fianco, ansante, emise flebili guaiti a ogni respiro. Siccome non avevano mai avuto un cane, e non sapevano nulla dei veterinari, il ragazzo cercò sull'elenco il numero della Protezione animali e la chiamò. Adesso aveva paura di toccare Rover perché il cagnetto faceva subito per mordergli la mano, se gliel'avvicinava, e poi gli colava quella brutta bava dalla bocca. Quando il furgone arrivò davanti a casa, il ragazzo corse fuori e vide un uomo giovane che prelevava una piccola gabbia dal retro. Gli disse che il cane si era mangiato praticamente un'intera torta, ma l'uomo non faceva mostra di alcun interesse e, entrato in casa, guardò un momento Rover che adesso emetteva fievoli guaiti, steso sempre su un fianco. L'uomo calò una rete su di lui e quando lo infilò dentro la gabbia il cagnetto fece per rizzarsi e scappare. "Cosa pensa che gli sia preso?" domandò sua madre, con la bocca contratta dallo schifo, che ora anche il figlio provava. "Gli ha preso che ha mangiato la torta," disse l'uomo. Portò quindi fuori la gabbia e dal portello posteriore la infilò nell'oscurità del furgone. "Che cosa ne farete di lui?" domandò il ragazzo. "Lo rivolete?" chiese a sua volta, brusco, l'uomo della Protezione animali. Sua madre, che stava sulla soglia, lo udì. "Non possiamo tenerlo qui," rispose gridando, con voce di spavento e decisione. Poi avvicinandosi soggiunse: "Non lo sappiamo, noi, come tenere un cane, Qualcuno, che forse se ne intende, lo vorrà prendere". Il giovanotto annuì, senza alcun interesse, né in un senso né nell'altro, si sedette al volante e mise in moto.
Il ragazzo e sua madre seguirono il furgone con lo sguardo finché non fu scomparso dopo la curva. In casa, c'era di nuovo un silenzio di tomba. Non bisognava più preoccuparsi che Rover sporcasse i tappeti o li rovinasse con gli unghioli o mordicchiasse i mobili, o se avesse sete o fame. Rover era la prima cosa di cui lui si dava pensiero, ogni giorno, al mattino appena sveglio e tornando da scuola, e aveva il costante timore che il cagnotto avesse combinato qualcosa che desse noia a suo padre o sua madre. Adesso, tutta questa ansietà era scomparsa e, insieme con essa, il piacere, e c'era un gran silenzio in casa.
Tornò in cucina e, seduto al tavolo, pensava a cosa poteva mettersi a disegnare. Raccattò il giornale che giaceva su una sedia, lo sfogliò e lo sguardo gli cadde su una réclame delle calze Saks, in cui una donna solleva la gonna per mettere in mostra le gambe. Cominciò a ricopiare quella e, di nuovo, pensò a Lucille. E se le avesse telefonato, eventualmente, si chiese, per fare un'altra volta quel che avevano fatto? Tranne che, sicuramente, lei avrebbe chiesto di Rover, e lui allora non avrebbe potuto far altro che mentirle. Ricordò come aveva cullato il cagnetto fra le braccia e lo aveva perfino baciato sul muso. Gli voleva davvero un gran bene, a quel cucciolo. Come dirle che era scomparso? Seduto li, pensando a lei, se lo sentiva venir duro come un manico di scopa e, allora, a un tratto pensò: Metti che le telefono e le dico che i miei vorrebbero un altro cucciolo per tenere compagnia a Rover? Ma, in tal caso, avrebbe dovuto fingere che Rover ce l'avesse ancora... E ciò significava due bugie, cosa che lo spaventava non poco. Non tanto mentire, quanto tener presente, prima cosa, che aveva ancora Rover e, seconda, che diceva sul serio riguardo al secondo cucciolo, e poi, terza - la cosa peggiore - che, quando si staccava da Lucille, avrebbe dovuto dirle che purtroppo non poteva in realtà prenderlo un altro cucciolo, perché... Perché mai? Al pensiero di tutte quelle bugie, si sentiva esausto. Poi si immaginò, visivamente, di trovarsi di nuovo dentro il caldo di lei e gli parve che la testa gli scoppiasse e pensò che, finita la faccenda, Lucille insistesse perché lo prendesse, un altro cucciolo. Che lo costringesse a pigliarlo. Dopotutto, non li aveva voluti, i tre dollari, e Rover gliel'aveva regalato, praticamente - pensò. Sarebbe stato molto imbarazzante rifiutarlo, dal momento soprattutto che era questo il motivo - dichiarato - per cui era tornato da lei, esattamente. Non se la sentiva proprio di affrontare tutto questo, e scartò l'idea. Ma poi, furtivamente, il pensiero ritornò... a lei che giaceva a gambe aperte sul tappeto... e lui tornò, allora, a escogitare qualche scusa per non farsi dare un altro cucciolo, dopo aver fatto quel po' po' di strada, da Brooklyn fin là, apposta per averlo. Gli pareva di vederla, la faccia che Lucille avrebbe fatto di fronte al suo rifiuto d'un cucciolo, quell'espressione di sgomento o, peggio, di rabbia. Sì, poteva benissimo arrabbiarsi, leggendogli dentro, qualora avesse intuito che il cagnetto era una scusa e, se lui era venuto, era solo per entrare dentro di lei, e allora... si sarebbe magari sentita insultata. L'avrebbe preso a schiaffi, forse. Che fare allora? Non poteva mica mettersi a lottare con una donna grande. Poi gli venne in mente, a quel punto, che lei poteva averli già venduti, e tutto, gli altri due cuccioli. A tre dollari erano a buon mercato, in fin dei conti. E allora?... Metti, pensò a quel punto, che tu le telefoni e le dici che ti piacerebbe tornare a trovarla, senza neppure menzionarli, i cuccioli? Avrebbe dovuto, così, raccontarle una sola bugia: che Rover ce l'aveva ancora e che tutti quanti, a casa, gli volevano bene e via dicendo. Non era difficile tenere a mente una cosa del genere. Andò al pianoforte e strimpellò alcuni accordi in chiave di basso, per calmarsi. Non sapeva suonare, in realtà, ma gli piaceva inventare degli accordi e lasciare che le vibrazioni gli salissero su per le braccia. Suonò, e aveva la sensazione che qualcosa dentro di lui si staccasse dal resto o che, addirittura, crollasse. Si sentiva diverso da come era sempre stato, non vuoto come prima, non più limpido ma gravato da pensieri e dalle sue bugie - alcune dette, altre sottaciute -, ma il tutto sufficientemente disgustoso da escluderlo dalla famiglia, e porlo in un luogo leggermente distaccato da dove poteva guardarli, adesso, e guardare se stesso con loro. Cercò di inventare una melodia con la mano destra e trovare adeguati accordi con la sinistra. A caso, per pura fortuna, stava suonando qualcosa di bello. Era stupefacente come gli accordi, pur essendo leggermente stonati e benché avessero un che di dissonante, tuttavia accompagnassero la melodia della mano destra, e parlassero con essa. Sua madre entrò nella stanza, piena di stupore e piacere. "Che succede?" esclamò, deliziata. Lei sapeva suonare e leggere lo spartito e aveva cercato di insegnarglielo, senza riuscirci, poiché - ne era convinta - il ragazzo aveva un orecchio talmente buono che preferiva suonare, appunto, a orecchio, piuttosto che darsi la briga di leggere le note. Si avvicinò al pianoforte e, in piedi accanto a lui, gli guardava le mani. Sbalordita - desiderando, come sempre, che egli fosse un genio - si mise a ridere. "Stai improvvisando?" gridò quasi, come se fossero seduti, l'uno accanto all'altra, sulle montagne russe. Lui poté solo annuire, non osando parlare e, forse, perdere ciò che aveva in qualche modo colto al volo - scippato all'aria, quasi - e rise con lei, poiché era felice, felicissimo, di essere mutato, segretamente, e al tempo stesso si sentiva insicuro: chissà se sarebbe mai riuscito a suonare di nuovo così.



(Tratto da Storie, antologia a cura di Nadine Gordimer, Feltrinelli editori, Milano, 2005.))


Arthur Miller


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