Le piccole gioie (2)


Anna Rheinsberg



Una domenica arrivò la nebbia sul ciliegio. Io sedevo con le gambe piegate, leggevo un libro di ricette. Stavo riflettendo intorno ai carciofi. Ero pallida, avevo le occhiaie e una piccola bolla dolorosa sulla lingua. Era nevicato. Avrei volentieri baciato qualcuno. Il latte era finito. I carciofi ghignavano. Li avrei speziati con la menta e l'aglio. Un sapore sordo in bocca. Acetosa. Contavo caparbiamente le macchie brune sul dorso della mia mano. Dovevo andare alla buca delle lettere. La nebbia entrò dalla finestra aperta e mi si posò sopra. "Povera donnicciola", disse.
"Non è vero", dissi io respingendola. Ma la nebbia si fece largo e mi spinse sul bordo. Caddi dal letto, urlai e risi.
"Guardati, nessuno ti bacia. Assomigli a una vespa. Mangia l'uvetta", disse la nebbia. "Vedrai che aiuta".
Fuori per strada non si vedeva piú il cielo. Una cornacchia morta era infilzata nella recinzione. Apparve il cane del vecchio Jung. Trotterellava sul rigagnolo, emise un breve ringhio fioco. Una macchina si avvicinava di soppiatto. Era il primo giorno di dicembre. La nebbia si dissolse. Scivolai a piedi lungo la via. La BMW verde di Ruby era nel parcheggio. Sulle guglie della chiesa gotica pendevano delle nuvole. Davanti alla drogheria incassai la testa nelle spalle. Sopra una grondaia stava rannicchiato un angelo magro, la sua ala destra era sporca, piena di neve e di escrementi d'uccello. L'angelo era infreddolito e fumava un cigarillo, guardava schifato i tossici che chiedevano l'elemosina sulla porta della chiesa. Le campane battevano, un paio di venditori aprivano le loro bancarelle. Carabattole dal terzo e dal quarto mondo. Non andavo mai al mercatino di natale di piazza Firmenei. La baracca delle salsicce alla griglia fumava, un'orchestrina di fiati attaccò a suonare. Berber e i vip locali della SPD facevano baruffa sulle assi del palco. Grande viaggio d'esplorazione. "Lei! Il mio vin brulé". La tombola e gli zingari con un lama rinsecchito e pidocchioso. Vecchi hippies si preparavano la loro razione quotidiana di doping. Bambini ciechi, tra cui una ragazzina con la gonna sollevata per la questua. Stivali allacciati fino al ginocchio e muffa. La giovane Rosa Luxemburg. Gente dei dintorni, la mafia del mercato che controllava le bancarelle, il sindaco che distribuiva volantini. Era mal rasato, un cappotto costoso e troppo grande, la persona che vi stava dentro sembrava non respirare. Cristalli di ghiaccio sui capelli, il naso gocciolante. Offriva dolci e acquavite, faceva freddo. Una mattina miserabile. Feci il giro della chiesa, l'angelo mi strizzò l'occhio. Quando si sollevò, aprí le ali e volò via, la neve mi cadde addosso.
All'angolo di fronte al Theo si trovava la buca delle lettere. E alla sua sinistra un piccolo caffé senza tavolini. Gettai uno sguardo fugace attraverso il vetro. Il pachistano a cui apparteneva il caffé puliva il bancone con un panno. Riconobbi un uomo. Meglio non fissarlo, mi dissi. Begli occhi e nessuno specchio alle pareti. Volevo proseguire, ma mi voltai. Dove era finito il mio guanto sinistro? L'uomo aveva un viso morbido e biondo che sembrava trasognato, tenero, indulgente, serenamente collerico. Beveva caffé da un bicchiere, sollevò una mano. Mi scrutò sonnolento. Mi sentivo in bocca un pesciolino. Il guanto nuovo era ormai perduto. I soldi scarseggiavano, ultimamente avevo speso troppo. Deglutii. Alle mie spalle qualcuno rideva. Non dovevo rimuginare troppo sulla solitudine e sui carciofi. Via, dissi al guanto destro, infilandolo nella buca delle lettere. A un tratto mi venne in mente, aprii la porta del piccolo caffé, mi diressi verso l'uomo addossato al bancone. Aveva le braccia incrociate e una faccia rabbuiata. Sputai il pesciolino nel suo bicchiere di plastica e ci baciammo. Un tempo eravamo stati insieme. Un ragazzo timido e generoso con modi da gatto. Lo avevo amato, ma ben presto anche lasciato. In seguito ci eravamo rivisti un paio di volte, io ero già una studentessa di un'altra città. Incontri che ci deprimevano. Desideri e nuove persone ci separavano, insieme ci sentivamo come in una capanna di frasche. Si rifiutava di parlarmi, era infuriato, rozzo, fascinosamente violento, incredibilmente sensuale. Io mi ritenevo giudiziosa, indossavo a quel tempo giacche fatte a mano ornate di piccole perle, leggevo Hannah Arendt, frequentavo già dal pomeriggio eleganti bar new wave, a rimorchio di americanisti dalle teste rapate.
Tutti volevano girare film, partire per la Cambogia, urlare nelle gallerie d'arte incomprensibili poesie, declamare a memoria l'elenco telefonico di Amburgo, o sbarcare il lunario imbrattando i marciapiedi. Eravamo tutti arrabbiati e tremendamente seri. Scorrazzavamo qua e là, reinventandoci ogni volta da capo a piedi.
Con il ragazzo forte e affamato d'amore non ci vedemmo piú. Stranamente una volta lo sognai. D'estate, un pomeriggio di luglio. Un anno prima che il tale a cui avevo regalato il mio nome sparisse.
Il pomeriggio, prima di sedermi alla scrivania, dormivo e qualche volta sognavo. Sogni di persone che avevo amato e poi perduto, incontri con altre mai conosciute, perfino con animali. Al risveglio succedeva che dopo un periodo di gentile attesa, l'una o l'altra venisse a trovarmi. Continuava ad accadere, a intervalli irregolari, ma io c'ero ormai abituata e non mi spaventavo piú. Confidavo nel loro ingresso nel mio mondo, non domandavo mai perché accadesse. La maggior parte degli incontri era piacevole, le persone mi regalavano felicità, mi facevano riscoprire le cose, nuove prospettive.
Il pesciolino d'argento nuotava nel bicchiere. Il mio cuore batteva forte. Mi sembrava di non apparire piú cosí brutta, il sole si poggiò sulle guglie della chiesa. L'uomo era stanco e le sue mani sporche. Un tempo era ricciuto; adesso era rapato. Ricci come piume, la bocca caparbia. Un labbro inferiore carnoso, il naso largo, sensuale con la sua tacca, le mani piuttosto piccole e dure. Tutto in lui era biondo, ricordavo le sue spalle, le ginocchia, i piedi. Deglutii, desideravo - guardando il bancone spoglio - un mazzo di mimose.
Il profumo di mimose era smoderato. L'uomo trattenne il respiro. Annusava. Avevo imbucato una lettera? Preso le pasticche contro la paura? Era dicembre? Quella sera doveva venire il rifugiato. La lettera era indirizzata all'ufficio delle tasse. Le pasticche non facevano effetto.
Avvertivo l'agitazione dell'angelo su di me, rideva un po' beffardo quando sollevai gli occhi per osservarlo. L'uomo mi baciò, sapeva di erba e di sonno, non si era lavato i denti e allungava il caffé con qualche liquore. Lo afferrai per le spalle, era muscoloso. Lo voltai verso di me, gli domandai: "Stasera?"
I suoi occhi erano azzurri, le sopracciglia pesanti. Aveva ciglia lunghe e ricurve. Chiuse gli occhi e mi strinse a sé. Poi mi respinse. Sollevò le mani in gesto di difesa. Stasera. Disse senza passione o gioia. Aprí gli occhi. Piangeva.
"Sei sola?", domandò.
"Sí."
"Anch'io."
"Perché piangi?", mi domandò asciugandosi con la mano il viso. Pescò una foglia di salvia dalla tasca dei pantaloni, la masticò a lungo, ordinò una vodka. Arrivò quella sera stessa e rimase. Era diventato commerciante. Quell'uomo si trasformava sempre, in un gatto, nel fazzoletto della trousse di nonna Rehlein, che avevo conservato e tenevo nascosto nell'armadio sotto un colbacco russo di pelliccia finemente lavorato. In un mazzo di mimose, nel ragazzo appena ventenne, ricciuto, gentile, mai arrogante, dai bei denti diritti. Era poesia, di indescrivibile rozzezza. Pura malinconia, cosí sensuale e bionda.
Quell'uomo era un incantatore di serpenti, dedito a tutto ciò che incrociava la sua strada. Onesto, incapace di mentire. Era il colore verde, una traccia nell'erba, che io seguivo.
Ci conoscevamo già, sapevamo già molto. Ci forgiammo uno per l'altro, eravamo fragili. Entrambi eravamo stati abbandonati da qualcuno. Se avevamo un dissapore, alla fine ci facevamo un regalo. Eravamo rannicchiati, ciechi davanti alla trincea, nessuno vedeva l'altro, ci urlavamo contro.
Eravamo molto abili a scavare trincee e a seppellire cadaveri. Ce n'erano di ogni genere. Ma ci eravamo amati, ne conservavamo memoria, e decidemmo per la nostra incolumità di trasferirci nella nebbia siderale.
Quell'uomo era senza casa. Senza niente. Non possedeva nulla. La lettera che spedii all'ufficio delle tasse restò per molto tempo l'ultima. Mi comprai un mazzo di mimose, il 24 dicembre partii per la Lüneburger Heide, due giorni dopo per Wuppertal. Da lí andammo insieme in Spagna, girammo il paese in lungo e in largo per due anni. Ritornavamo ogni tanto per qualche settimana o mese, Badenweiler era la frontiera magica. Ben presto però ci rimettevamo in viaggio, inquieti, eravamo un'orchestra polifonica, nel movimento del congedo. Avevamo lo stesso sguardo sbalestrato e riuscivamo a trasformarci. Eravamo entrambi pieni di rabbia e di gioia.
L'essere in cammino era un magnifico esercizio, venivamo trattati gentilmente. Solo una volta venimmo aggrediti, dalle parti di Sète. Un fine settimana, quando un diluvio si aprí sulla piccola stazione balneare francese, inondando le strade e terrorizzando i pochi anziani e i loro cani. Era un luogo morto e orrendo; chiassosi banditi monchi, distese di cemento, infinita spiaggia.
Viaggiavamo su un furgone. Il mio vecchio orsacchiotto Zotty ci accompagnava. Era riuscito a diventare psichiatra, faceva le veci della mia dottoressa T.. Portava una sciarpa bianca alla Heesters, un berretto alla Mao con la stella rossa ed era malridotto. Sedeva allacciato alla cintura tra di noi, un saggio orsetto pieno di spirito, dolce e delicato. Il grigio dell'aurora. Zotty aveva due occhi nuovi, non poteva lamentarsi. Eravamo felici e camminavamo molto.
Parlavamo con deliziate voci chiare, ci inventavamo incantesimi e miracoli. Avevamo talento. Mangiavamo, bevevamo, ci amavamo, dormivamo. Incontravamo persone, paesaggi, storie; conoscevamo le regole del gioco ed eravamo fedeli a noi stessi. Ricominciai a scrivere. All'orsacchiotto non gliene importava nulla, sarebbe voluto volare insieme a noi a Shangai. Ma Shangai era troppo lontana. Io scrivevo. Lui sbucciava gamberi, lavava la sua sciarpa bianca e a Tarifa fece segnali di fumo durante una tempesta di sabbia. Verso l'Africa. Là c'è Shangai, disse. Sapevo che telefonava in segreto alla dottoressa T.. Anche la dottoressa T. sarebbe dovuta venire a Shangai. L'orsacchiotto tossiva, si ingozzava a chili di magdalenas.
In Andalusia restammo sulle montagne, dormivamo nei pressi delle dighe, sulla sierra, e a Capileira Zotty si innamorò di una ballerina di flamenco. Indossava scarpe rosse e calze nere. Le americane per cui ballava camminavano sui tavoli e sulle panche. Un'orda di amazzoni cicciottelle che urlava a gola spiegata, in sgargiante tenuta sportiva, con pesanti stivali da montagna ai piedi, accalcandosi verso il palco. L'inorridito chitarrista si sforzava di continuare a suonare, il cantante proseguiva stoicamente il proprio lamento con la sua voce profonda e rauca. I rari uomini in sala si tenevano istintivamente lontani, inchiodati alle pareti. I sudati maschi andalusi fissavano le americane. La loro accompagnatrice urlava sventolando selvaggiamente una bandiera. La ballerina venne strappata al palcoscenico, trasportata sulle braccia, lanciata da una parte all'altra, riempita di baci. Le calze strappate, le scarpe smarrite. Era una donna alta dai lunghi capelli corvini, il viso smagrito e pallido. Sicuramente aveva tre figli da sfamare, non era piú giovane e si era immaginata diversamente la serata. L'orda ora ballava, una nera si strappò letteralmente di dosso il reggiseno. Donne ansimanti. Urla. Ayya Ya. A piú voci, penetranti e continue. Chitarrista e cantante avevano trovato salvezza dietro il palco. Noi restammo impalati, ridevamo. Ma non c'era niente da ridere. Finché un barista non stappò una bottiglia di spumante. Dal fianco, come un pistolero. Lanciò altre bottiglie agli uomini, i quali cominciarono a gridare a loro volta, correndo, stappavano al galoppo, versavano il liquido dolce e colloso in mezzo alle americane, sui loro corpi e sui loro visi. La luna era alta, una luna rotonda e chiara.
La ballerina di flamenco singhiozzava, era infuriata. Capileira giaceva bianca e silenziosa, a 3000 metri di quota. Un mulo risaliva da solo il vicolo, Ci mettemmo a sedere nel piccolo parco davanti a una casa dalle persiane verdi, respiravamo l'aria rarefatta pensando a quel pulviscolo umano. Eravamo due granelli di polvere, Zotty era un orsacchiotto. Aveva una calza nera intorno al collo e i suoi occhi luccicavano.




Traduzione di Antonello Piana.




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