Le piccole gioie (1)
Anna Rheinsberg
Dopo che il tale a cui avevo ceduto il nome si fu volatilizzato cominciai a bere.
Avrei anche potuto mangiare cavallette. Era una bella estate e ogni tanto andavo
dai rocker. Avevano una bottega di tatuaggi giú al fiume. Dovevo
solo uscire di casa e scendere la strada. Sedevo insieme a Ruby, il quale sapeva
raccontare storie tristi. Era simpatico e non stupido. Due quintali d'uomo con
lunghi capelli biondi cenere. Gli mancava un pezzo del mignolo sinistro. "Vuoi
ballare?", domandava appena mi vedeva. Ruby sedeva su una sedia davanti alla
porta della bottega. Le giornate erano calde, i ratti nuotavano tra le ninfee.
C'era odore di cellulosa e asfalto, gli uomini in giacca di pelle erano sempre
chini sui loro motori. Non mi rivolgevano mai la parola, accennavano solo con
la testa. Mi tolleravano. Abitavo nei dintorni, mi conoscevano di vista. Percorrevo
in bicicletta tutti i giorni quella strada lungo il fiume per andare in città.
Per Ruby lavoravano cinque polacche. Aveva un appartamento fuori dal centro. In
un casermone di cemento a ridosso dell'autostrada, vi abitavano zingari, ogni
genere di russi, donne da cui venivano i GI neri, quando a trenta chilometri di
distanza c'erano ancora caserme, AFN e lavoro da Buderus. Non proprio una bella
zona. Ruby mi ci invitò. "Tu guardi", disse "e poi scrive
qualcosa". Ma io non ne avevo voglia. Leggevo ma avevo smesso di scrivere.
Ruby in verità si chiamava Pjotr. Mi piaceva il suo viso biondo e lentigginoso.
Sulla spalla portava un tatuaggio con una testa di Gesú. Aveva diciannove
anni, quando rideva sollevava le mani, scuoteva la capigliatura e mostrava i denti.
Aveva denti grandi e scuri, cariati, i buchi riempiti d'oro. La maggior parte
del tempo se ne stava per conto suo: "Non pensare che me la faccio con loro",
diceva "fanno la loro parte e io la mia". "E per il resto?",
domandai senza avere davvero voglia di sapere, perché sarei potuta passare
per una delle sue e insieme luccicavamo al sole. Piccole onde sciabordavano contro
la riva. "C'ho un cobra, l'ho comprato l'anno scorso. Il resto sono affari". "Per
chi?", domandai. "Senti qui", e ticchettò con un dito
contro uno dei suoi canini. Lavoro ineccepibile. Assentii con la testa. Sorrideva.
"Ti dico chi è stato. Se ne hai bisogno. Chiedi a me. Dò una
mano a te". "Devo fumare", dissi paralizzata. "Lo so",
Ruby si aprí una lattina di birra "ti ammazza. Ma tu non ascolti".
Aveva una voce gradevole, calda e rotta.Bevevo succo di pomodoro, té
verde, molta acqua e la sera gin. La mia vita era stata distrutta da un giorno
all'altro. Senza preavviso o un sogno che mi avesse fatto spaventare e il giorno
dopo reagire di conseguenza. Niente andava come avrei voluto. Riordinai quel che
era rimasto nelle stanze. "Tutta la merda di vent'anni", singhiozzavo. "Cosa
ti costa?", Ruby rideva "butta via". Inciampavo nella spazzatura,
montagne tutto intorno. Il tale se ne era andato, io lavavo il pavimento senza
soste e sembravo un cadavere. Dappertutto ombre, il suo vecchio ombrello,
foto, vasetti di zenzero, pasticche, calze, tubetti secchi di colore. I dischi
dei Doors, pagelle di scuola, lettere. Gli attrezzi se li era portati via. Mi
dondolavo sul ramo del susino, dimentica dell'invasione delle zecche. Il cielo
era vasto, azzurro, inafferrabile. Ero troppo piccola, scalza, polverosa, assetata.
Tutto restava invisibile dietro al ciarpame e alla rabbia. Dove andare? La rabbia
si insinuava attraverso le conserve, svolazzava insieme ai merli. La rabbia
era consolante. Cominciai a buttare via delle cianfrusaglie, ma non diminuiva.
Di notte sognai di passeggiare con un grosso gallo variopinto. Parlavamo attraverso
una canna da zucchero, il gallo raspava nella sabbia, trovò una lucertola
minuscola e me la poggiò sul collo. "Sei divertente", mi disse
la lucertola. Mangiammo riso e fagioli e curiose banane piccanti in una baracca.
Giove pendeva sul colmo del tetto e a un certo punto cadde giú. Il gallo
svolazzò via. "Lo cuciniamo domani", sentii. Una porta sbatté
al vento. Mi svegliai, ero sola. Mi facevo enorme pena, avrei volentieri appiccato
un incendio. Ruby mi consolava, appoggiato al muro di casa, la vecchia BMW verde
accanto a sé. Mi osservava compassionevole, bevendo una birra. Stiracchiò
i muscoli del braccio destro, si mise un dito in bocca masticando. "Presto
andrà meglio", disse Ruby. Si grattò la spalla. Nel fiume scorreva
della legna. "Cuba", disse Ruby. "Ci sei mai stata?". Sussurrai
desideri e mi lamentai dei soldi, delle troppe sigarette che fumavo. Il mio cuore
batteva rumoroso, non possedevo nulla. Solo quella voce graffiante e un po' di
cervello. Gozilla con un cappello di rose. La notte mi alzai, il gin era
fallace, fissavo gli alberi dalle finestre, la luna splendeva. La luna splendeva
sempre, tutte le notti. Grassa e priva di consolazione. Ero una nuvola carica
di gin e di pioggia. I caprioli tossivano. Correvano intorno alla casa. L'erba
cresceva, i porcospini sgranocchiavano. Non passava nessuno. Non mi spogliavo
nemmeno per andare a letto. Troppa fatica. Giacevo sull'impiantito con una sigaretta
in bocca. Parlavo con la siepe di rose, chiamavo regolarmente mia madre alle quattro
di mattina. Le rose erano fiorite generosamente quell'anno. Cominciai a dimagrire,
ad avere crisi di sudore, di crampi al polpaccio, di malinconia. Buttavo via quel
che trovavo. Non mi lavavo. Il tale si era trasferito tre strade piú
avanti, mi aveva detto qualcuno. Andavo da una psichiatra, dopo la mezzanotte
correvo al suo posto di lavoro, mi sedevo sulle scale, lasciavo sempre qualcosa,
sale, una maschera da tigre di gomma, scritte, vecchi biglietti del treno, capelli
del cane di Ruby e merda avvolta in un fazzoletto. Batista bianca con monogramma.
Residui di una zia non amata. Il fazzoletto apparteneva a mia suocera. Perché
me lo aveva regalato? Io la disprezzavo e lei contraccambiava. Suo figlio sarebbe
dovuto diventare prete o diplomatico, in ogni caso non avrebbe mai dovuto incontrarmi.
Era una donna fredda come il ghiaccio, pia e arida. Il suo sogno era di insegnare
l'alfabeto a bambini neri storpiati dalla lebbra in una foresta. Invece aveva
sposato un omosessuale e messo al mondo due figli. I figli non riuscivano a reggerla.
La batista restava indifferente a tutto quello che le accadeva intorno. Lei mentiva,
non mostrava mai vergogna, non faceva regali. Era in salute, dedicava il tempo
libero alle donne maltrattate. La sua ossessione era fare del bene. Ovvio che
in tal modo ne faceva soprattutto a sé stessa. La batista preferiva le
gonne delle ragazzine, esultava per la miseria degli altri in giro per il mondo. Le
piaceva ogni genere di disgrazia, non riusciva a passare diritta. Era come se
le portassero il menu e lei ordinasse sempre la blatta finita accidentalmente
sotto il vasetto della maionese. Coltivavamo una diffidenza reciproca e ci detestavamo
profondamente. Mi comprai una barchetta con la quale cominciai a uscire
sul fiume. Il cane di Ruby batteva le zampe accanto a me, completamente assorto
dai ratti. Non seppi piú nulla del tale, nei cui avanzi rovistavo come
in un bidone della spazzatura. Mezza morta per lo spavento dovuto alla sua scomparsa.
Solo dopo che l'ufficio delle tasse ebbe spedito delle lettere a cui non risposi,
si fece vivo. Era un'estate gradevole e silenziosa. Restai rigida, muta, bramosa
di consolazione, avevo perso ogni capacità di ammaliare. La psichiatra
mi parlava di felicità, discutevamo della bellezza, di Anne Sexton e dei
fiori che la dottoressa T. comprava da Aldi. Le regalai uno dei miei libri. Era
femminista, o almeno credo, freudiana. Mi consigliò di lasciare l'appartamento
e di ricominciare a scrivere. Aveva i capelli rossi e indossava vestiti flosci
che le cadevano addosso. Le dissi che avrei voluto un uomo che fosse mia moglie.
Volevo un uomo con la clitoride. Lei non sorrideva, girò per un attimo
la testa, guardò fuori dalla finestra. Strizzò gli occhi. "Ma
sí", disse "perché no? Lei troverà un uomo. Un
uomo con la clitoride. È importante?" Era miope e terribilmente magra. "Sí",
dissi io, ammiccando alla pianta di narcisi con la quale Anne Sexton si accingeva
a mettersi all'opera. "Sarà impaziente", disse la psichiatra.
"Forse collerico. E affamato". "Sarà come lo vorrò",
dissi io impaziente. La psichiatra dondolava leggermente il piede. Ammiravo le
sue scarpe. Le sue scarpe erano incredibili. Ogni volta che venivo ne indossava
un paio diverso. E ogni volta restavo attonita. Andavo volentieri da lei. A un
certo punto smisi di portare merda davanti all'ufficio del tale che mi aveva lasciato,
o sacchetti di sale, biglietti scaduti, guanti gialli. Lo avevo lasciato a mia
volta. Abitavo in una casa al limitare del bosco, incapace di andarmene, e
mangiavo cavallette. Niente era come avrei voluto. Avrei voluto appiccare un incendio. Appiccare
un incendio. Avrei volentieri ucciso. Si dice per dire e si scrive ancor piú
facilmente. Non volevo piú baciare nessuno. Ci si abitua presto al gin.
Mi costrinsi a cucinare almeno una volta al giorno un piatto caldo. La maggior
parte delle volte cucinavo la sera, prima di mettere il ghiaccio nel bicchiere
e di prendere la bottiglia dal frigo. Ero troppo occupata con me stessa, impacciata
e confusa, detestavo la mia debolezza e quel dolore che mi dava la nausea. Ero
uno spazio vuoto, vi era in me una vaga speranza, e ogni qual volta tagliavo delle
verdure o sbucciavo un uovo mi coglievano le risa, un muggito troppo fragoroso,
beffardo e ripugnante, che sorgeva dal mio interno mentre mi dibattevo in una
voragine, mi riempivo la bocca di lerciume, masticavo, pensavo cose terribili.
Per calmarmi fumavo. Conobbi una donna che si innamorò di me e andavo
a letto con un asilante. Era giovane, forte, bello e morto prima del mio tempo.
Ci frequentammo per sei mesi. Il muggito ebbe fine, per contro talvolta perdevo
i sensi. Uscivo regolarmente di notte, pattugliavo le strade. Il rifugiato aveva
denti stupendi, sorrideva mentre mi amava. I suoi occhi erano grandi, scuri, non
mi abbandonavano mai. Mi parlava in una lingua sconosciuta e io nel buio mi sentivo
protetta. Arrivò ottobre, Pjotr ormai lo vedevo di rado. Continuavo
a non riuscire a scrivere. Sedevo spesso per ore su uno sgabello alla finestra,
fumavo, fissavo inerte la notte. Ogni tanto scrivevo qualche riga, niente di particolare.
Messaggi fugaci, parole. Non seguivo alcuna logica, sulla carta si stendeva un
ritmo ambiguo, umorale, un'infinita lagnanza. Autocommiserazione, inganno e gin.
Di tanto in tanto mi riusciva qualcosa, un pensiero che otteneva struttura, una
struttura che però non mi piaceva, perché vi avevo vissuto troppo
a lungo senza ricavarne nulla. Diffidavo della musicalità, che lo volessi
o no precedeva la scrittura e la seguiva. L'oscurità non mi spaventava,
continuavo avidamente le mie pattuglie notturne. Non cercavo nulla, men che meno
di fare qualche conoscenza. Pedalando nella notte inventavo parole. Inventavo
paesaggi e tonalità. Il colore rosso si siedeva sul portapacchi alle mie
spalle, talvolta un verde. Il blu e il giallo li apprezzavo meno. Vidi la città
di Volterra e davanti a me il viso del profugo, sagoma di un salice nei pressi
del fiume. Un sole precoce sfigurava il suo viso. Gridò il mio nome ma
io ero già lontana, continuavo a pedalare. Lungo il vecchio cimitero verso
un quartiere della città ancora piú quieto, paesano. Ero felice
del verde e del rosso, io e le parole eravamo tutt'uno. Quando rientravo, la casa
se ne stava per conto suo. Non mi salutava. Il profugo dormiva. Venne il freddo
e l'aria profumava di mele. Le foglie cadevano dai rami.
Traduzione di Antonello Piana.
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