Il Diavolo in Division Street
Nelson Algren
La
sera di sabato scorso ci fu gran discussione al bar Polonia. Tutti i più grandi
ubriaconi di Division erano là, a cercare di stabilire chi di loro fosse il più
grande di tutti. Symansky diceva di essere lui, Oljiec diceva di essere lui, Koncel
diceva di essere lui e Czechowski diceva di essere lui. Poi entrò Roman Orlov
e la questione fu risolta. Perché il povero Roman è da tanto tempo ubriaco notte
e giorno che, quando pensiamo alla gente viva, quasi ci dimentichiamo del povero
Roman, come se in realtà lui non ne facesse più parte. "Il diavolo vive in
un doppio whisky" spiega Roman confusamente. "Ci ho dentro un verme che continua
a rodere. Ogni giorno io lo affogo e ogni giorno lui rode. Aiutatemi ad affogare
il verme, compagni". Così pagai un doppio whisky al povero Roman e gli chiesi
francamente come mai, prima ancora di avere trent'anni, fosse diventato il più
grande ubriacone di Division. Ci volle molto tempo, e molti whisky doppi,
prima che raccontasse la storia. Ma alla fine la raccontò, tra bestemmie e singhiozzi,
e io ve la ripeto il più fedelmente possibile. Senza i singhiozzi, naturalmente.
E naturalmente senza bestemmie. A quanto pare, Roman aveva tredici anni quando
gli Orlov andarono ad abitare in tre stanze, riscaldate da una stufa, sul retro
di un casamento malandato di Noble Street. Mamma O. cucinava di giorno in un ristorante
di Division Street e cucinava di notte in casa sua. Papà O. di notte raggranellava
qualche soldo suonando la fisarmonica nelle bettole di Division Street e di giorno
dormiva, tutto solo nelle tre stanze. C'erano soltanto due letti nel piccolo
appartamento, e perciò nessuno insisteva perché Papà O. passasse le notti in casa.
Essendo il maggiore dei ragazzi, Roman dormiva tra i gemelli, nel letto sistemato
nella prima stanza, per impedire che durante la notte i due si prendessero a pugni
come facevano durante il giorno. Teresa, che aveva undici anni e non era brava
come certe sue compagne a imparare le lezioni, dormiva con Mamma O. nella seconda
stanza, priva di finestre, sotto un cuore sanguinante racchiuso in una dorata
cornice ovale. Papà O., quando rincasava prima dell'alba, come accadeva qualche
volta al principio della settimana, strisciava senza proteste sotto il letto di
Roman e vi rimaneva finché Roman si alzava e svegliava i gemelli, che avevano
sette anni, in tempo per accompagnarli alla messa. Se Udo, che era una via di
mezzo tra un cane da pastore e un san Bernardo ma era grosso come tutt'e due messi
insieme, se ne stava già accucciato sotto il letto della prima stanza, Papà O.
gli assestava un colpo con la fisarmonica, in atto di amichevole rimprovero, e
se ne andava nella seconda stanza a infilarsi sotto il letto di Mamma O. In tal
caso dormiva tutto il giorno sotto il letto. Mai, neppure di giorno, osava entrare
nel letto di Mamma O. Libero o no che fosse. Come se non si sentisse degno di
dormirci, nemmeno quando lei non c'era. Era come se, dopo essersi dato tutta
la notte alla sua fisarmonica, si sentisse in dovere di restarle fedele anche
di giorno. Molte stranezze passavano per la testa di Papà O., e se n'erano
accorti perfino i gemelli. Cose talmente strane che, quando le compagne di Teresa
si sentivano in vena di stuzzicare qualcuno, sapevano bene come farla arrossire.
Questa fu una delle ragioni per cui nessuno, nemmeno i gemelli, fece caso
a Papà O. quando, una domenica mattina, la famiglia ritornò dalla messa e lui
disse che durante la loro assenza qualcuno aveva bussato alla porta. "C'era
qualcuno alla porta" insistette. "Io dico "avanti", e non c'era nessuno". Si volse
a guardare maliziosamente i bambini. "Chi è che fa di questi scherzi a papà?".
"Forse erano gli Zolewitz" suggerì Mamma O. con indifferenza. "Forse Mamma
Z. ha bisogno di farsi prestare qualcosa". Quella notte di domenica non ci
fu angolo della casa in cui non facesse freddo. Papà O. era uscito con la sua
fisarmonica in cerca di spiccioli e di cicchetti, Mamma O. stava friggendo pierogi1,
i gemelli erano a letto e Teresa stava ripetendo il suo catechismo con l'aiuto
di Roman, quando qualcuno bussò leggermente due volte. A Roman parve che
il rumore venisse dalla porta del ripostiglio; ma era sciocco pensarlo, perché
i gemelli erano già a letto. E tuttavia, quando ebbe aperto la porta d'ingresso,
solo il vento freddo entrò nella stanza dal lungo androne illuminato a gas.
Roman aveva solo tredici anni. Non osò guardare dietro la porta, e meno che mai
dentro il ripostiglio. Tutta quella notte cadde una neve leggera. Roman O.
restò sveglio, immaginando di veder nevicare su tutta questa terra misteriosa,
su strade buie, sui tetti aguzzi di città del vecchio mondo, sulle onde dell'Atlantico
alte come montagne e nelle grondaie sbilenche di Noble Street. Stava per cadere
dal sonno quando udì nuovamente bussare. Tre volte, come un cauto avvertimento.
Il ragazzo si irrigidì sotto le coperte e tese l'orecchio, tutto solo con
la sua paura. Udì la porta gemere piano, come se Papà O. stesse entrando di soppiatto.
Ma Papà O. non bussava mai, Papà O. non entrava mai di soppiatto. Papà O. veniva
a casa sbatacchiando la sua fisarmonica contro tutti i muri di Noble Street, facendo
tintinnare fieramente i suoi quattro soldi, stonando alla brava le sue canzoni,
brontolando, ridendo e inciampando. Papà O. non bussava mai. Dava un bel calcio
alla porta e gridava allegramente: "Ehi di casa, come va? Che c'è di nuovo, gente?".
Papà O. era capace di tirare gli altri giù dal letto, stamburava sulle pentole,
rideva per niente e discuteva con baristi invisibili, finché qualcuno gli portava
salsiccia, uova, caffè e pane, e metteva al sicuro la sua fisarmonica. A
piedi nudi, avvolto nel camicione che Mamma O. gli aveva cucito addosso al principio
dell'autunno, Roman strisciò fino alla porta d'ingresso. Tutta la casa dormiva.
Le finestre erano gelate e un sottile bordo di ghiaccio si era formato sotto la
finestra della prima stanza e lungo il vetro. La famiglia dormiva. Roman aprì
la porta spingendola piano piano. La casa dormiva. Fuori, nell'androne, l'unica
lampada a gas tremolava debolmente. Nessuno. Niente. Tutti dormivano. Roman
guardò dietro la porta, rabbrividendo, e non solo per il freddo. Nessuno.
Niente. Per tutta la notte. Tornò a letto e pregò quietamente finché udì
Mamma O. che si alzava; aspettò finché capì che stava accendendo il fuoco nella
grande stufa della cucina. Poi, mentre si vestiva volgendo la schiena al fuoco,
raccontò a Mamma O. quello che aveva udito. Mamma O. non disse niente. Due
mattine dopo, Papà O. tornò a casa senza la fisarmonica. Mamma O. non si curò
di sapere se l'avesse venduta o persa o prestata; capì che era un segno, perché
se l'era sentito nel sangue, disse, che qualcosa doveva cambiare. Perché aveva
sognato un sogno, tutta la notte, di uno straniero che attendeva nell'androne:
un giovane ubriaco che si reggeva in piedi appoggiandosi al muro illuminato
dal gas, con un filo di sangue che gli scendeva dallo sparato della camicia e
gli si rapprendeva sulle mani. Mamma sapeva, come sapevano tutti gli Orlov, che
i morti infelici ritornano per ammonire o confortare, per giustificarsi o fare
ammenda, in cerca di pace odi vendetta. Quel giorno, china sulle casseruole
fumanti, Mamma O. ritornò col pensiero a tutti quelli che le erano stati cari
sulla terra ed erano morti: il cugino annegato in mare, il fratello tornato dalla
guerra per morire, la madre e il padre che avevano lasciato i loro campi prima
che lei si sposasse. Quella sera andò a bussare alla porta di Mamma Zolewitz.
Mamma Z. se ne stava seduta in silenzio, come se da molte sere aspettasse la visita
di Mamma O. "I1 padrone di casa non vuole che lo diciamo troppo presto ai
nuovi inquilini" spiegò Mamma Z., prima ancora di conoscere il motivo della visita,
"perciò non dovete dire che ve l'ho detto io. In questa casa, proprio nelle vostre
stanze, viveva una volta un giovane. Un giovane forte, e bello. Ma malato, malato
nella testa dal bere. Un peccatore di certo. Perché viveva qui con la sua donna
senza essere sposato; e lei lavorava, e lui no. Ma il fatto che non lavorasse
non c'entra con questa storia, e anche il bere ci ha poco a che fare. Tutto avvenne
perché non erano sposati. Avvenne di notte, a Capodanno. Quella notte lui tornò
dall'osteria e la picchiò finché le grida della donna divennero solo un lamento.
Finché il lamento tacque. Un giovane forte come un toro, fatto violento dal bere.
Quando il lamento cessò, non si udì più nulla. Più nulla fino a mezzogiorno, quando
arrivò la polizia e si udirono grida. "Che cosa c'era tanto da gridare? Io
avrei potuto dirlo a quelli della polizia prima ancora che arrivassero. Il giovane
si era impiccato nel ripostiglio della camera da letto. Un peccato tira l'altro,
ecco com'è. Li seppellirono insieme, in terra non consacrata, senza un prete vicino".
Mamma O. si era fatta pallida. Proprio nel suo ripostiglio. "Non c'è da preoccuparsi"
disse Mamma Z. saggiamente alla sua vicina. "Non è che bussi per fare del male.
Viene soltanto per guadagnarsi quel po' di pace che le preghiere di un buon cristiano
possono dargli. Pregate per quel giovane, Mamma O. Lui chiede un po' di pace".
Quella notte, dopo cena, gli Orlov si riunirono in preghiera intorno alla
stufa, e anche Papà O. si mise a pregare. Ora che la sua fisarmonica se n'era
andata, le osterie dovevano fare a meno di lui. Finita che fu la preghiera, se
ne andò a letto con Mamma O., come un buon marito. Da allora nessuno senti più
bussare. Ogni notte gli Orlov pregarono per il povero giovane. E ogni notte,
in mancanza della sua fisarmonica, Papà O. andò a letto con Mamma O. Mamma
O. capì allora che i colpi bussati alla porta erano stati di buon augurio, e raccontò
al prete l'accaduto. Il prete la benedisse per la sua anima cristiana, dicendo
che era la volontà di Dio che gli Orlov riscattassero il povero giovane con la
preghiera e che Papà O. vivesse con sua moglie, non con una fisarmonica.
Da allora Papà O. se ne stette a casa finché, mancandogli la musica, divenne il
miglior portinaio di Noble Street. Mamma Z. andò dal prete anche lei e gli disse
della parte che lei stessa aveva avuto nel miracolo del povero giovane. E il prete
benedisse anche Mamma Z. Quanto al padrone di casa, quando seppe che la sua
casa non era più visitata dagli spiriti, fece dei regali agli Orlov: e anche quando
erano in ritardo con la pigione, non diceva niente. Così il prete benedisse anche
lui, e col tempo gli Orlov smisero del tutto di pagare la pigione. Pregavano
per il padrone di casa, e basta. Teresa divenne il personaggio più importante
della sua classe, perché si era sparsa la voce che un miracolo si era compiuto
in casa degli Orlov. Suor Maria Ursula cominciò a dire che di giorno in giorno
la bambina somigliava sempre più a una piccola santa. E da allora in poi non ci
fu nessuno nella classe che sapesse le lezioni meglio di Teresa. Il miracolo
ebbe i suoi effetti anche sui gemelli, che divennero amici inseparabili. Non c'era
cosa che non facessero insieme, portavano perfino gli stessi abiti e leggevano
lo stesso catechismo. Udo, anche lui, si accorse che una benedizione era scesa
sulla casa, perché non fu più malmenato a colpi di fisarmonica. Solo un'ombra
venne a rattristare questo grande e felice cambiamento: il povero Roman era rimasto
senza letto. Papà O. passava tutte le sue notti a casa, da buon marito, e il posto
tra i gemelli fu preso perciò da Teresa. Così accadde che le notti di Roman
Orlov divennero agitate e insonni, prima sotto un letto poi sotto l'altro. Con
le molle che gli cigolavano sopra la testa per metà della notte. Da allora passò
le notti della sua adolescenza sotto i letti degli altri, in una stanza o nell'altra,
senza mai avere un letto tutto per sé. Finché, quando ebbe diciassette anni e
non fu più un ragazzo, prese a dormire di giorno per non aver bisogno di dormire
la notte. E di notte, come tutti sanno, non c'è altro posto dove andare che
l'osteria. Fu così che, trovandosi fuori di casa, senza un posto dove andare
e con tutta la santa notte da ammazzare, Roman prese il posto di suo padre. Non
aveva come scusa la fisarmonica, ma solo la mancanza di un letto. Ecco perché
Roman continua a dire che l'alba è l'ora più triste di tutte: perché all'alba
deve tornare a casa, lui che una casa non ce l'ha. È il racconto di un ubriaco
o la pura verità? Posso dire soltanto che Roman raccontò questa storia come se
fosse verità, bevendo per tutto il tempo doppi whisky. E so soltanto che, quando
c'è in giro Roman O., nessuno discute chi sia il più grande ubriacone di Division
Street. Io so soltanto quello che dice Mamma O., ora che sono passati tanti anni
e Papà O. è nella tomba e i gemelli se ne sono andati ciascuno per la sua strada:
che in realtà il giovane che veniva a bussare alla porta altri non era che il
diavolo. Lei stessa, infatti, senza sapere quel che faceva, non gli aveva dato
un buon figliolo in cambio di un pessimo marito? "Sto affogando il verme,
stanotte" spiega il povero Roman parlando al suo doppio whisky. "Aiutatemi ad
affogare il verme stanotte, compagni". Che il diavolo viva davvero in un
doppio whisky? È lui quello che rode dentro per tutta la notte? Oppure è
quello che viene a bussare nelle notti d'inverno, col sangue che gli si rapprende
sulle nocche delle dita, negli anditi oscuri dei nostri sogni?
1 Tortelli dolci, con ripieno di marmellata, caratteristici della cucina
russa e polacca.
Nelson
Algren nacque a Detroit nel 1909 in una famiglia di ebrei svedesi e tedeschi.
Trascorse la maggior parte della vita a Chicago, città in cui ambientò molti dei
suoi romanzi e racconti. Il padre era meccanico, mentre la madre proveniva da
un ambiente borghese. Nonostante le difficili condizioni economiche della famiglia,
aggravatesi con la Grande Crisi, Algren riuscì a frequentare il college grazie
all'aiuto della sorella Bernice, studiando tra l'altro giornalismo e criminologia.
Nel 1931, terminati gli studi, cominciò a girare per gli Stati Uniti in cerca
di lavoro. Era il periodo della Grande Depressione e le strade del paese erano
percorse da una massa di disoccupati e di senza-casa alla ricerca di lavori stagionali
e precari o di qualsiasi espediente per sopravvivere. Algren si aggregò a questo
esercito di vagabondi, scrivendo contemporaneamente qualche racconto per giornali
e riviste locali. Nel settembre del 1933, la casa editrice newyorkese Vanguard
Press gli propose di scrivere un romanzo che prendesse spunto dalle esperienze
fatte in giro per l'America. Per portare a termine l'opera Algren rubò una macchina
da scrivere in una cittadina del Texas, reato che gli costò alcuni mesi di prigione.
Uscito dal carcere, pubblicò nel 1935 Somebody in boots, un romanzo nel
quale racconta il caos, la violenza e la devastazione di queste esistenze nomadi
durante la Grande Crisi. Il libro, in parte influenzato dai canoni della letteratura
proletaria, non ebbe alcun successo. Algren entrò in una lunga depressione e tentò
il suicidio. Negli anni successivi, pur continuando a scrivere racconti, Algren
svolse un'intensa attività come animatore dei John Reed Club di Chicago (un'organizzazione
culturale vicina al partito comunista), realizzando anche inchieste per il Writer's
Project, un ente creato durante il New Deal per combattere la disoccupazione intellettuale.
Negli ambienti della sinistra strinse amicizia con altri scrittori come Jack Conroy
(con il quale diresse la rivista letteraria "The New Anvil" e Richard Wright,
l'autore di Ragazzo negro. La sua posizione all'interno del movimento
comunista era tuttavia piuttosto "eretica"; non tanto per le posizioni politiche
(in linea con le direttive della leadership, all'epoca staliniana), quanto per
i suoi atteggiamenti individualisti e anticonformisti e per un'impostazione culturale
dissidente dalla linea ufficiale. In quel periodo Algren visse nel "Triangolo"
polacco di Chicago e frequentò regolarmente la gente di quel quartiere. Never
come morning (prima trad. it. Mai venga il mattino, Mondadori 1956;
poi Edizioni e/o 1991), pubblicato nel 1940 e dedicato alla sorella Bernice (che
proprio in quei giorni era morta di cancro, a soli 37 anni), nasce appunto da
un'intima conoscenza delle esistenze e della psicologia di molti immigrati polacchi.
Il romanzo fu accolto favorevolmente dalla critica. "È un libro molto, molto buono...
probabilmente il migliore venuto fuori da Chicago" disse Ernest Hemingway. E il
critico Malcom Cowley definì Algren "poeta dei bassifondi". Problemi ne ebbe invece
con la comunità polacca che lo accusò di aver denigrato i polacchi nel momento
in cui il loro paese veniva aggredito da Hitler. Malgrado Algren si fosse difeso
affermando che a lui non interessava la nazionalità bensì le difficili condizioni
di vita dei suoi personaggi che li spingevano a delinquere, il libro fu ritirato
da tutte le biblioteche pubbliche di Chicago. Dopo la guerra, durante la
quale Algren servì in un'unità medica per il suo rifiuto di usare le armi, pubblicò
nel 1947 la raccolta di racconti Le notti di Chicago (già pubblicato
da Einaudi nel 1954). Nel 1947 Algren conobbe Simone de Beauvoir, con la
quale avviò una lunga e intensa relazione amorosa. Per lungo tempo vissero assieme
per vari mesi l'anno. Viaggiarono molto, negli Stati Uniti, in America Centrale,
in Europa, in Nord Africa. Malgrado tra i due ci fosse una grande intesa intellettuale
e sessuale, il rapporto si esaurì drammaticamente per l'eccessiva distanza che
li separava, non solo geografica ma soprattutto culturale; e perché nessuno dei
due era disponibile a rinunciare alle proprie radici e al proprio stile di vita.
Inoltre, il legame di Simone de Beauvoir con Sartre si rivelò un ostacolo insormontabile.
Dopo l'ultima visita fatta dalla de Beauvoir ad Algren negli Stati Uniti nel 1951,
i due mantennero per anni un rapporto epistolare, anche perché allo scrittore
americano, per motivi politici, era stato sequestrato il passaporto; riavutolo
nel 1960, Algren fece un viaggio a Parigi, dove si ritrovarono per alcuni mesi.
Il rapporto si era comunque esaurito e ci furono solo dolorosi strascichi, come
quando Algren accusò pubblicamente e duramente la de Beauvoir di aver utilizzato
la loro storia come materiale letterario, senza considerazione per i sentimenti.
Nel 1949 Algren pubblicò The Man with the Golden Arm (trad. it.
L'uomo dal braccio d'oro, Mondadori 1954). Il libro ottenne un grande
successo e l'anno seguente ricevette il National Book Award, il più importante
riconoscimento letterario statunitense. Fu l'apice del successo; da quel momento
iniziò una parabola discendente. Il clima di quegli anni, caratterizzato
da una dura politica contro la sinistra, ne fece uno dei bersagli degli attacchi
politici e culturali. Fu accusato di essere "l'ultimo degli scrittori proletari
", "un pezzo da museo ". Anche a Hollywood, dove pure era stato chiamato per collaborare
alla sceneggiatura del film tratto da L'uomo dal braccio d'oro, le cose
andarono male. Il regista e produttore Otto Preminger, dopo aver acquistato in
condizioni poco chiare e per una somma irrisoria i diritti di adattamento cinematografico,
tenne fuori Algren dalla sceneggiatura e trasformò il bel romanzo di Algren in
un film di cassetta a lieto fine interpretato da Frank Sinatra. Nonostante
questi attacchi e queste sfortunate vicende, Algren continuò il suo lavoro letterario
e culturale. Nel 1951 pubblicò il poema in prosa Chicago: City on the make,
un duro ritratto della città dedicato al poeta Carl Sandburg, suo concittadino
e maestro. Il libro fu ben accolto dalla critica, ma non ebbe successo di pubblico.
L'anno successivo scrisse un saggio sul difficile stato in cui versava la cultura
americana. Il saggio non fu pubblicato, se non parzialmente, e venne utilizzato
per un convegno di scrittori tenutosi nel giugno all'università del Missouri.
In esso Algren attaccava il conformismo che si era impadronito dopo la guerra
del mondo culturale americano, sostenendo che la "sofferenza umana era ancora
tanto vasta e terribile quanto ai tempi di Dickens e Dostoevskij. La sola vera
differenza è che l'Inghilterra di Dickens e la Russia di Dostoevskij non potevano
permettersi le cortine fumogenee sonore con le quali oggi così ingegnosamente
nascondiamo a noi stessi la nostra vera condizione". Da queste premesse, Algren
preconizzava per lo scrittore un ruolo di anticonformista, di critico della società.
Ma negli stessi anni scriveva a un amico affermando di non vedere più attorno
a sé questo genere di scrittori. Gli scrittori degli anni Trenta - diceva - erano
svaniti, o tacevano o cercavano di condurre una tranquilla esistenza piccolo-borghese,
come se il disagio spirituale degli anni Cinquanta e la malattia americana dell'isolamento
non esistessero. "Oggigiorno non puoi più essere un buon scrittore negli Stati
Uniti... Perché per essere un buon scrittore devi avere un paese dove puoi essere
povero senza morire di fame, dove comunque le condizioni di vita restino secondarie
rispetto al tuo mestiere di scrivere". E ancora: "Credo che gli autori degli anni
Venti avevano un cuore più forte. Prendevano colpi ma restavano. Faulkner,
Dreiser, Sandburg, Hemingway, Fitzgerald, Anderson, O Neill, Sinclair Lewis. Mentre
penso che quelli degli anni Trenta si sono chiusi in sé stessi: hanno mollato,
dato un taglio netto, fatto la spia, rinunciato, si sono svenduti, hanno negato
tutto e sono scappati...". Anche la vita privata di Algren scivolava lungo
una brutta china. Giocava a poker o ai cavalli sempre più spesso, perdendo anche
somme cospicue. Il matrimonio con Amanda Kontowicz, con la quale era già stato
sposato una volta e da cui aveva divorziato, non resse a lungo neppure questa
volta, sottoposto alle continue lacerazioni provocate dall'infedeltà cronica di
Algren e dalla sua propensione per la vita sregolata. NeI 1956 pubblicò A
Walk on the Wild Side (trad. it. Passeggiata Selvaggia, Mondadori
1961), che venne lanciato con un grosso battage pubblicitario e che ebbe anche
un buon successo di vendite. Ma il clima culturale era sicuramente ostile e i
critici che in quegli anni di reazione dominavano la scena (Alfred Kazin, Norman
Podhoretz, Leslie Fiedler) stroncarono il romanzo. Come dopo l'insuccesso del
suo primo libro, vent'anni prima, anche questa volta Algren attraversò una lunga
depressione e maturò un vistoso cambiamento. Da allora mostrò sempre più un'aria
di distacco e iniziò a guardare la realtà attraverso una lente di cinismo e scetticismo,
esibendo al tempo stesso un umorismo divenuto quasi leggendario. Negli anni Sessanta
e Settanta scrisse articoli e racconti di valore ineguale. Alla perenne ricerca
di denaro, sperperato poi regolarmente, scriveva con facilità sui più vari argomenti
(fu anche reporter in Vietnam) e teneva conferenze e corsi universitari, sebbene
fosse convinto dell'impossibilità d'insegnare il mestiere e la tecnica dello scrittore.
Nel 1963 pubblicò Who Lost an American? (trad. it. Chi ha perduto
un americano? , Mondadori 1966), una raccolta di saggi sugli argomenti più
vari: un viaggio in Europa, la corruzione a Chicago, la rivista "Playboy". Nel
1964 uscì Conversations with Nelson Algren, una sorta di autobiografia
orale raccolta da H .E. E Donahue, e nel 1965 Notes From a Sea Diary: Hemingway
All the Way, in cui affiancava il racconto di viaggi in Asia a riflessioni
su Ernest Hemingway e in genere sulla letteratura. Nel 1973 pubblicò una raccolta
di racconti, The Last Carousel. L'ultimo romanzo che scrisse, The Devil's
Stocking, per il quale non riuscì a trovare un editore, venne pubblicato
postumo nel 1983: è la storia di Rubin "Hurricane" Carter, un pugile nero, accusato
di un omicidio del quale si dichiarava innocente. Per scrivere questo libro, Algren
era tornato ai suoi vecchi sistemi dell'inchiesta, dell'immersione nella realtà
di cui voleva parlare. Si trasferì perciò nel New Jersey, dove erano accaduti
i fatti da lui raccontati. Gli ultimi anni della vita li trascorse più serenamente.
Si era trasferito a Sag Harbor, un piccolo porto a Long Island a nord di New York,
dando l'addio a Chicago. Il nuovo clima politico e culturale portava intanto anche
a una progressiva riscoperta e rivalutazione della sua opera di narratore negli
anni Trenta e Quaranta, e Algren ricevette numerosi riconoscimenti di prestigio.
Morì nel 1981 per un attacco cardiaco, a settantadue anni.
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