Zio, isola,
anone e stelle
Ernesto
Leal
Questo mio zio
- di cui ora vi parlerò - era ingegnere e pure ingegnoso. Aveva la pelle profumata
d'anona e occhi piccoli dietro a spesse lenti con montatura d'oro che emanavano
una luce pallida, verde come la buccia di un'anona. E aveva un nasone eloquente
che non era di famiglia, perché la nostra famiglia ha il tipico naso di Madeira,
ma siccome aveva preso il vaiolo quando era piccolo, il naso gli si era deformato
e pure la vista si era indebolita. Cosa tremenda il vaiolo, colpiva perfino i
nobili che marcivano nei loro palazzi. Ma ora per fortuna non c'è più, tranne
forse che nelle catapecchie dell'isola addossate al basalto, quel basalto che
fa da parete. Io però queste spelonche non le ho viste che da lontano e soltanto
adesso mi appare in televisione quella cicatrice enorme e nauseante sul volto
della montagna, perché è venuta giù una frana e la carne e le ossa di tutti i
contadini - dal più anziano al più giovane - sono rimaste seppellite nella Madre
Terra sotto tonnellate di pietra e fango. A quel tempo vivevo a Madeira insieme
alla mia famiglia, in alcune case circondate da un morbido terreno pieno di banani,
tra papaie e manghi, una bella terra bruna e umida, così buona da prendere a manciate
e perfino da mordere: terra santa per chi non vive nelle spelonche. Voglio dire,
vivevamo a tu per tu con guaiave e guaiave-fragole, completamente immersi nel
giallo, nel lilla, nel verde scuro e in quei profumi così rari, intensi e avvolgenti
che soltanto più tardi, nel corso della mia vita, dopo aver attraversato letamai
e immensi deserti, ho capito di poter ritrovare solo lì. E tutto intorno, il mare
eterno dell'isola temperava ogni cosa: azzurro e calmo o grigio e cupo, aggiungeva
comunque un pizzico di sale. Mai nessuno ha vissuto una fanciullezza più intensa
della mia, poiché sono stato principe e miliardario per il solo fatto di essere
nato sull'isola. Certo, il mondo era pieno di tensioni e catastrofi. Mio
padre e i miei zii erano tornati da una guerra davvero grande, la numero uno.
Non avrei mai potuto immaginare, nemmeno per un istante, che ci potesse essere
da qualche parte terra bagnata di sangue d'uomo. Io e mio fratello ci contendevamo,
con assoluta innocenza, il possesso di una maschera antigas che nostro padre aveva
portato dalle Fiandre. Lo facevamo solo per scherzare e spaventare le cugine bionde
e le cugine brune, con quella maschera dagli occhi grandi e rotondi, un largo
tubo di gomma raggrinzita penzoloni lungo il petto, le nostre voci "UUUH! AAAH!"
nasali e soffocate, come se gorgogliassimo sotto quell'aggeggio tutto rugoso che
non sapevamo neanche indossare. Pure a casa nostra c'erano tensioni (lo venni
a sapere solo più tardi), ma era il 1920, io avevo sette anni, mio fratello sei,
e i tuoni e le burrasche familiari non giungevano fino a noi. Ero ben lontano
dall'immaginare la zia Maria che camminava impettita tra la fitta vegetazione
delle convenzioni sociali e, per vendicarsi di una svergognata, spaccava a colpi
di martello le cianfrusaglie che il marito, nostro zio, accanito fumatore, aveva
ammucchiato in un secondo nido raffazzonato e seminascosto. Strani sospiri, il
dolore universale... Scivolavano sulla nostra pelle come se niente fosse e non
ci toglievano certo il sonno né la stanchezza quando arrivava l'ora di andare
a dormire. Il nostro enorme focolare, con i suoi tentacoli intricati e mal definiti
sia nel territorio sia nei sentimenti - con zie di primo e secondo grado, più
zie che zii, nonni, genitori, più cugine che cugini, tra campi di patate dolci,
granturco e canna da zucchero - era un brulicare umano immenso e, ai miei occhi,
davvero splendido. Il pane con la melassa non mancava mai. Le giornate erano
azzurre, senza freddo e senza fine. Fu allora che lo zio saggio e ingegnoso, con
la sua aria timida che lo faceva sentire fuori luogo ovunque, imbarazzato in mezzo
agli anziani, brontolone tra la gente meschina, intimorito nella cerchia dei giovani
più vivaci e ribelli, fiutando sempre nell'aria, con quel suo nasone innocente,
nuove fragranze scientifiche, che solo per lui scendevano dai sentieri del futuro
e della curiosità, che per lui e solo per lui stillavano da una massa elegante
d'integrali neri come semi d'anona, meticolosamente disegnati su fogli di carta
bianca come polpa d'anona, fu proprio allora, dicevo, che venne da me e disse,
timido, come a disagio, metodico e candido, con occhi matematici, scintillanti
in una luna grigioverde di buccia d'anona, "Sai già del TSF?" Rimasi sbalordito.
"Cosa, zio?" "TSF! Una faccenda seria! Immagina che tra poco io, qui
a Madeira, potrò parlare, sì, proprio parlare, con un altro uomo che sta in America
o in Asia! Chiacchierare! Capisci?" "In Asia, zio?" dissi io, inghiottendo
a secco. "In Asia, lontano, lontano!!" disse lo zio. "Parlare con degli
uomini che stanno in Asia?! E perché? Di che cosa ?!" chiesi. "Che sciocco che
sei, ragazzo! È il fatto scientifico in sé... È la scienza. In Asia. Ne costruirò
uno proprio qui, un apparecchio TSF. Ho già fatto i calcoli. È incredibile" disse
lo zio. "In Asia. In Brasile..." In quel momento giungeva dal cortile la
nonna Horácia, minuta, con in mano una treccia di agli - la sua pelle per noi
odorava sempre d'aglio - e alcune banane gialle gialle. Lo zio avanzò verso di
lei con il solito sorriso timido. "Avrei proprio bisogno di un tavolo solo
per me, un tavolo per un po' di tempo, cioè, per costruire un TSF, che è una nuova
invenzione..." "Eh no!" disse nonna Horácia, minuta. "Dove... dove lo trovo
un tavolo per queste stupidaggini! Ne ho già abbastanza! Sai che ha combinato
Vicência? (Vicência era mia zia, robusta, col viso paffuto e un accenno di baffi.)
Lo sai? Non lo sa! Si è tagliata la crocchia. Anche lei ha voluto i capelli alla
maschietta! Ma dove andrà a finire questo pazzo mondo? Tagliare quei bellissimi
capelli lunghi che il Signore le ha dato!!" "Ah!" disse lo zio saggio, molto
serio. "Vicência ha i capelli alla maschietta... Ma sentite, questa cosa del TSF
è molto importante, vedrete". "Sai nonna, lo zio parlerà con un uomo che sta
in Asia!" dissi io. "Avranno tanto di che parlare!" disse la nonna. A forza
di chiacchiere, finirono per dargli un tavolo da cucina di quercia annerita, pieno
di solchi profondi sui bordi e più volte maltrattato a colpi di lama, sul quale
generazioni di cuoche avevano affettato bistecche e cipolle. Lo zio lo portò nel
piccolo laboratorio in fondo al sentiero di pietra, accanto all'anona frondosa.
Lavò quello spilungone (il tavolo), lo raschiò, lo adattò alla sua nuova funzione.
Durante il suo tempo libero, intere domeniche incluse, lo zio indossava il vestito
vecchio e impugnava ora il saldatore, ora la matita, mentre sul ripiano - proprio
nel mezzo - una "cosa" cominciava a prendere forma: una specie di criniera di
fili che partivano in tutte le direzioni, tesi, penzolanti, ad anelli, a cerchi,
a spirale, seguiti a uno a uno dal dito vigile e allungato dello zio saggio che
sussurrava, contava, calcolava, saldava, imprecava, sudava, sospirava, gemeva,
in piedi, accoccolato, bocconi, supino. Era uno spettro capelluto e spettinato
quell'apparecchio: solo un piccolo pannello verticale di bachelite lucente e nera
con strani bottoni sul lato anteriore sembrava imporre un ordine apparente a quel
mostriciattolo, altrimenti caotico e ridicolo. Da questo pannello usciva un cavo
scuro collegato a un ricevitore, di quelli che coprono entrambe le orecchie. Un
giorno, dalla strada, sbucò lo zio, carico e paonazzo, ansimando e ridendo di
gioia perché portava con sé delle batterie a secco e a liquido, visto che, come
poi spiegò nel piccolo laboratorio accanto all'anona, uno dei circuiti della TSF
era "alimentato" con batterie a secco e l'altro con batterie a liquido. Le batterie
furono collocate sotto il vecchissimo tavolo color guaiava da cui scendevano alcuni
fili che, girando intorno ai bordi del ripiano, si andavano a collegare con quelle
fonti d'energia. Quel giorno, dopo aver verificato che la corrente percorreva
tutto il sistema, lo zio, felice come una Pasqua, commise la stravaganza (come
se fosse un giorno di festa) di cogliere un'anona. La divise a metà e la mangiammo
soddisfatti - che meraviglia! Il budino della natura! La 'zuppina dolce' come
dicono gli Inglesi in mancanza di un nome migliore. Il sabato seguente lo zio
saggio andò a letto alle quattro del mattino. Alle undici e mezzo, urlando e correndo
dappertutto, radunai la gente al laboratorio. Vennero quasi tutti - alcuni
sornioni, a testa bassa, altri noncuranti, a testa alta. La nonna Horácia, minuta,
arrabbiatissima. Lo zio saggio, seduto, con la testa avvolta dalle cuffie, il
nasone più grosso che mai proteso in aria, gli occhi semichiusi, pasticciava con
quei misteriosi bottoni. Rimase così per un'eternità. Poi si tolse le cuffie con
una certa enfasi, si alzò lentamente ed elargì agli astanti che sussurravano un
bel sorriso, un sorriso ineffabile. Io gridai con voce strozzata, "Io...
io, io... io, io, io!" Lo zio mi mise affettuosamente a sedere sulla sedia,
spiegandomi che dovevo muovere un bottone grande girandolo a destra così, a sinistra
così, molto lentamente, molto molto lentamente, e infine mi sistemò le cuffie
con la rapidità con cui si fa un'iniezione. Rimasi atterrito. Stavo per scappare
quando lo zio mi trattenne con entrambe le mani sulle spalle per incollarmi alla
sedia e mi tranquillizzò con un cenno del capo. Siccome non erano stati ancora
inventati i "filtri" che più tardi avrebbero separato i suoni utili da quelli
che non servono, il frastuono era davvero infernale, spaventoso: rumori sovrapposti,
scoppi secchi, rimbombi prolungati. L'universo che sbuffava, le stelle che gridavano
"CRAC... CRACRAC... BUM... PAM... SHHH..." tutto questo mi risuonava in testa
e sembrava colpirmi dritto al cuore. Assolutamente incredibile, stupefacente:
il mondo così pieno d'esplosioni!! Ed era lo zio saggio a spremere il cosmo come
un limone affinché desse quel succo denso di baccano! Improvvisamente mi
alzai, mi strappai le cuffie e singhiozzai, con le lacrime agli occhi, "Parola
d'onore... ho sentito... ho sentito... una voce di donna ha detto DO-MA-NI...
Parola d'onore, sul serio! Parola d'onore..." Nel piccolo laboratorio sotto
le fronde dell'anona il pubblico era immobile, ansimante, a bocca aperta, tranne
lo zio saggio che continuava a sorridere - e la nonna Horácia, minuta, con le
labbra serrate in una smorfia di stizza e in rappresentanza, diciamo, dei banani,
delle pannocchie di mais e dell'aglio, in rappresentanza delle forze brute, delle
rocce e dei dirupi, mostrò un disinteresse assoluto per quella "cosa", per quel
rituale meschino senza ceri, sete e incenso, per quell'oggetto insignificante
rozzamente metallico e repellentemente arruffato che, per la prima volta dalla
notte dei tempi, sull'isola profumata, aveva permesso a un ragazzino ansioso e
quasi in lacrime di ascoltare l'umanità e le stelle.
(Tratto dall'antologia
Nostalgia dei giorni atlantici, org. António Fournier, Scrittapura editrice,
Villa San Secondo, Asti, 2005, traduzione dal Portoghese di Alberto Taddei.)
Ernesto Leal è nato a Funchal (Madeira, Portugal) nel 1913 ed è morto nel
2005. Ha vissuto l'infanzia a Madeira, trasferendosi a Lisbona all'età di 11 anni.
Ufficiale dell'esercito portoghese, ha vissuto a Macau e a Goa, antichi possedimenti
portoghesi in Asia. Attualmente abita a Rio de Mouros, nei pressi di Lisbona.
Ha scritto tre raccolte di racconti: A velha e o barco, 1959 (Premio
Atica); O homem que comia névoa, 1964, Em Jerusalém, o canalizador,
1991.
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