Febbre


Josefina Aldecoa

 





"Ho il cellulare acceso. Ti chiamerò dalle piste. Se hai bisogno di qualcosa, chiama la Reception…, si prenderanno cura di te. Tanto lo sai…"
Una carezza leggera sui capelli scompigliati. Un inchino come per darle un bacio sulla fronte.
"Non avvicinarti, Juan. Altrimenti prenderai l'influenza o quel che è…"
"E che sarà?", chiese Iñaqui senza avvicinarsi.
Il bambino non lo chiedeva ad Ana ma al padre. Gli sembrava più obiettivo o meno drammatico. Contorse le dita da un guanto vuoto e verificò che l'uno si agganciasse all'altro, uniti dalla stessa chiusura.
Era già tutto vestito: giallo e azzurro. Una figura slanciata ma arrotondata dal vestito soffice e piumoso. Non scelse un saluto rapido e affettuoso. Si allontanò verso la porta e lì aspettò Juan, che insisteva:
"Se non stai bene chiamami, che arrivo subito. Ti ho detto mille volte che, per me fa lo stesso andare a sciare o no. Lo faccio per Iñaqui, soprattutto perché non perda giorni. Con l'ossessione che hai tu dell'aria aperta e dello sport…"
Lo diceva mentre si avvicinava al figlio, e alla porta e all'uscita. Le sorrisero entrambi dalla soglia, con quell'aria da addio maschile di cui si servono, così delicatamente, quando ti abbandonano.
Sentì i loro passi, lungo il corridoio. Parlavano. Si immaginò la conversazione.
"Comportati bene, Iñaqui. Non fare stupidaggini. Ascolta l'istruttore. Ci mancherebbe solo che con mamma a letto ti rompessi qualcosa…!"
Dal finestrone aperto entrava il bagliore della neve. Un raggio di sole batteva su una frangia scintillante di stalattiti, un'esibizione di cavatappi gelati che si riflettevano sul balcone di una casa vicina.
"Duemilaventicinque metri sopra il livello del mare…Incredibile…Si doveva scendere fino al punto più profondo della valle e scavare la terra alla ricerca di un canale nascosto e mettere l'acqua in una bottiglia vuota, di gin Bombay per esempio, con dentro un messaggio e aspettare che, fiume piccolo dopo ruscello, fiume medio dopo fiume piccolo, arrivasse fino ad un affluente del fiume grande e più tardi, attraverso chissà quali meravigliosi paesaggi, fino al mare…"
La luce le dava fastidio. Si girò nel letto e si mise con la faccia rivolta alla parete, momentaneamente sollevata. Nello stirare le gambe sentì una fitta nelle ossa e un brivido che le accapponava la pelle.
"Febbre, febbre…Tutto sulla viva carne, la pelle e l'immaginazione…Che stupidaggine…L'immaginazione in carne viva…Il messaggio della bottiglia. Qualcosa come: SOS. Prigioniera nel castello di Kafka. Stanza numero 30 di Baqueira Beret…Sequestrata. Febbrile. Mi scoppiano le tempie. Sto prendendo fuoco. Se non fossi al terzo piano, ma al primo, mi affaccerei alla finestra e mi butterei in questa neve bianca, immacolata, polverosa, per scendere rotolando fino al paese…Mi brucia la gola, mi fanno male i reni…Ana, l'accidentata…Fine del messaggio."
L'hotel era un rifugio alpino. Legno ovunque. Ampi finestroni che davano sulla montagna. Silenzio totale.
"A quest'ora sono tutti sugli sdrai o sugli sci…Un sorso di acqua gelata. Un sorso di acqua minerale gelata, dal congelatore, fredda, deliziosa…Mi alzo ora o quando portano i giornali? Meglio i giornali perché il romanzo…L'ultimo di Patricia Cornwall. Lo tenevo in serbo con una certa avarizia per questi giorni, per queste notti proprio prima di addormentarmi, stanca per l'esercizio fisico. E con questo unico benessere dell'ossigeno puro…"
La cameriera entra, premurosa. Ha i giornali in mano e chiede: "Come stiamo oggi?" Ana scuote la testa dubbiosa. Il movimento le aumenta il dolore. Si è dimenticata di quello che voleva chiedere alla donna. La donna aspetta un momento con un sorriso professionale e si fa da parte.
"Se non ti muovi non è poi così tanto male avere la febbre… È come una anestesia. Ma se ti muovi, la testa è un vulcano in eruzione… Come l'Etna, ieri, in televisione… Come si può vivere così vicino a un vulcano?... C'era un film, Stromboli, Di Ingrid Bergman… Fu in quel lungometraggio che si innamorò di Roberto Rossellini… Lo lessi in una bibliografia di lei o di lui, non ricordo… Ma c'era un vulcano in eruzione… Iñaqui e Juan saranno già a Beret. Dal letto si vedono le seggiovie salire e scendere… Puntini colorati lontani. Una fila di insetti volanti e sospesi in aria… Un punto giallo è Iñaqui. Il punto rosso è Juan. Un vortice di vento gelato li fa girare… Suppongo, Juan, che starai attento che il bambino non faccia una passeggiata, che non lo porti via la tempesta… Che stupidaggine… Delirio?... La febbre, che incubo, che lucidità spropositata, che previsioni senza controllo… Mezzogiorno… L'ora del pranzo con Santi e Lola e i bambini… Povera Ana, dirà Lola, mentre si spalma la crema solare… Di questo passo diventerà di nuovo bianca… Che riflessione stupida… Lei pensa alla montagna come al posto in cui abbronzarsi e poi vantarsi con gli amici: "Siamo appena tornati da Baqueira… Divino… Che sole…" Lei non capisce che noi desideriamo altre cose. Stare insieme tutti e tre e fare quello che ci piace: sciare… Che vita, Madrid. Sempre di fretta. Sempre stanchi quando stiamo insieme. Sempre divisi mentre ci stanchiamo. Il lavoro, il bambino, la scuola. Il rientro, le compere, la casa, il telefono, l'angoscia. Non torno. Il malumore: non ne posso più. Iñaqui: la colpa. Sempre poco tempo con lui, sempre poche ore da trascorrere al suo fianco…"
"Beh, ascolti; io della neve so tutto. Vivevamo ad Alpujarras e, che vita era quella? Sempre a calpestare neve in quel paese sul pendio. La terra a terrazzamenti da cui non era possibile raccogliere niente. E mia madre che sognava sempre la pianura."
La ragazza era scura, minuta, aveva una voce delicata e allegra. L'accento andaluso avvolgeva gli spigoli delle parole. Le frasi terminavano con una elevazione canterina dell'ultima vocale. Ana ascoltava in silenzio e osservava i movimenti agili, il ritmo delle braccia e di tutto il corpo della donna delle pulizie.
"E alla fine la poverina ottenne ciò che voleva: scendere dal monte, come dico io… E guardi dove ora invece mi è toccato vivere, un'altra volta in montagna. Per il lavoro, sa… È molto difficile trovare lavoro, le dirò… Le cambio il letto? Certo che sì, così starà più fresca… Si metta nell'altro per un momento nel mentre glielo sistemo… E ascolti, non so che idea si farà di quello che penso. Come mai alla gente, a voi altri, piace così tanto calpestare la neve e passare tutto il giorno a giocare con questa maledetta neve e su e giù con le seggiovie, gettarsi dal pendio con gli sci…? Gesù, Dio mio…Se io vivesi a Madrid come voi…Passerei tutto il giorno a vedere vetrine, a conoscere le gente della televisione…"
I lenzuoli aleggiavano sulla testa di Ana. Erano freschi e asciutti e profumavano di rosmarino o qualcosa del genere. Piante di montagna, aromatiche, piacevoli.
"E sua madre?", chiese Ana, "Dov'è ora, in pianura o è tornata in montagna?"
Un'ombra si abbatté sulla faccia sorridente. Per un momento il silenzio riempì la stanza. La granatina agitava le lenzuola, le stendeva con grazia. Si fermò un istante e disse: "Mia madre… Mia madre è morta… Successe quando andò a vivere in pianura e le venne quel male che non ha soluzione. Non durò neppure un anno… A cosa serve, lottare tanto per una cosa… E niente…"
Cominciò a nevicare. Prima erano comparse le nuvole, minacciose e oscure. Poi scese le neve, soave, sul terreno e lo coprì tutto. I pini delle montagne vicine, catene e catene di cime, trattenevano sulle loro punte i fiocchi grandi e belli. La terra spoglia dell'alta montagna, più alta, offriva alla vista un immenso manto bianco. Il telefono. È Juan.
"Come va?"
Ana uscendo dal suo torpore; indaga:
"Dove sei?"
"A Beret. Abbiamo fatto una corsa con la motoslitta. Non sai quanto è piaciuto a Iñaqui. E te?"
"Più o meno uguale…"
"Scendiamo subito. E stasera, non se ne parla neppure di cenare fuori…Chiediamo un panino al servizio in camera…Domani vedremo. Loro vogliono andare a Casa Irene…Se stai un po' meglio da poter rimanere sola, andiamo, altrimenti no, no…"
Al tramonto, quando rientrarono, rossi dal sole e della brezza, con una salutare luce negli occhi, si soffermarono meravigliati nel vederla lì, distesa nel letto, sconfitta e silenziosa. Arrivati da un mondo diverso, estraneo; arrivati dalla neve, dalla gioia, dagli amici, dalla gloria della vacanza… "Ora chiamo lo studio per dare le mansioni e sentire come va… Poi chiamerò il tuo ufficio per dire loro che se ti vogliono chiamare per qualsiasi cosa, che sappiano che sei qui, di guardia…" Volle scherzare con l'ultima frase ma Ana non sorrise. Strinse le labbra e rilassò le palpebre. Un filo liquido nascosto negli alveoli della memoria, cercò di uscire alla luce, nei lacrimali asciutti. L'umidità aprì gli occhi di Ana e rilasciò il suo dolore. Le lacrime sgorgarono, scivolarono sulle guance ardenti, sul collo ardente.
"Mamma", pronunciò sotto voce. "Mamma", mormorò e chiuse gli occhi. Ma mamma un giorno era morta, come la mamma della ragazza granatina. Ora mamma era lei, Ana. Ed era sola.


(Questo racconto è stato estratto dalla raccolta Fiebre pubblicata nel 2000 dall'editrice Anagramma. Traduzione di Samanta Catastini.)



Josefina R. Aldecoa è nata a La Robla, provincia di Leon, nel 1926. Laureata in lettere e filosofia all'università di Madrid ,ha poi fatto parte del gruppo letterario Espadaña.
Nel 1952 si è sposata con lo scrittore Ignacio Aldecoa. Ha pubblicato, con successo, cinque romanzi: La enredadera, Porque éramos jovenes e una favolosa trilogia, che può essere letta anche singolarmente, composta da: Historia de una maestra, Mujeres de negro e La fuerza del destino.


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