Treni del sud

 

Flavia Piccinni

 

Piove e sento le gocce che si schiantano contro il vetro del vagone. Contro il vagone stesso. Sulle rotaie. Ping tic ping tac. Le gocce come schiaffi nell'aria tagliano il paesaggio: lo squarciano in mille pezzi. Il mio sguardo lo ricompone, dopo attimi di esitazione. E alberi tornano ad unirsi, verdi e numerosi. E papaveri spuntano fra i binari, radi e rossi. A tratti, quando volto lo sguardo, vedo poi macchine bianche e blu parcheggiate in campi sterrati. Vedo l'entrata della galleria. Vedo il buio.
Sento il sudore sulla mia pelle. Fa caldo, anche se piove. Ti guardo riflessa nel vetro, mentre il treno attraversa il vuoto: occhi grandi, con quelle pupille dilatate, capelli lunghi e chiari, mani chiuse, a pugno. Ti guardo ma tu non mi vedi, forse pensi che oggi fa caldo anche se piove. Forse pensi che questo treno fa schifo. Accanto a me un ragazzo che ascolta la musica, poi un vecchio che guarda fuori dal finestrino, ancora un ragazzo che legge un libro. Di nuovo tu. In sei in questo scompartimento, pieno di valigie di persone che aspettano fuori, nel corridoio, in piedi. "Scusate, non è che posso lasciare qui la valigia che posto non ne sta più?" aveva detto uno. E altri, dopo, lo avevano ripetuto. Così siamo in sei, adesso, con tredici borsoni sopra le teste. In sei a guardare fuori dal finestrino, ad ascoltare musica, a pensare: che caldo che fa, anche se piove.

- Questi treni fanno schifo. - Sono sporchissimi e non si può respirare. Non è un viaggio, ma un incubo.

Parole, a tratti, mi arrivano dal corridoio. Gente che si lamenta: troppo affollati, troppo caldo, troppo sudore: troppo. Una madre e una figlia stanno appoggiate al vetro dello scompartimento. Vedo le loro schiene schiacciate contro la porta a vetro. Vedo i loro vestiti, appiccicati e sporchi. Guardano il treno che avanza, fra i campi e il mare, che ogni tanto compare. Aspettano e parlano. Poi: "L'Eurostar era tutta un'altra cosa. Completamente diverso. Non si sognavano manco per idea di mettere una carretta del genere al centro-nord. Questo treno va a Napoli e si vede proprio". E rivedo il treno, come quando ci sono salita: puzzolente e stanco. Con un foglio dove, scritto a penna, c'era la destinazione: Napoli: senza ritorno. In tanti annuiscono e dicono che il degrado è iniziato. Io continuo a guardarti riflessa nel vetro, fra le gocce e il paesaggio. Mi sembri bella. Vorrei dirti qualcosa ma rimango zitta. Poi ancora parole dal corridoio, c'è un ragazzo che litiga con la fidanzata. "Strunz a me?" lo sento che dice, adesso tossisce e attacca. Mette il cellulare nella tasca del jeans e si accovaccia.

"Deve prendere l'Eurostar fino a Roma poi cambia e prende l'Intercity per Napoli. Ha capito?". Diciassette parole, quelle dell'impiegata alla biglietteria: verbi, nomi, articoli, congiunzioni; un nome di città. Un nome con sei lettere: tre vocali, tre consonanti. Un nome non troppo lungo ma con mille modi diversi di essere letto. "Ha capito Signorina?" aveva poi chiesto ancora, vedendomi imbambolata davanti alla sua totale bruttezza. "Sì, sì, scusi sa stavo pensando" avevo detto io, prima di scansarmi ché quello dietro di me aveva fretta e aveva iniziato a sbuffare.
Quando mi parlano spesso mi rendo conto che non ascolto. Mi perdo rincorrendo i miei pensieri, quelli che vorrei dire ma non riesco, quello che vorrei fare solo se. Mi perdo anche quando guardo le persone e spesso mi commuovo. Non credo sia normale, ma preferisco crederlo. Stamattina però ho fatto proprio come mi ha detto quella chiattona della biglietteria: Eurostar fino a Roma poi Intercity per Napoli. Ho fatto come diceva lei e adesso mi trovo in uno scompartimento pieno di gente e borsoni, con un caldo che sa di sudore, con due ore di ritardo. Fuori piove e i capelli si sono arricciati. Davanti a me c'è una bella ragazza ma non riesco a parlarle. Mi vergogno. È troppo bella, con i suoi occhi neri inondati di sangue. Accanto a me la schiena di madre e figlia, appiccicate alla parete. Il treno che corre, a singhiozzo, fra pioggia e gallerie. Ancora persone che parlano. Quella che va dalla madre che si sposa con uno che ha un negozio di cravatte in mezzo a Via Chiaia. Questa che torna a casa per il fine settimana, ché studia a Roma veterinaria ma non ce la fa a stare senza il fidanzato e allora approfitta delle promozioni super scontate del fine settimana. Quella ancora che deve arrivare fino a Bari per una maratona e doveva partire con il fratello ma lui, lo scemo, si è sentito male e allora va da sola. Storie che si intrecciano: bugie che si scontrano. In Via Chiaia non ce ne sono negozi di cravatte, a Roma non c'è veterinaria, a Bari non ne fanno maratone ad aprile. Bugie che si intrecciano: storie che si incontrano. Perché, come diceva Zio Ninì, non c'è una verità assoluta ma mille verità diverse che si urtano e confondono, come il paesaggio tagliato dalla pioggia.

"Scusa ma che guardi?" mi dice quella. Quella che sta davanti a me. Scuoto la testa: la fissavo. Fissavo i suoi occhi e il suo sguardo: che ebete. Fissavo le sue labbra, le mani chiuse a pugno. "Scusa è che a volte mi incanto" rispondo di getto, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Lei mi sorride e dice che anche a lei, ogni tanto, succede, specie quando è molto stanca.
Poi dice che fa caldo e si sventola un pezzo di carta davanti al seno. Il ragazzo che legge il libro alza lo sguardo, con disapprovazione. Poi torna immerso nella lettura: Pulp, Bukowski. Io mi immagino di baciarla, la ragazza. Di stringerle la mano, la sinistra, tanto da fargliela aprire. Immagino di trovarci un anello, casomai un regalo di un vecchio fidanzato. Di leccarle il collo. "Ci sei? Mi sa che ti sei incantata ancora" dice. Scuoto ancora la testa e dico, di nuovo, che a volte mi capita. Lei dice che oggi fa sempre più caldo e che non è giusto che quelli stiano nel corridoio quando hanno pagato il biglietto intero e che queste cose capitano solo appena passata Roma. Io annuisco e penso che mi piacerebbe dirle che è bella, giusto per vedere se arrossisce. Giusto per vedere che effetto fa. Mi racconta che va a Napoli da sua nonna e che lì non conosce nessuno. Le dico che mi piacerebbe se ci vedessimo. Lei annuisce e continuiamo a parlare mentre il treno divide la campagna laziale per entrare in quella campana. Mentre il treno divide in scompartimenti l'Italia e la pioggia si affievolisce, leggera leggera, sui finestrini. Allora distolgo lo sguardo per un attimo dalle sue mani e vedo il mare, sbucare. Vedo il suo sorriso confondersi con le onde. E mi sento felice.



Flavia Piccinni nasce a Taranto dove vive per dieci anni e poi si trasferisce, suo malgrado, a Lucca. Scrive, racconti; tanti. Scrive, a volte fa concorsi. A volte perfino è selezionata. Di recente, nel 2005, ha vinto il premio Sìlarus, Arcilettore e Subway. Collabora con un giornale della sua città. Quando non sa che fare, mangia. Legge di tutto, dalle trame dei film TV alle date di scadenza delle uova, anche se giura di preferire Bukowski e Lefranc. È giovane, ma si abbassa già l'età.



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