Cuore mio
Vincenzo
Sagnelli
Io ho un lavoro, parcheggio macchine in aree della città non adibite alla sosta, cioè senza strisce azzurre o gialle parallele ai marciapiedi che quelle sono a pagamento e i soldi se li intascano i signori del comune con il metodo dei grattini.
Io sono un parcheggiatore abusivo, chi deve tenere la macchina ferma per un'intera mattinata e non vuole perdere tempo a scovare un buco nelle zone autorizzate e non vuole spendere troppi quattrini può trovare posto nella mia zona per pochi spiccioli senza pericolo di multe o carroattrezzi perché ci sono io quindi niente vigili. Mi alzo all'alba per essere in strada alle sette quando i primi clienti cominciano ad arrivare, per un paio d'ore non ho un attimo di tregua è tutto un salire e scendere da una macchina all'altra per parcheggiarle ad arte come soltanto io so fare così da sfruttare tutto lo spazio a disposizione, alcuni mi lasciano le chiavi in modo da facilitarmi il lavoro perché da anni mi conoscono e si fidano e sotto le feste mi fanno anche un piccolo regalo, per la maggior parte sono clienti occasionali che sfiniti dall'inutile ricerca di una sosta regolare tra le strisce rinunciano e imboccano la stradina secondaria che li conduce dritti da me, mi guardano con sospetto non lasciano le chiavi e mi rompono la testa chiedendo se c'è il rischio che arrivino i vigili. Sulle prime li rassicuro, nessun pericolo, se insistono li mando a quel paese, che se la sbrighino da soli, in fondo sono un parcheggiatore abusivo che cazzo vogliono da me la ricevuta?
Il lavoro me l'ha trovato mio fratello, lui è più piccolo di me ma tiene la testa a posto e sta facendo carriera nell'ambiente, a mio fratello ho sempre voluto un bene dell'anima, lui si è preso cura di me dopo la morte dei miei genitori, anche ai miei genitori volevo bene nonostante il rammarico che leggevo nel loro sguardo tutte le volte che pronunciavano il mio nome.
Mio fratello Guido ha gli occhi che sorridono, dice che lo diverto, in effetti un uomo di trent'anni con la testa di un bambino può essere molto divertente, a saperlo prendere per il verso giusto e Guido sa come fare perché in fondo abbiamo lo stesso sangue. Ricordo quando eravamo piccoli, vivevamo in una mansarda di un condominio immerso nel verde, il parco confinava con la ferrovia, due binari su cui circolavano treni ad ogni ora del giorno e della notte, i nostri vicini si lamentavano costantemente di quell'insopportabile sferragliare notturno che invece io attendevo con ansia, magra consolazione alle prese in giro ed alle percosse che subivo durante il giorno dagli altri ragazzi.
L'odore pungente dell'erba appena tagliata nelle aiuole del parco, il sinistro cigolio dell'altalena nei pomeriggi d'estate, l'arancio che il sole al tramonto dipingeva sui muri, il rumore dei treni in corsa a notte fonda, tutto ciò a quel tempo mi apparteneva come un gioco al quale non ti lasciano partecipare ma che nonostante questo o forse proprio per questo ti resta nel cuore, cresci e continui a cercarlo finchè ti accorgi che è proprio lì davanti a te, negli occhi della prima ragazza di cui ti innamori di nascosto. Di nascosto. Del resto, come spiegarle, come.
Accanto al letto matrimoniale c'era la culla di legno per mio fratello, del quale nella penombra attraverso i piedi di papà riuscivo a scorgere la figura e l'immaginavo dormire beato, con il ciucciotto intriso di miele e le dita minute strette a pugno, concentrato a seguire il semplice filo dei suoi sogni di neonato.
Questo l'ultimo pensiero che conciliava il sonno, l'ultimo sogno prima di dormire.
Le giornate si trascinano tutte uguali, tra manovre frenetiche per sistemare le auto nel miglior modo possibile evitando di ingolfare il traffico e quattro chiacchiere con gli altri parcheggiatori abusivi al bar dove ci si ritrova per il caffè. Di solito io prendo la mia consumazione e sto zitto, non mi piace parlare anche se di cose da dire ne avrei eccome ma ho capito che la gente in realtà non parla, combatte. Non le importa di comprendere, semplicemente attacca e difende, una conversazione diviene tutto un susseguirsi di stoccate e parate, la vittoria a chi disarma l'avversario, l'ammutolisce o peggio ancora dopo averne sbaragliato le difese gli arreca una ferita profonda, indizio evidente per il prossimi nemico, che intuirà da subito dove colpire. Questione di pelle. In certi casi non cicatrizza a dovere e si conserva lo sfregio, a dimostrare la sconfitta, a ricordare il dolore che resta in agguato nell'ombra dietro l'angolo come un qualunque ladruncolo di strada.
A volte nemmeno il caffè riesco a prendere in santa pace, c'è sempre un tizio che mormora agli altri una spiritosaggine sul mio conto che suscita l'ilarità di tutti, le risate mi assediano e il caffè mi va di traverso. Abitualmente le battute riguardano il fatto che sono un ritardato e che puzzo perchè è vero io non mi lavo molto spesso, quando decido di farmi una doccia deve esserci il sole, altrimente lascio perdere e mi tengo il mio odore, poco importa se infastidisce qualcuno a me piace moltissimo e mi tiene compagnia. La stanza da bagno in casa mia prende luce soltanto da una finestrella di vetro spesso e opaco, che non si lascia attraversare dai raggi del sole a meno che questi non abbiano l'insistenza di una belle giornata cominciata bene sin dal mattino, allora farmi la doccia diventa una festa privata alla quale non posso mancare.
Alla fine il giorno muore sulle spalle di chi passeggia per strada e continua a passeggiare pensando a tutt'altro, il cielo arrossisce e poi si spegne lentamente, la luce rinuncia ad esibire le cose si limita a tenerle in vita per qualche istante ancora, un'agonia lunga un tramonto dal quale ogni volta fuggo a gambe levate, mi nascondo in casa serro le imposte e mi ficco a letto con la testa sotto il cuscino piagnucolando per affollare la stanza. Dopo un'oretta riemergo dalle coperte sicuro che ormai è sera fatta, riapro le finestre e mi affaccio al balcone per rianimarmi nella luce slavata dei lampioni.
"Dottò state tranquillo, ci penso io, andate a fare quello che dovete."
"Grazie, un paio d'ore e sto qua."
"Andate dottò, andate."
Il dottore ha un fuoristrada ultimo modello di quelli con le ruote alte quanto un ragazzino, un mostro a quattro ruote motrici che potrebbe affrontare una tempesta di sabbia in pieno deserto africano mangiandosi una duna dopo l'altra senza il minimo sforzo oppure guadare un torrente in alta montagna mantenendo sempre una perfetta tenuta di strada, il dottore almeno una volta a settimana viene e mi lascia il mostro in custodia mentre lui e la sua amante si avviano all'alberghetto poco distante da qui, di proprietà di un amico di mio fratello che chiamano 'purtusiello' per via di certi purtusi cioè piccoli buchi nascosti che fa nei muri ma questa è un'altra storia. I due se ne vanno e io resto nei guai ma non mi lamento perché poi al ritorno il dottore mi regala sempre una bella mancia, più o meno l'equivalente di quanto guadagno con tre clienti per un'intera giornata, del resto il fuoristrada del dottore occupa proprio lo spazio di tre macchine e anche di più perché io sono bravo nel mio lavoro e tre macchine se è necessario potrei metterle pure una sopra l'altra, ma su di un unico bestione c'è poco da inventare si prende tanto spazio quanto è lungo, non lo puoi certo piegare o accorciare come fosse una fisarmonica.
Certo a vederlo così nuovo, nero lucente che riflette i nuvoloni grigi che si addensano in cielo ti lascia senza fiato, sembra un'astronave atterrata in mezzo a una discarica di auto giocattolo, all'interno vengo avvolto dal forte sentore di pino selvatico emanato dalla polverina odorosa che riempie il posacenere mischiato ad un profumo femminile, dolciastro, che mi fa starnutire. Mi tiro fuori con un saltello dal fuoristrada e la realtà mi riassale, goccioloni di pioggia mi lavano la faccia e la ragazzina che tira via i panni dentro al basso mi grida che sono un bastardo.
Non le rispondo, ha ragione, per uscire di casa deve muoversi rasentando il muro per almeno un paio di metri, ma non vedo altro parcheggio per l'astronave se non lo spiazzo davanti al suo basso, lei si chiude la porta alle spalle lanciandomi un'ultima occhiata astiosa mentre la voce di una vecchia dall'altro capo della strada benedice la pioggia e incita i passanti a comprare uno dei suoi ombrelli se non vogliono beccarsi un brutto malanno.
Mi rifugio di corsa nel bar insieme a tutti gli altri, il tempo di abituarmi al calore del locale che arrivano altri clienti, mi tocca uscire di nuovo senza far caso all'acqua che mi inzuppa i capelli e mi entra nel colletto della camicia, la gente nemmeno la guardo più, diviene tutto automatico, prendo le chiavi sistemo la macchina riporto le chiavi prendo i soldi e così via, per diverse ore, ripensando per tutto il tempo all'espressione stizzita della ragazza che abita nel basso, due occhi stupendi, impetuosi, frementi di rabbia come questo cielo rancoroso che mi sovrasta e mi stringe il cuore.
Vincenzo Sagnelli, laureando in medicina con una tesi che si sta
rivelando un romanzo che non finirà mai..., ventisette anni, questa
sarebbe la mia prima pubblicazione cartacea, finora ho pubblicato
solo su riviste on line. Hobby: stare affacciato al balcone della
mia stanza, leggere affacciato al balcone della mia stanza, studiare
affacciato al balcone della mia stanza, fare le smorfie ai passanti
affacciato dal balcone della mia stanza, prendere la metropolitana
nel tempo libero fingendo di aver fretta e di dovermi recare in
posti importanti.
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