UN
PROCESSO
Giovanni Verga
da
"Vagabondaggio" (1887)
All'Assise discutevasi una causa capitale. Si trattava di un
facchino che per gelosia aveva ucciso il suo rivale, giovane
dabbene e padre di famiglia. La folla inferocita voleva far
giustizia sommaria dell'assassino, pallido e lacero dalla lotta,
che i carabinieri menavano in prigione. La vedova dell'ucciso era
venuta, come Maria Maddalena, per chiedere giustizia a Dio e agli
uomini, in lutto, scarmigliata, coi suoi orfani attaccati alla
gonnella, mentre l'usciere andava mostrando ai signori giurati
l'arma con cui era stato commesso l'omicidio: un coltelluccio da
tasca, poco più grande di un temperino, di quelli che servono a
sbucciare i fichi d ‘India, ancora nero di sangue sino al
manico. Il presidente domandò:
- Con questo avete ucciso Rosario Testa? -
Tutti gli occhi si volsero alla gabbia dov'era rinchiuso
l'imputato, un vecchio alto e magro, dal viso color di cenere, coi
capelli irti e bianchi sulla fronte rugosa. Egli ascoltava
l'accusa senza dir verbo, col dorso curvo; e seguiva cogli occhi
l'usciere, il quale passava dinanzi al banco dei giurati col
coltello in mano. Soltanto batteva le palpebre, quasi la poca luce
che lasciavano entrare le persiane chiuse fosse ancora troppo viva
per lui.
Alla domanda del presidente si rizzò in piedi, diritto, col
berretto ciondoloni fra le mani, e rispose:
- Sissignore, con quello -.
Corse un mormorio nell'uditorio. Era una giornata calda di luglio,
e i signori giurati si facevano vento col giornale, accasciati
dall'afa e dal brontolio sonnolento delle formule criminali.
Nell'aula c'era poca gente, amici e parenti dell'ucciso, venuti
per curiosità. La vedova, stralunata, si teneva sul viso il
fazzoletto orlato di nero, e faceva frequentemente un gesto
macchinale, come per ravviare le folte trecce allentate, colle
mani bianche, levando in aria le braccia rotonde, con un moto che
sollevava il seno materno, orgoglio della sua bella giovinezza
vedovata. E fissava sitibonda sull'uccisore gli occhi arsi di
lagrime.
Costui non sapeva risponder altro che: - sissignore - a tutte le
domande del presidente che gli stringevano il capestro alla gola,
guardando inquieto i movimenti d'indignazione dei giurati, non
avvezzi alla severa impassibilità della toga, con un'aria di
bestia sospettosa. Incominciò la sfilata dei testimoni, tutti a
carico. - Gli amici del morto, un buon diavolaccio, incapace di
far male ad una mosca, - la vedova piangeva. - I vicini che
l'avevano visto barcollare, come preso dal vino, e cadere
balbettando: - Mamma mia! - Quelli che avevano gridato: -
All'assassino! - Il coraggioso che aveva afferrato pel petto
l'omicida, prima che giungessero le guardie, nella brusca e feroce
lotta per lo scampo.
- Giustizia! giustizia! - gridava nella folla la vedova, colla
voce del sangue che chiedeva sangue, accompagnata dal piagnisteo
degli orfani, inteneriti dalla solennità.
Infine fu introdotto un testimonio sinistro, l'amante che quei due
uomini si erano disputata a colpi di coltello: una creatura senza
nome, senza età, quasi senza sesso, alta, nera, magra, mangiata
dagli stenti e dal vizio, che solo le era rimasto vivo negli occhi
arditi. - Destò un senso di ripugnanza al solo vederla. - Il
pubblico accusatore l'aveva fatta venire appunto per ciò.
Ella si piantò tranquillamente in faccia al Cristo, alla legge, a
tutti quei visi arcigni, colla sicurezza di chi ha visto in
maniche di camicia gli sbirri e i doganieri, e giurò, levando la
mano sudicia e nera verso il crocifisso d'avorio, come avrebbe
fatto una vergine dinanzi all'altare, baciando lo scapolare
bisunto che trasse dal seno cascante.
- Come vi chiamate?
- La Malerba -.
E siccome l'uditorio, nell'attesa tragica, s'era messo a ridere,
quasi per ripigliar fiato, ella soggiunse:
- Anche lui, gli dicevano Malannata -.
E indicò l'imputato nel banco.
- Di chi siete figlia?
- Di nessuno.
- Quanti anni avete?
- Non lo so.
- Che professione fate? -
«Essa parve cercare la parola.»
- Donna di mondo, - disse infine.
Scoppiò un'altra risata nell'uditorio. Il presidente impose
silenzio scampanellando.
- Sì, donna di mondo, - ribatté lei per spiegarsi meglio. - Ora
con questo, e ora con quell'altro.
- Basta, abbiamo capito, - interruppe il presidente.
- Conoscete da molto tempo l'imputato?
- Sissignore. Questo qui me l'ha fatto lui, tre anni sono -.
E indicò fieramente uno sfregio che le segnava la guancia,
dall'orecchio sinistro al labbro superiore.
- E non ve ne querelaste?
- No. Era segno che mi voleva bene.
- Foste presente all'uccisione di Rosario Testa?
- Sissignore. Fu alla Marina: il giorno di tutti i Santi.
- E ne sapete il motivo?
- Il motivo fu che Malannata era geloso...
- Geloso di Testa?
- Sissignore.
- E a ragione?
- Sissignore -.
Allora la vedova si celò il viso fra le mani.
- Com'è possibile che Rosario Testa, giovane, marito di una bella
donna, gli desse ragione d'essere geloso... per voi?
- Com'è vero Dio, questa è la verità, - rispose la Malerba.
- Va bene, continuate.
- Avevo conosciuto quel poveretto... il morto, prima di
quest'altro cristiano, molto tempo prima, prima ancora che si
maritasse. Allora mi chiamavano la Mora dei Canali, Rosario Testa
faceva il fruttaiuolo, lì alla Peschiera. Era un libertino,
buon'anima. Le lavandaie dei Canali, le serve che venivano a far
la spesa, con quella sua galanteria di far regali, se le pigliava
tutte. Ma per me specialmente ci aveva il debole, ché una volta
alla festa dell'Ognina gli ruppero la testa per via di un marinaio
ubriaco che mi voleva. Poi seppi che si maritava e mutava vita.
Andò a stare a San Placido col suo banchetto. Né visto né
salutato. Io mi misi con Malannata, sì, ch'erano i giorni del colèra.
Buon uomo anche lui, buono come il pane, e se lo levava di bocca,
quel poco che guadagnava, per darlo a me. Ma geloso come il Gran
Turco: «Dove sei stata? Cosa hai fatto?» E poi si picchiava la
testa con un sasso, pentito delle botte che mi dava. Quell'annata
del colèra, che tutti scappavano via e si moriva di fame davvero,
egli voleva anche mettersi a beccamorto, per non farmi fare la
mala vita, col castigo di Dio che si aveva addosso. Si lasciava
morire di fame piuttosto che mangiare del mio guadagno.
Sì, glielo dico in faccia, ora che l'avete a condannare, perché
questa è la verità dinanzi a Dio. Mi diceva, poveretto: «No,
non me ne importa. È che penso al come lo guadagni, questo pane,
e non posso mandarlo giù». Ma io che potevo farci? Poi lui lo
sapeva che cosa io ero. «Non importa», tornava a dire: «almeno
non ci voglio pensare». Ma aveva i suoi capricci anche lui, come
una donna, e certuni non me li voleva attorno. Allora diventava
come un pazzo; si strappava i capelli e si rosicava le mani, perché
non era più giovane. Quando mi vedeva insieme al doganiere del
molo, che era un bell'uomo, colla montura lucida, mi diceva: «Vedi
questo quattrino arrotato, che io tengo in tasca apposta? con
questo ti taglierò la faccia, e dopo m'ammazzo io». E lo fece
davvero. Io gli dissi: «Che serve? Ora che m'avete sfregiata
nessuno mi vorrà, e non sarete più geloso» -.
S'interruppe, con un orribile sorriso di trionfo, guardando
sfrontatamente in giro il presidente, i giurati, i carabinieri,
cinghiati di bianco, incrociando sul petto il vecchio scialle, con
un gesto vago.
- Ma non fu così, signor presidente. Mi volevano ancora, per sua
bontà. Già gli uomini, sono come i gatti...
- E anche Rosario Testa? -
Ella chinò il capo, assentendo, due o tre volte, con quel
sorriso.
- Sissignore, anche lui! -
La vedova adesso la guardava cogli occhi ardenti e feroci, le
labbra pallide come le guance.
- V'ho detto ch'era un discolo, buon'anima. E anch'io, al
rivederlo, mi sentivo tutta fiacca, come m'avesse fatto bere.
Dicevo di no, perché Malannata era lì vicino, a scaricar zolfo
nel magazzino dietro la Villa, e tante volte mi aveva detto lui
pure: «Bada che se torni con Rosario, vi faccio la festa a tutti
e due». Ma l'amore antico non si scorda più, vossignoria!
- Basta. Dite come avvenne l'omicidio.
- Così, come ve lo dico adesso, signor presidente, col coltello
dei fichidindia, quello lì.
- Testa era armato?
- Lui? povero ragazzo! Mi aveva invitato a' fichidindia, una
galanteria delle sue, lì, al banco di Pocaroba, che ce li ha di
quelli di Paternò, sino a Natale. Pocaroba dice: «Badate che
Malannata è in sospetto. L'ho visto che si affaccia ogni momento
alla porta del magazzino, e tien d'occhio compare Rosario». E
Testa: «Lasciatelo guardare, compare Pocaroba, che me ne rido di
Malannata e del suo santo». Allora lasciai stare i fichidindia, e
cercavo di condurmi via l'altro; quand'ecco quel cristiano lì
correre dall'arco della ferrovia, tutto bianco di zolfo, e cogli
occhi come uno che ha bevuto, e in due salti ci fu addosso; afferrò
il coltello, dal banco dei fichidindia, prima di dire Gesù e
Maria...
- Accusato, avete qualche cosa da aggiungere?
- Nulla, signor presidente. Questa è la verità sacrosanta -.
Allora sorse il pubblico accusatore, togato e solenne, a malgrado
della nota mondana dell'alto colletto inamidato che gli usciva dal
nero della toga; e fulminò il reo colla sua implacabile
requisitoria, facendo inorridire i giurati col quadro del vizio
abbietto che vive nel fango dei bassi strati sociali, per dar
l'orrido fiore del delitto, senza neppure la febbre della
giovinezza, della passione o dell'onore, senza nemmeno la scusa
della tentazione o della gelosia. - Il vizio che vive del disonore
ed osa ribellarvisi col delitto -. E stendeva verso quel grigio
capo avvilito l'indice minaccioso, dall'unghia rosea e lucente.
Le signore, che dovevano alla sua galanteria i posti riservati
dell'aula, rianimavano la loro indignazione col profumo della
boccetta di sale inglese, soffocate dall'afa; e i larghi ventagli
si agitavano vivamente a scacciare il lezzo immondo della colpa,
come farfalle gigantesche. Poscia il magistrato si assise
tranquillamente, ringraziando, con un impercettibile sorriso,
all'applauso discreto di quei ventagli che s'inchinavano,
ponendosi sul viso il fazzoletto di battista. Solo l'imputato non
aveva caldo, seduto sulla sua panchetta, col dorso curvo, il viso
color di terra rivolto verso tutte quelle infamie che gli
rinfacciavano.
A sua volta prese a parlare l'avvocato. Era un giovane di belle
speranze, delegato d'ufficio dal presidente a quella difesa senza
compenso. Egli sfoderò gratuitamente tutte le sue brillanti
qualità oratorie. Esaminò lo stato psicologico e morale degli
attori del lugubre dramma; sciorinò le teorie più nove sul grado
di responsabilità umana; argomentò sottilmente intorno alle
circostanze di fatto, per farne risultare tutto ciò che occorreva
a dimostrare la provocazione grave e l'ingiuria. Qui veniva a
taglio una pittura commoventissima di quella morbosa gelosia
senile, che doveva avere tutti gli strazi e le collere furibonde
dell'umiliazione e dell'abbandono. Sì, egli lo sapeva, non erano
le coscienze di uomini onesti, vissuti nel culto della famiglia,
resi più sensibili dagli agi, che avrebbero potuto scendere negli
abissi di quei cuori tenebrosi e di quelle infime esistenze per
scoprire il movente di certe delittuose follie. Forse soltanto il
sentimento più delicato e immaginoso di quelle dame eleganti,
avrebbe potuto sorprendere il tenue filo per cui si legano i fatti
più mostruosi al sentimento più nobile in quegli animi rozzi.
Egli seguì cotesta fatale concatenazione che c'è fra tutti i
sentimenti e le azioni umane con una analisi così acuta, che più
di un onesto padre di famiglia sentì turbata la sua digestione
dallo smarrimento della colpa, mentre era lì, seduto a giudicare,
pensando al ricolto del podere, o al fresco del terrazzino dove lo
stava aspettando la famigliuola. Per poco non si udirono degli
applausi alla perorazione dell'avvocato. Lo stesso presidente gli
fece velatamente i mirallegro.
- Accusato, avete nulla da dire a vostra discolpa? - conchiuse il
presidente.
L'accusato si alzò di nuovo, colle braccia penzoloni, lungo la
sua stecchita persona, e un gesto vago dell'indice, come d'uomo
persuaso di quel che dice.
- Signor presidente, ho ucciso Rosario Testa, devo andare a morte
anch'io, com'è scritto nella legge, e va bene. La Malerba,
poveretta, è quella che è, e anche ciò va bene. Ma quando me la
lasciavano sulla panchina del molo come una scarpa vecchia, chi
andava a dirle una buona parola ero io; e a chi ella diceva una
buona parola quando aveva il cuore grosso, ero io pure. Gli altri,
pazienza, oggi questo, domani quell'altro; le buttavano dei soldi
e delle male parole, ed essa non ci pensava più. Ma Testa,
nossignore! Essa quando era stata con lui, mi ritornava a casa
tutta sossopra, cogli occhi che pareva ci avesse la luminaria
dentro. Io glielo aveva detto a Testa: «Guarda che a te non te ne
importa. Tu ci hai moglie e figliuoli; ma io non ho che questa
qui, Testa!» -
Poi tornò a sedersi, accennando ancora del capo, mentre la Corte
si ritirava per deliberare. E rimase immobile, nell'ombra,
aspettando il suo destino. Era venuta la sera. La folla s'era
diradata, e nella sala accendevano il gas. Infine squillò di
nuovo un campanello, e comparvero di nuovo le stesse toghe nere,
le stesse facce pallide e stanche che guardavano l'imputato. Egli
non capiva nulla delle frasi che borbottavano in mezzo a quella
folla, nell'ombra. Intese solo il presidente che pronunziava la
condanna: - A vita! -
E si alzò un'ultima volta, barcollando sulle gambe, accennando
sempre coll'indice quel gesto vago ch'era tutta la sua eloquenza,
e balbettò:
- Io glielo avevo detto a colui, signor presidente -.
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