LE LUNGHE ASSENZE DI JERONIMUS WOOD, CACCIATORE

Erika Stilli Cattani




La strada è stretta e deserta. Me ne sto in ginocchio appostato dietro una tenda e osservo un corvo in bilico sul ramo di un albero.

Forte leone che fiuta l'odore della preda aleggiare nell'aria, sento il brillio del sole sul manto lucido notte del corvo. Aspetto. I sensi all'erta, percepisco il vuoto polveroso di oggetti sparsi alla rinfusa nella stanza squallida che ho preso in affitto, tana che si spalanca, come la bocca scura di una caverna, dietro di me. Davanti a me, tra le tende pesanti e chiuse, lo scorcio di abbacinanti mura bianche.

Ad un tratto il corvo lancia un grido. Qualcosa lo ha disturbato. Mi sistemo meglio appoggiando il gomito ad un tavolino che ho preparato sotto il davanzale della finestra. Controllo nel mirino la direzione dello sparo. E' meticolosamente inquadrato. Aspetto. La donna esce dal portone, imponente sbalzo verde scuro che il sole fa luccicare di smeraldo per un istante mentre si richiude alle sue spalle. Immagino il tonfo sullo stipite, il cigolare dei cardini sotto il peso di legno e ottone. Nella mente registro ogni cosa, mentre nervi e muscoli confluiscono nel braccio che sostiene il calcio del fucile, nelle dita serrate sul grilletto, nell'attenzione dello sguardo puntato nella minuscola lente crociata. In questi attimi il tempo si dilata: scandire di fluide gocce sorde che scavano un solco nella mente senza pensiero e senza emozione. Sono interamente in quelle mura bianche, nel ramo nascosto da foglie verde cobalto e giallo di cadmio, schiacciato sulla superficie sbalzata e grave del portone, nel mio respiro caldo e secco che alita sul collo della donna. Lo trattengo, sospeso, mentre il dito si avvolge sul grilletto. Miro. Sparo. La donna si ferma, sobbalza, la mano in un gesto sospeso e assorto come per una dimenticanza improvvisa e importante che non si può trascurare. La mano cade. E' tutto finito.

Una frazione infinitamente piccola di tempo nel succedersi interminabile d'invisibili punti tessuti da una Parca implacabile. Chiudo gli occhi e costringo il sangue a defluire dalla mente e dal braccio, che lascia cadere con precisione ed eleganza quella sua appendice oscura. Odori e suoni tornano ad affollare i miei pori, filtro sottile dell'anima che percepisce curiosa e attenta ciò che la circonda al di là della mia stessa consapevolezza. Ripongo con cura nel suo astuccio metallico lo strumento che mi accompagna nei miei innumerevoli viaggi. E' tutto finito, non mi resta che partire.

Io uccido. Come un dio crudele e pagano, che arbitrario crea e forgia anime e vite, ordisco lentamente la trama della tela, ordinando puntigliosamente i particolari.

Cammino con loro, mi muovo dei movimenti dei loro corpi, osservo le stanze illuminate delle loro case e mi inoltro negli anditi più nascosti dei loro giardini. Accetto di uccidere quando sono certo che essi possono essere attentamente studiati, che la loro vita è penetrabile da me. Li catturo attraverso innumerevoli sguardi obliqui, osservando il ritmo, agli altri nascosto, delle loro giornate. Imparo con pazienza lenta e ostinata i tratti dei loro volti e li rivedo nell'alzarsi di un sopracciglio, nella smorfia della bocca che si apre al dolore nell'istante in cui li colpisco. Osservo il senso della loro vita, giudice imparziale che assegna a ciascuno il suo destino e immagino la loro morte come l'ultimo tratto di un fluido perfetto chiudersi del cerchio. I miei vagabondaggi senza tempo, mete illimitate che mi suggerisce la fantasia o la volontà di un incontro, portano in sé il frutto della mia conoscenza. Uomini e donne che diventano parte di me e mi insegnano ogni volta un aspetto diverso del creato. Nel loro morire ritrovo la consapevolezza di qualcosa di più grande, passaggio fattosi ineluttabile tra innumerevoli possibilità slittanti all'infinito.

Nel chiuso del mio studio, evocato dal recesso buio della memoria, ho saputo cogliere il loro sguardo farsi liquido scuro di terrore che dilaga nelle pupille o dolce stupore come rassegnazione nell'abile calcolo di luce e colore di tratti e pelle sulla superficie impastata della tela.

Di nuovo rientrato nei panni di Jeronimous Wood –sciarada di un nome come un segno scoperto della mia eredità artistica- rivedo il cadere del corpo tra i rami baluginanti di luce, lo sbattere di piume nere e setose, il tonfo sordo del chiudersi di un portone. E' allora che lo comprendo in me.

I miei quadri sono molto apprezzati. Sono riuscito ad aprire una piccola galleria dietro Fulham Road e la gente, che passa, si ferma ad osservare i miei scorci e paesaggi in cui minuscole figure umane si contorcono in danze macabre e visioni celestiali. Mi diverte di un piacere maligno seguire il mutare delle espressioni mentre si accorgono del senso della mia pittura.

Gli antichi maestri hanno saccheggiato cimiteri e trasformato le loro stanze in studi di anatomia. Nella vecchia bottega di mio padre, un ricco e astuto cercatore di tesori inglese, situata in un vicolo della Baixa, ho morbosamente maneggiato vecchie stampe con i dementi e i giustiziati di Gericault. Volti terragni fiammeggiati dal rosso Venezia del sangue sulle labbra spalancate e dal baluginare avorio degli occhi spenti. Ho passato ore, bambino taciturno e schivo, nell'intricato intrecciarsi di uomini-animale dell'Inferno musicale di Bosch. Divenuto più grande, goffo adolescente, ho trascorso le mie domeniche solitarie a fissare inebetito ed affascinato le Tentazioni di Sant'Antonio, le figure terrorizzanti e demoniache di un cosmo magicamente capovolto. In quei giorni lontani è nata la mia ansia di dipingere l'anima degli uomini. E quando la loro vita osservata dall'esterno imperscrutabile della non conoscenza non ha più colmato la mia inquietudine, ho spinto la mia arte al punto estremo, laddove l'esistenza umana si compie. Ho iniziato a cercare silenziosamente le mie vittime accettando l'eredità di mio padre, anche lui assassino dietro la rispettabile apparenza di esperto di cose rare ed antiche. E questo mi ha offerto la mia vita londinese ed un'esistenza, per quanto vagabonda ed eccentrica, irreprensibile.

Uccido per dipingere e dipingo per uccidere. Creo da solo le figure dei miei quadri attraverso l'osservazione diretta delle grottesche metamorfosi degli esseri umani durante il loro ultimo esistere tangibile. Sullo spazio bianco opaco della tela assumono la vita fittizia ed eterna di simboli dell'essere. Chi vuole assoldarmi sa come e dove trovarmi nella mia doppia esistenza tra lo studio di Fulham e la bottega di antichità stravaganti della Baixa, che dopo tanti anni uso ancora con il nome di mio padre, come già lui prima di me, per copertura. Per precauzione, non per viltà, ho assunto per i miei commerci segreti di anime il numero di una casella postale in un anonimo ufficio del centro di Lisbona. La mia fama di assassino mi aleggia intorno nelle città del Sud con il fruscio sordo di parole mormorate a mezza voce. Nessuno ha visto mai veramente il mio volto né io quello dei mie committenti. Ma è una fama discreta, che non varca l'oceano e lo stretto della Manica. A Londra per tutti sono solo uno stravagante pittore.

Questa donna che cade sarà esposta nella mia galleria il prossimo mese; sento già fluire dalle venature delle mani il colore, come poco prima è scaturita l'energia che ha premuto il grilletto.


Erika Stilli Cattani, laureata in archeologia, è insegnante di lettere. Dal 1999 tiene presso la scuola di scrittura Sagarana un corso su "Miti, archetipi e cosmogonie" frutto delle sue ricerche e studi in questo settore.
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