TRE
RUBLI
Ivan Bunin
In quella sera d’estate, arrivai in treno dalla campagna nel
capoluogo del nostro distretto verso le nove. Faceva ancora caldo,
era quasi buio a causa delle nuvole e si avvicinava un temporale.
Mentre il vetturino, sollevando polvere, mi portava a briglia
sciolta in città dalla stazione attraverso i campi che si
facevano scuri, dietro
di noi a un tratto qualcosa lampeggiò, davanti la strada per un
istante si accese di luce dorata, da qualche parte rotolò un
tuono e a grosse gocce cominciò a picchiare sulla polvere e sulla
carrozza una pioggia veloce, rada, che immediatamente cessò. Poi
la carrozza, venendo con un sobbalzo dalla strada morbida, si mise
a tremare sul ponte di pietra sopra il letto asciutto del fiume.
Oltre il ponte, le fucine della città nereggiavano selvagge e
mandavano un odore metallico. Sulla strada in salita ardeva
impolverato un lampione a cherosene...
Nell’albergo Vorob’ëv, il migliore in città, mi assegnarono
come sempre una stanza con la camera da letto dietro al tramezzo.
L’aria in questa stanza con le due finestre chiuse dietro le
bianche tende di calicò era calda come un forno. Ordinai al
cameriere di spalancare le imposte e portare il samovar e subito
mi avvicinai alla finestra: nella stanza non si poteva respirare.
Oltre la finestra già nereggiava l’oscurità, in cui di tanto
in tanto lampeggiavano i fulmini, ormai azzurri, e rotolava, come
tra i dossi, il boato del tuono. Ricordo che pensai: questa
cittadina è talmente insignificante che è addirittura
incomprensibile il motivo per cui questa magnifica luce azzurra
lampeggia così minacciosa e il cielo cupo e invisibile tuona e
trema in modo così sublime. Andai dietro al tramezzo e, mentre mi
toglievo la giacca e la cravatta, sentii che il cameriere era
entrato con il samovar su un vassoio e lo aveva lasciato sul
tavolino tondo davanti al divano. Mi affacciai un attimo: oltre al
samovar, al recipiente con l’acqua, al bicchiere e al piatto con
un panino, sul vassoio c’era una tazza in più.
“Perché questa tazza?” chiesi.
Il cameriere rispose, giocando con gli occhi:
“C’è di là una signorina che chiede di voi, Boris
Petrovic’.”
“Quale signorina?”
Il cameriere si strinse nelle spalle e fece un sorriso di maniera:
“Si capisce, quale. Ha molto insistito perché la lasciassi
venire, mi ha promesso un rublo
di mancia, se guadagnerà bene. Vi ha visto arrivare.”
“Una ragazza di strada, quindi?”
“È chiaro. Non si erano mai viste da noi: i viaggiatori di
solito si rivolgono ad Anna
Matveevna per queste signorine, e a un tratto una si presenta qui
per proprio conto... È
di statura molto alta e sembra una ginnasiale.”
Io pensai alla serata noiosa che mi prospettava e dissi:
“È divertente. Falla passare.”
Il cameriere scomparì soddisfatto. Cominciai a preparare il tè,
ma subito bussarono alla porta, e con stupore vidi entrare nella
stanza a passi decisi, senza aspettare la risposta, una ragazza
alta con lunghe gambe e vecchie pantofole di tela rozza, un abito
da ginnasiale marrone e un cappello di paglia con un mazzetto di
finti fiordalisi di lato.
“Ecco: sono qui per farvi compagnia, ” disse tentando un
ironico sorriso e voltando gli occhi scuri da una parte.
Tutto questo non era affatto simile a quanto mi ero aspettato, mi
sentivo leggermente smarrito e risposi anche troppo allegramente:
“Molto piacere. Toglietevi il cappello e accomodatevi a prendere
il tè.”
Dietro le finestre lampeggiò un enorme fulmine viola, un tuono
ammonitore rotolò lì vicino, nella stanza soffiò il vento, e io
mi affrettai a chiudere le finestre, contento della possibilità
di nascondere il mio turbamento. Quando mi voltai, lei era seduta
sul divano, si era tolta il cappello, si passava la mano
affusolata e abbronzata tra i capelli tagliati corti. Erano folti
e castagni, e il viso della ragazza aveva gli zigomi larghi, molte
lentiggini, le labbra piene e violacee, gli occhi scuri e seri.
Stavo per scusarmi in tono spiritoso di essere senza giacca, ma
lei mi guardò seccamente e chiese:
“Quanto potete pagare?”
Io di nuovo risposi con simulata noncuranza:
“Avremo tempo per metterci d’accordo. Beviamo prima una tazza
di tè.”
“No, ” disse lei, accigliandosi. “Devo sapere prima le
condizioni. Non prendo meno di tre
rubli.”
“Allora vada per tre,” dissi io con quella stessa sciocca
noncuranza.
“Scherzate?” chiese severa.
“Per niente,” risposi, pensando: “Le farò bere il tè, le
darò tre rubli e la manderò a farsi
benedire”.
Lei sospirò e, chiusi gli occhi, rovesciò la testa
all’indietro sullo schienale del divano. Io
pensai, guardando le sue labbra esangui e violacee, che doveva
essere affamata. Le porsi dunque la tazza di tè e il piatto con
il panino, mi misi seduto sul divano e le toccai la mano:
“Avanti, prendete qualcosa.”
Lei aprì gli occhi e in silenzio si mise a bere e a mangiare. Io
guardavo fisso le mani abbronzate e le ciglia scure severamente
abbassate, pensando che la faccenda stava prendendo una piega
assurda, e chiesi:
“Siete di qui?”
Lei scosse la testa, mandando giù il boccone con un sorso di tè:
“No, vengo da lontano...”
E tacque di nuovo. Poi si scrollò dalle ginocchia le briciole e a
un tratto si alzò, senza guardarmi:
“Vado a svestirmi.”
Di tutto, questa era la cosa più inattesa. Stavo per parlare, ma
lei mi interruppe con
tono autoritario:
“Chiudete la porta a chiave e abbassate le tende alle
finestre.”
E andò dietro al tramezzo.
Con sollecitudine e obbedienza inconsapevole abbassai le tende,
dietro cui continuavano a lampeggiare fulmini sempre più vasti,
che pareva volessero gettare uno sguardo più in profondità
dentro la stanza, e sempre più insistenti rotolavano i boati che
facevano tremare l’aria. Nell’anticamera girai la chiave della
porta, senza capire perché facessi tutto questo, e stavo già per
entrare da lei con una finta risata, volgere tutto sullo scherzo,
oppure farle credere di avere a un tratto un terribile mal di
testa, ma lei disse forte da dietro il tramezzo:
“Venite...”
E io di nuovo obbedii inconsapevole, andai dietro al tramezzo e la
vidi già nel letto: era distesa, con la coperta tirata su fino al
mento, mi guardava in modo selvaggio con gli occhi divenuti
completamente neri e stringeva i denti che le battevano. E nel
trasporto della confusione e della passione le strappai la coperta
dalle mani, scoprii il corpo di lei nella sola camicetta corta e
sciupata. Fece appena in tempo ad afferrare con la mano nuda
l’interruttore di legno vicino al guanciale e a spegnere la
luce...
Dopo, stavo nell’oscurità accanto alla finestra aperta, fumavo
avidamente, ascoltavo il rumore della pioggia a dirotto che si
rovesciava nella tenebra nera sulla città morta insieme al vivido
e rapido palpito dei fulmini viola e ai colpi lontani dei tuoni, e
pensavo, respirando la freschezza della pioggia, mescolata agli
odori della città, che c’era davvero una connessione
incomprensibile tra quel misero luogo sperduto e la grandezza
divinamente minacciosa, tuonante, palese e temporale. Mi
meravigliavo e mi spaventavo sempre di pi: ma come avevo potuto
non capire fino in fondo con chi avevo a che fare, e perché lei
si era decisa a vendere per tre rubli la sua verginità? Sì, la
verginità! Mi chiamò:
“Chiudete la finestra, c’è molto rumore, e venite da me.”
Tornai nell’oscurità dietro al tramezzo, mi misi seduto sul
letto e, trovando e baciando la sua mano, cominciai a dire:
“Perdonatemi, perdonatemi...”
Lei chiese impassibile:
“Pensavate che fossi una vera prostituta, ma soltanto molto
sciocca oppure pazza?”
Io risposi in fretta:
“No, no, non pazza, pensavo soltanto che foste ancora poco
esperta, nonostante già sapeste che alcune ragazze in certe note
case chiuse indossano l’abito ginnasiale.”
“Perché?”
“Per sembrare più innocenti, più attraenti.”
“No, non lo sapevo. Semplicemente non ho un altro vestito. Ho
finito il ginnasio soltanto questa primavera. Poi papà è morto
all’improvviso – mamma è morta da molto tempo – e da
Novoscerkassko sono venuta qui, pensando di trovare lavoro tramite
un nostro parente e di fermarmi a casa sua, ma lui si è messo a
importunarmi, e io l’ho colpito e ho cominciato a passare le
notti sulle panchine del giardino pubblico... Credevo di morire,
quando sono entrata da voi. E ho visto subito che in qualche modo
volevate mandarmi via.”
“Sì, mi sono trovato in una situazione sciocca,” dissi. “Ho
acconsentito a lasciarvi passare semplicemente così, per noia,
con le prostitute non ho mai avuto a che fare. Credevo che sarebbe
entrata una comunissima ragazza di strada, che le avrei offerto il
tè, ci avrei scambiato qualche parola, ci avrei scherzato un
po’, e poi le avrei semplicemente regalato due o tre rubli...”
“E invece sono entrata io. E fino all’ultimo momento ho
cercato di tenere a mente una cosa sola: tre rubli. Ma è venuto
fuori qualcosa di assolutamente diverso. Adesso non capisco più
niente...”
Non capivo più niente neppure io: l’oscurità, il rumore della
pioggia a dirotto dietro le finestre, una ginnasiale di
Novoscerkassko, di cui fino a quel momento non conoscevo neanche
il nome, distesa sul letto accanto a me... e poi quei sentimenti
verso di lei, che a ogni istante, in modo sempre più
incontenibile, crescevano dentro di me... Dissi a fatica:
“Che cosa non capite?”
Lei non rispose. Io a un tratto spensi la luce: di fronte a me
scintillarono i suoi grandi occhi neri, pieni di lacrime. Si alzò
bruscamente e, mordendosi le labbra, abbandonò la testa sulla mia
spalla. Io le sollevai il viso e mi misi a baciare la sua bocca
contratta e bagnata, abbracciandole tutto il corpo con la lisa
camicetta che le era scesa dalla spalla. Nella follia della
compassione e della tenerezza vidi i suoi piedi impolverati e
olivastri di fanciulla...
Più tardi, la stanza si riempì attraverso le tende abbassate del
sole del mattino, e noi stavamo ancora seduti a parlare sul divano
dietro al tavolino rotondo. Per la fame aveva finito di mangiare
il panino e di bere il tè freddo rimasto dalla sera precedente, e
continuavamo a baciarci le mani.
Lei rimase in albergo, io tornai per quel giorno in campagna, e
l’indomani partimmo insieme per le terme.
Volevamo trascorrere a Mosca l’autunno, ma passammo sia
l’autunno che l’inverno a Jalta. Lei iniziò ad avere la
febbre e a tossire, le nostre stanze odoravano di creosoto. E a
primavera la seppellii.
Il cimitero di Jalta è su di un’alta collina. E di lì in
lontananza si scorge il mare, mentre dalla città si vedono le
croci e i monumenti funebri. E tra questi, probabilmente ancora
adesso biancheggia una croce di marmo su di una delle tombe a me
più care. Non la vedrò mai più: Dio misericordioso ha
allontanato da me questo tormento.
(Tratto dal libro “L’ultimo
appuntamento”, Besa Editrice, Lecce, 2000, traduzione di Franca
Strologo)
Vincitore del premio nel 1933,
Ivan Bunin (Voronez 1870 – Parigi 1953) nacque ad un’antica
famiglia aristocratica. Sin dalla giovinezza dorata, trascorsa
negli stessi luoghi di Turgenev e Tolstoj che furono i suoi
modelli letterari, praticò l’esercizio della scrittura secondo
i canoni della grande narrativa nobiliare russa di cui resta,
probabilmente, l’ultimo grande esponente. Abbandonato il proprio
paese dopo la rivoluzione bolscevica, si stabilì definitivamente
in Francia. Molte le sue opere tradotte in Italia: Il villaggio
(Milano 1933), Valsecca (Lanciano, 1933), L’amore di
Mitja (Milano 1934), La vita di Arsen’ev (Milano
1966), Viali oscuri (Roma 1988) e L’affare dell’alfiere
Elaghin (Palermo 1992).
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