HURBINEK
Primo Levi
Brano tratto dal romanzo : “La
tregua”, di Primo Levi
Fuori dai vetri, benché nevicasse fitto, le funeste strade del
campo non erano piú deserte, anzi brulicavano di un viavai
alacre, confuso e rumoroso, che sembrava fine a se stesso.
Fino a tarda sera si sentivano risuonare grida allegre o
iraconde, richiami, canzoni.
Ciononostante la mia attenzione, e quella dei miei vicini
di letto, raramente riusciva ad eludere la presenza ossessiva, la
mortale forza di affermazione del piú piccolo ed inerme fra noi,
del piú innocente, di un bambino, di Hurbinek.
Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di
Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di
lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome,
Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle
donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci
inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato
dalle reni in giú, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come
stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto,
saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione,
della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La
parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli,
il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza
esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi
maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era
carico di forza e di pena.
Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un
robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek
passava accanto alla cuccia dì Hurbinek metà delle sue giornate.
Era materno piú che paterno: è assai probabile che, se quella
nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un
mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare; certo meglio
che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo
ubriacavano di carezze e di baci, ma fuggivano la sua intimità.
Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola
sfinge, immune alla potenza triste che ne emanava; gli portava da
mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili,
prive di ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese, con
voce lenta e paziente. Dopo una settimana, Henek annunciò con
serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek «diceva una
parola». Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non
ungherese: qualcosa come «mass-klo», «matisklo». Nella notte
tendemmo l'orecchio: era vero, dall'angolo di Hurbinek veniva ogni
tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per
verità, ma era certamente una parola articolata; o meglio, parole articolate
leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema,
a una radice, forse
a un nome,
Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti
ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavamo in silenzio,
ansiosi di capire, e c'erano fra noi parlatori di tutte le lingue
d'Europa: ma la parola di Hurbínek rimase segreta. No, non era
certo un messaggio, non una rivelazione forse era il suo nome, se
pure ne aveva avuto uno in sorte; forse (secondo una delle nostre
ipotesi) voleva dire «mangiare», o «pane»; o forse «carne»
in boemo, come sosteneva con buoni argomenti uno di noi, che
conosceva questa lingua.
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non
aveva mai visto un albero, –
Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino
all'ultimo respiro, per conquistarsi l'entrata nel mondo degli
uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il
senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato
col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morí ai primi giorni del
marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui - egli
testimonia attraverso queste mie parole.
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