LA CAUSA SEGRETA

Machado de Assis

da “VARIAS HISTORIAS” (1896)


Garcia, in piedi, fissava le sue unghie, che ritornava a sfregare l’una con l’altra; Fortunato, sulla sedia a dondolo, guardava il tetto; Maria Luisa, vicino alla finestra, finiva un ricamo. Da cinque minuti nessuno diceva una parola. Avevano parlato della giornata che era stata eccellente, di Catumbì, il quartiere dove abitavano Fortunato e la sua signora, e di una clinica di cui si parlerà più avanti. Siccome i tre personaggi qui presenti sono ora morti e sepolti, è venuto il momento di raccontare la storia senza indugi.

Avevano parlato anche di un’altra cosa oltre alle tre accennate, una cosa più grave e spiacevole che tolse loro il gusto di chiacchierare della giornata, del quartiere e della clinica. Tutta la conversazione su questi argomenti sembrò forzata. Ancora adesso le dita di Maria Luisa tremavano e il viso di Garcia era sopraffatto da un'espressione di serietà che non gli era abituale. In verità quello che accadde fu di natura tale che, per farlo capire, è necessario ritornare all’origine della situazione.

Garcia si era laureato in Medicina l’anno prima, nel 1861. Nel 1860, mentre frequentava ancora l’università ebbe modo di incontrare Fortunato per la prima volta, all’ingresso dell’ospedale della città; l’uno entrava mentre l’altro usciva. Lo colpì la sua figura, ma se fosse stato solo per questo, l’avrebbe dimenticato, se non fosse capitato un secondo incontro pochi giorni dopo. Abitava in via D.Manuel. Una delle sue rare distrazioni era andare al Teatro di S.Januario, che si trovava lì vicino, tra questa strada e la spiaggia; vi andava una o, al massimo, due volte al mese, e non vi trovava mai più di una quarantina di persone. Solo i più intrepidi osavano addentrarsi in quel recesso della città. Una sera, mentre era seduto sulla poltroncina, arrivò Fortunato e si sedette vicino a lui.

Lo spettacolo era una drammone ricamato a coltellate e arricciato da imprecazioni e rimorsi, ma Fortunato lo seguiva con particolare interesse. Negli slanci dolorosi la sua attenzione raddoppiava, gli occhi passavano avidamente da un personaggio all’altro, tanto che lo studente pensò che vi fossero, nel dramma, reminiscenze personali del vicino. Alla fine del dramma ci sarebbe stata una farsa; ma Fortunato non aspetto e uscì: Garcia lo seguì. Fortunato passò dal vicolo do Cotovelo, poi in via S.Josè fino al largo da Carioca. Camminava lentamente, a capochino, fermandosi di tanto in tanto per dare un colpo col bastone a qualche cane che dormiva; il cane cominciava a guaire e lui proseguiva. Nel largo da Carioca entrò in un tilburì1, e proseguì costeggiando i lati della piazza da Costituiçao. Garcia tornò a casa senza saperne più niente.

Passarono alcune settimane. Una sera, verso le nove, era in casa quando udì uno scompiglio per le scale; scese dalla soffitta in cui abitava fino al primo piano, dove viveva un impiegato dell’Arsenale Militare. Era proprio lui, insanguinato, che alcuni uomini trasportavano per le scale. Il nero che lo serviva, corse ad aprire la porta; l’uomo gemeva, le voci erano confuse, la luce poca. Deposto il ferito sul letto, Garcia disse che era necessario chiamare un medico.

- Ne sta arrivando uno, rispose prontamente qualcuno.

Garcia guardò: era lo stesso uomo dell’ospedale e del teatro. Immaginò che fosse parente o amico del ferito, ma rigettò la supposizione, dopo avergli sentito domandare se questo aveva parenti o persone care. Il nero rispose di no, e allora l’uomo prese in mano la situazione, pregò le persone estranee di andarsene, ricompensò coloro che lo avevano aiutato a trasportare il ferito e dette i primi ordini. Avendo saputo che Garcia era un vicino e uno studente di medicina gli chiese di rimanere per aiutare il medico. Successivamente raccontò ciò che era successo.

- E’ stata una banda di capoeiras2. Io tornavo dalla caserma de Moura dove ero andato a visitare un cugino, quando sentii una gran confusione e subito dopo una rissa. Pare che abbiano ferito anche un passante che era entrato in quel vicolo, ma io vidi solamente questo signore, che attraversava la strada nel momento in cui uno dei capoeiras, scontrandovisi, lo colpì con un pugnale. Non perse subito i sensi, mi disse dove abitava e siccome era a due passi, ho pensato che fosse meglio portarvelo.

- Lo conosceva prima? Domandò Garcia.
- No, non l’avevo mai visto. Chi è?
- E’ un brav’uomo, un impiegato dell’Arsenale Militare. Si chiama Gouveia.
- Non so chi sia.

Il medico e un poliziotto arrivarono poco dopo, fu fatta la medicazione e furono chiesti i particolari dell’accaduto. Lo sconosciuto dichiarò di chiamarsi Fortunato Gomes da Silveira, d'essere benestante, scapolo, residente in Catumbì. La ferita fu subito diagnosticata come grave. Durante la medicazione, assistito dallo studente, Fortunato fece da aiutante, tenendo la bacinella, la candela, i panni, con la massima attenzione, guardando freddamente il ferito che gemeva. Alla fine, si consultò con il medico, lo accompagnò fino al pianerottolo e disse al poliziotto che sarebbe rimasto a sua disposizione per contribuire alle indagini. I due uscirono, lui e lo studente rimasero nella stanza.

Garcia rimase sbigottito. Lo guardò e lo vide sedersi tranquillamente, stirarsi le gambe, mettere le mani nelle tasche e guardare negli occhi il ferito. Gli occhi erano chiari, color piombo, si muovevano lentamente e possedevano un’espressione dura, secca e fredda. Sul viso magro e pallido, portava una striscia di barba stretta, corta, rossiccia e rada, che faceva il giro da una tempia all’altra passando sotto al mento. Avrà avuto una quarantina d’anni. Ogni tanto si voltava verso lo studente e domandava qualcosa sul ferito che tornava a fissare mentre il ragazzo rispondeva. La sensazione che lo studente riceveva era di ripugnanza e, allo stesso tempo, di curiosità; non poteva negare che stava assistendo ad un atto di dedizione e, se era disinteressato come sembrava, non c’era che da accettare il cuore umano come un pozzo di misteri.

Fortunato uscì poco prima dell’una; tornò i giorni successivi, ma la cura fece effetto in fretta, e, prima che fosse conclusa, sparì senza dire al beneficiato dove abitava. Fu lo studente a dargli le indicazioni, ovvero il nome, la via e il numero.

- Non appena potrò, andrò a ringraziarlo del bene che mi ha fatto, disse il convalescente.

Corse a Catumbì sei giorni dopo. Fortunato lo ricevette quasi controvoglia, ascoltò spazientito le parole di ringraziamento, contraccambiò con una risposta infastidita e concluse sbatacchiando la balza della vestaglia sulle ginocchia. Gouveia, di fronte a lui, seduto in silenzio, lisciava il bordo del cappello con le dita, alzando gli occhi di quando in quando, senza trovare niente da dire. Dopo nemmeno dieci minuti, chiese il permesso di uscire e uscì.

- Attento ai capoeiras! Gli disse il padrone di casa, ridendo.

Il povero diavolo uscì mortificato, umiliato, mandando giù a fatica lo sdegno, sforzandosi di dimenticarlo, spiegandolo o perdonandolo, affinché nel cuore restasse solo la memoria del beneficio; ma lo sforzo fu vano. Il risentimento, ospite nuovo ed esclusivo, entrò cacciando il beneficio, in modo tale che quest’ultimo non ebbe altra possibilità che arrampicarsi fino alla testa e rifugiarsi lì come semplice idea. Così, fu lo stesso benefattore ad iniettare in quest’uomo il sentimento dell’ingratitudine.

Tutto questo adombrò Garcia. Questo ragazzo possedeva in germe, la facoltà di decifrare gli uomini, di decomporre i caratteri, aveva la passione per l’analisi, e sentiva di avere il dono, che credeva fosse supremo, di penetrare molti strati della morale, fino a raggiungere il segreto di un organismo. Pizzicato dalla curiosità, pensò di andare a trovare l’uomo di Catumbì, ma si rese conto che questo non lo aveva formalmente invitato. Era necessario quanto meno un pretesto, ma non ne trovò nessuno.

Un po' di tempo dopo, essendosi già laureato e abitando in via de Mata-cavalos, vicino a quella do Conde, incontrò Fortunato in una gondola3, lo incontrò altre volte ancora, e la frequenza portò la familiarità. Un giorno Fortunato lo invitò ad andarlo a visitare lì vicino, a Catumbì.

- Sai che mi sono sposato?
- Non lo sapevo.
- Mi sono sposato quattro mesi fa, ma potrei dire quattro giorni. Dai, ti aspetto domenica, vieni a cena da noi.
- Domenica?
- Non ti mettere ad inventare delle scuse: non le ammetto. Restiamo d’accordo per domenica allora?

Garcia andò. Fortunato gli offrì una buona cena, ottimi sigari e una buona conversazione, in compagnia della sua signora, che era una persona interessante. La sua figura non era molto cambiata; gli occhi erano le stesse barre di stagno, dure e fredde; gli altri tratti non erano più attraenti che anteriormente. Gli ossequi, tuttavia, se non riscattavano la natura, la ricompensavano in parte, e non era poco. Maria Luisa, invece, aveva entrambe le qualità, nella persona e nei modi. Era magra, gioiosa, con gli occhi dolci e sottomessi; aveva venticinque anni, ma non ne dimostrava diciannove. Garcia, la seconda volta che andò a trovarli, capì che tra loro c’era una certa dissonanza di carattere, poca o nessun'affinità morale, e, da parte della moglie verso il marito, dei modi che trascendevano il rispetto e confinavano nella rassegnazione e nel timore. Un giorno, trovandosi tutti e tre insieme, Garcia domandò a Maria Luisa se conosceva le circostanze in cui aveva conosciuto il marito.

- No, rispose la ragazza.
- Allora gliele racconto, è una buona azione.
- Non vale la pena, interruppe Fortunato.
- Lascia stare, sarà la signora a decidere, insistette il medico.

Raccontò il caso di Via D.Manuel. La ragazza ascoltò spaventata. Poi dolcemente posò la mano sul polso del marito e lo accarezzò, sorridente e grata, come se finisse di scoprirgli il cuore. Fortunato scrollava le spalle, ma non ascoltava con indifferenza. Alla fine fu lui stesso a raccontare la visita che gli aveva fatto il ferito, con tutti i dettagli della figura, dei gesti, le parole impacciate, i silenzi, insomma, un tipo bislacco. E rideva molto nel raccontarlo. Non era un riso falso. La falsità è evasiva e obliqua; il suo riso era gioviale e franco.

“Che uomo singolare!” pensò Garcia.

Maria Luisa restò sconsolata per il sarcasmo del marito; ma il medico le restituì la soddisfazione precedente, tornando a riferire la sua dedizione, le sue rare qualità d'infermiere, un infermiere davvero provetto, concluse, che avrebbe sicuramente assunto, se un giorno avesse fondato una clinica medica.

- Per davvero? Domandò Fortunato.
- Per davvero, cosa?
- Apriamo una clinica?
- Ma no, stavo scherzando!
- Ma magari si può fare, e, per te che sei agli inizi, lavorare in una clinica sarebbe davvero ottimo. Ho proprio un locale sfitto che potrebbe essere utile.

Garcia continuò a rifiutare sia quel giorno che quelli successivi; ma l’idea era entrata nella testa dell’altro e non fu più possibile tirarsi indietro. Per la verità, era un buon punto di partenza e poteva finire con l’essere un investimento proficuo per entrambi. Pochi giorni dopo, alla fine, accettò e fu una delusione per Maria Luisa. Creatura nervosa e fragile, soffriva solo all’idea che il marito dovesse stare a contatto con le infermità umane, ma non osò opporsi e si rassegnò. Il progetto fu iniziato e terminato in fretta. La verità è che Fortunato non si curò più di nient’altro né allora né dopo. Aperta la clinica, volle esserne l’amministratore e il capo degli infermieri; acquistava tutto, ordinava tutto, e si curava di ogni cosa, dal materiale medico al brodo, dalle medicine ai conti.

Garcia poté allora osservare che la dedizione al ferito di Via D.Manuel non era stato un caso fortuito, ma faceva parte della stessa natura di quest’uomo. Lo vedeva servire come nessuno degli addetti. Non si tirava indietro di fronte a nulla, non conosceva molestia afflittiva o repellente, e era sempre pronto a tutto in qualsiasi ora del giorno e della notte. Tutti rimanevano incantati. Fortunato studiava, prendeva parte alle operazioni, ed era l’unico ad utilizzare gli acidi per le cure.

- Ho molta fiducia nell’azione benefica degli acidi, diceva.

La comunione di interessi strinse i lacci dell’intimità. Garcia diventò familiare nella loro casa; lì cenava quasi tutte le sere, da lì osservava la persona e la vita di Maria Luisa, la cui solitudine morale era evidente. E la solitudine ne duplicava l’incanto. Garcia cominciò a sentire che qualcosa lo agitava quando lei appariva, quando parlava, quando lavorava silenziosa in un angolo della finestra o suonava al piano melodie tristi. Quatto quatto, l’amore gli entrò nel cuore. Quando se ne rese conto, volle cacciarlo affinché tra lui e Fortunato non ci fosse altro legame che quello dell’amicizia; ma non poté. Poté solo rinchiuderlo; Maria Luisa comprese entrambe le cose, l’amore e il silenzio, ma non lo fece capire.

All’inizio di ottobre successe un fatto che rivelò ulteriormente agli occhi del medico la situazione della ragazza. Fortunato si era messo a studiare anatomia e fisiologia, e si occupava nelle ore libere di scuoiare e avvelenare cani e gatti. Siccome i lamenti delle bestiole turbavano gli ammalati, Fortunato trasferì il laboratorio a casa, e la moglie, di costituzione nervosa, ne soffrì. Un giorno, tuttavia, non sopportando oltre tutto questo, andò da Garcia e gli chiese di convincere il marito ad interrompere tali esperimenti.

- Ma perché lei stessa non...

Maria Luisa rispose sorridendo:

- Lui, naturalmente, penserebbe che sono una bambina. Quello che le chiedo è che lei, in qualità di medico, gli dica che tutto questo mi fa male, e creda è così...

Garcia riuscì a convincere l’altro a cessare tali studi. Se li andò a fare da un’altra parte, nessuno lo sa, ma può darsi di sì. Maria Luisa ringraziò il medico sia a nome suo che degli animali che non poteva vedere soffrire. Ogni tanto tossiva; Garcia le domandò se si sentisse qualcosa, ma lei rispose che non aveva niente.

- Mi lasci almeno sentire il polso.
- Non ho niente, davvero.

Non mostrò il polso e si ritirò. Garcia rimase in pensiero. Sospettava, al contrario, che potesse avere qualcosa, e che fosse necessario avvisare il marito per tempo.

Due giorni dopo, - esattamente il giorno in cui li vediamo da ora, - Garcia andò a cena a casa loro. Nella sala gli dissero che Fortunato era nello studio, così vi andò; arrivò proprio nel momento in cui Maria Luisa stava uscendo, scossa.

- Che succede? Le domandò.
- Il topo! Il topo! Esclamò la ragazza in modo soffocato mentre si allontanava.

Garcia si ricordò che, il giorno prima, aveva sentito Fortunato lamentarsi di un topo, che gli aveva rosicchiato un documento importante; ma era lontano dall’immaginare ciò che vide. Vide Fortunato seduto al tavolo che aveva al centro dello studio, sul quale aveva posto un piatto con dell’alcool. Il liquido fiammeggiava. Tra il pollice e l’indice della mano sinistra stringeva uno spago, alla punta del quale pendeva il topo legato per la coda. Nella mano destra teneva un paio di forbici. Nel momento in cui Garcia entrò, Fortunato tagliava al topo una delle zampe; successivamente avvicinò l’infelice alla fiamma, con un gesto rapido per non ucciderlo, e poi si dispose a fare lo stesso con la terza, visto che già gli aveva tagliato la prima. Garcia rimase immobile inorridito.

- Uccidilo subito! Gli disse.
- Fra un attimo.

E con un sorriso unico, riflesso di un’anima soddisfatta, qualcosa che traduceva la delizia intima delle sensazioni supreme, Fortunato tagliò la terza zampa al topo, e fece per la terza volta lo stesso movimento fino alla fiamma. Il miserabile si torceva, guaendo, sanguinante, bruciacchiato ma non si decideva a morire. Garcia distolse gli occhi, ma subito li riportò alla scena, e stese la mano per impedire che il supplizio continuasse, ma non arrivò a farlo, perché quel diavolo d’uomo gli metteva paura con tutta quella serenità radiosa della fisionomia. Mancava l’ultima zampa; Fortunato la tagliò molto lentamente, accompagnando le forbici con lo sguardo; la zampa cadde, e lui restò a fissare il topo mezzo cadavere. All’avvicinarlo per la quarta volta fino alla fiamma dette ancora maggiore rapidità al gesto, per salvare, se fosse stato possibile, altri stralci di vita.

Garcia, di fronte, riusciva a dominare la ripugnanza dello spettacolo per fissare il viso dell’uomo. Né rabbia, né odio; solamente una tale vasto piacere, quieto e profondo, come avrebbe dato ad un altro l’ascolto di una bella sonata o la vista di una statua divina, qualcosa di simile alla pura sensazione estetica. Gli sembrò, ed era vero, che Fortunato lo aveva interamente dimenticato. Stando così le cose, non stava fingendo, e doveva essere proprio quello. La fiamma moriva, il topo stringeva ancora un residuo di vita, ombra dell’ombra; Fortunato ne approfittò per tagliargli il musetto e, per l’ultima volta, avvicinare la carne al fuoco. Alla fine lasciò cadere il cadavere nel piatto e allontanò da sé tutta questa mistura di bruciaticcio e sangue.

Alzandosi si rese conto del medico ed ebbe un soprassalto. Allora si mostrò arrabbiato con l’animale, che gli aveva roso il documento; ma la collera senza dubbio era finta.

“Castiga senza rabbia”, pensò il medico, “per la necessità di provare una sensazione di piacere che solo il dolore altrui gli può dare: è il segreto di quest’uomo.”

Fortunato esagerò l’importanza del documento, della perdita che gli aveva comportato, perdita di tempo è ovvio, ma il tempo ora gli era preziosissimo. Garcia ascoltava senza dire una parola, senza dargli credito. Ripensava ai suoi gesti, gravi e lievi, e trovava la stessa spiegazione per tutti. Era lo stesso scambio di tasti della sensibilità, un dilettantismo sui generis, una riduzione di Caligola.

Quando Maria Luisa tornò nello studio, poco dopo, il marito le si avvicinò ridendo, le prese le mani e le disse pacatamente:

- Fifona!

E girandosi verso il medico:

- Ci credi, se ti dico che per poco sveniva?

Maria Luisa difese la sua paura, disse che era nervosa e donna; dopo si sedette alla finestra con i suoi aghi e fili, le dita ancora tremanti, come l’abbiamo vista all’inizio di questa storia. Si dovrebbero ricordare che dopo aver parlato di alcune cose, restarono tutti e tre in silenzio, il marito seduto con lo sguardo rivolto al tetto, il medico stuzzicandosi le unghie. Poco dopo andarono a cena; ma questa non fu allegra. Maria Luisa era assorta e tossiva; il medico si chiedeva se non fosse esposta a qualche eccesso in compagnia di un uomo tale. Era appena possibile, ma l’amore mutò la possibilità in certezza, soffriva per lei e decise di tenerli sotto controllo.

La ragazza tossiva, tossiva, e non passò molto tempo che la malattia gettò la maschera. Era la tisi, la vecchia dama insaziabile, che succhia tutta la vita, fino a lasciarti nelle ossa il vuoto. Per Fortunato la notizia fu un duro colpo; amava veramente la moglie, a suo modo, e si era ormai abituato a lei, soffriva all’idea di perderla. Non si risparmiò in sforzi, dottori, aria buona, tutte le risorse e tutti i palliativi. Ma fu vano. La malattia era mortale.

Negli ultimi giorni, in presenza dei tormenti supremi della ragazza, l’indole del marito soggiogò qualsiasi altro affetto. Non la lasciò un attimo; fissò i suoi occhi spenti e freddi su quella decomposizione lenta e dolorosa della vita, bevve ad una ad una le afflizioni della bella creatura, adesso magra e trasparente, divorata dalla febbre e minata dalla morte. Egoismo asprissimo, affamato di sensazioni, non le perdonò un solo minuto di agonia, né li pagò con una sola lacrima pubblica o privata. Solo quando spirò, egli rimase stordito. Riprendendosi, vide che era un’altra volta solo.

Di notte, poiché era andata a riposare una parente di Maria Luisa che l’aveva aiutata a morire, erano rimasti nella sala Fortunato e Garcia a coprire il cadavere, entrambi assorti; ma il marito era stanco, il medico gli disse di andare un poco a riposare.

- Riposati, dormi almeno un’ora o due, dopo andrò io.

Fortunato uscì, si andò a stendere sul sofà nella saletta vicina e si addormentò immediatamente. Venti minuti dopo si svegliò, voleva riprendere sonno, dormicchiò alcuni minuti, fin quando si alzò e tornò nella stanza. Camminava in punta di piedi per non svegliare la parente, che dormiva lì vicino. Arrivato sulla soglia della porta si fermò sorpreso.

Garcia si era avvicinato al cadavere, aveva sollevato il velo e stava contemplando i lineamenti della defunta. Subito dopo, come se la morte avesse spiritualizzato tutto, si chinò e la baciò sulla fronte. Fu in quel momento che Fortunato arrivò sulla porta. Si fermò sorpreso; non poteva essere il bacio di un amico, era l’epilogo di un libro adultero. Non era geloso, sia chiaro; la natura lo aveva creato in modo tale che gli fossero estranee sia la gelosia che l’invidia, ma gli aveva dato la vanità che non è meno prigioniera del risentimento. Guardò atterrito, mordendosi le labbra.

Nel frattempo Garcia si era chinato nuovamente per baciare un'altra volta il cadavere, ma questa volta non ci riuscì. Il bacio scoppiò in singhiozzi, e gli occhi non riuscirono a contenere le lacrime che ora venivano a getti, lacrime di un amore muto e irrimediabilmente disperato. Fortunato alla porta dove era rimasto, gustò tranquillamente quest'esplosione di dolore intimo, che fu lunga, molto lunga, deliziosamente lunga.

Note:

(1) - Caratteristico modello di carrozza utilizzata per il trarsporto di passeggeri.
(2) - Banda di delinquenti che imperversava a Rio de Janeiro alla fine dell’Ottocento praticando la tradizionale mistura di danza e lotta chiamata “Capoeira” e originaria di Bahia.
(3)- Carrozza che dispone di più posti.


(Traduzione dal Portoghese di Cecilia Sartori)




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