INTIMITÀ
Giorgio
Bona
“L’ho
fatta chiamare perché mi tocca comunicarle una brutta
notizia: suo padre è mancato poche ore fa. Aveva un
tumore alla vescica. Mi ha telefonato sua sorella, perché desiderava
che lei sapesse”
L’uomo abbassò gli occhi e solo un disperato
sentimento di orgoglio gli permise di trattenere le lacrime.
“Se c’è qualcosa che posso fare per lei….. volentieri…..”
“Nulla. Grazie di tutto.”
Mi permetta di insistere, domani sarà trasferito all’Elba, al carcere
di Porto Azzurro e in queste poche ore che deve rimanere ancora qui, se avesse
bisogno…..”
“Nulla. Grazie.”
Uscì dall’ufficio del direttore senza aggiungere altro. Si fermò davanti
al grande cancello che accede alle celle per la solita perquisizione che tocca
a tutti i detenuti, poi la pesante inferriata si rinchiuse con un tonfo sordo
che risuonò a lungo. La chiave fece clic e il mondo esterno restò alle
sue spalle.
Al
mattino, quando la guardia aprì la cella, l’uomo
si fece trovare pronto. Il cellulare lo stava aspettando in
cortile per condurlo all’imbarco, dove un traghetto della
compagnia “Toremar” lo avrebbe portato a destinazione.
Indossava il vestito che un tempo definiva delle grandi occasioni, un gabardin
beige che acquistò prima di essere assunto come rappresentante di una
grande multinazionale dolciaria e alimentare e che inaugurò in occasione
del suo primo giorno di lavoro.
“Sono pronto,” disse.
La luce cominciava a filtrare e si intravedevano piccole zone di penombra mentre
percorreva il corridoio centrale. Quando la pesante inferriata si rinchiuse,
si voltò a guardare quello spazio contorto e oppresso che difficilmente
avrebbe cancellato dalla sua mente.
Sua
sorella avrebbe dovuto comunicargli per tempo la malattia di
papà. Avrebbe capito, lo avrebbe assorbito poco per
volta dentro di sé….. invece saperlo così all’improvviso,
venire a conoscenza da un estraneo di una questione così delicata…..
privata.
Buttò nell’acqua il mozzicone della sigaretta che aveva nervosamente
fumato e la seguì con gli occhi, finchè la scia spumosa della nave
la portò lontano dalla sua vista. Sentì il desiderio di scrivere
a sua sorella, perché la pagina lo invitava a riversare questo suo stato
d’animo. Nello stesso tempo, però, provava un sentimento astioso,
rancore lo chiamano, un malessere esistenziale che perseguitava da molto tempo.
Sono terribili le offese provocate dalla noncuranza e dalla superficialità,
perché presuppongono che non esista il rispetto per chi le subisce.
Il comportamento di sua sorella lo aveva umiliato e l’umiliazione è la
più grave delle offese, lo provava, lo avvertiva in sé, perché le
offese non si placano, lievitano nell’anima come larve e lì dimorano
con infinita pazienza.
Restavano sei lunghi, interminabili anni da scontare, tre li aveva già fatti,
così avrebbe avuto il tempo di curarle per benino quelle sue larve che
si sarebbero moltiplicate. Quante cose avrebbe voluto dire a sua sorella, piene
di rancore, di astio, ma era difficile mandarle via da dentro di sé.
Accartocciò il foglio ancora bianco e lo gettò in acqua e lo seguì con
gli occhi come aveva fatto col mozzicone di sigaretta.
Chiese
alla guardia se poteva togliergli le manette.
“Avrei bisogno di andare in bagno,” disse.
La guardia lo guardò con diffidenza. Avevano detto che non era pericoloso,
che si era sempre comportato bene, ma non si sentiva di assumersi questa responsabilità.
“Non pretenderà mica che faccia i miei bisogni con le manette? E
poi dove vuole che vada? Posso mica buttarmi in acqua per scappare?”
L’agente rimase immobile. Era un giovane sui ventiquattro o venticinque
anni e doveva avere anche poca esperienza nel suo lavoro.
Il detenuto gli porse le braccia e aspettò. Le chiavi girarono lentamente
e il ferro sembrò sciogliersi come burro intorno ai suoi polsi.
“Adesso vada pure in bagno e si ricordi di non chiudere la porta.”
Quando uscì, porse nuovamente i polsi e le manette scattarono con un rumore
secco e vibrante che conosceva bene e al quale era abituato.
Tornarono in cabina e si sedette sul bordo del letto. L’agente rimase in
piedi, appoggiato con la schiena alla porta e lo stava fissando intensamente.
Cosa starà pensando? Si chiese il detenuto. Si starà certamente
domandando: di quale reato si sarà macchiato? Cosa avrà commesso?
Non aveva mai rivolto spontaneamente parola alle guardie se non per estrema necessità.
C’era un divario tra un recluso e il suo custode, anche se quel piccolissimo
spazio accomunava a volte entrambi nella medesima drammatica realtà.
Eppure quel ragazzo si era comportato bene con lui. Un altro non avrebbe mai
acconsentito di togliere le manette.
“Da dove viene?” Gli chiese.
“Sono di Sassari,” rispose. “L’unica occasione di lavoro
che mi è capitata è questa ed ora eccomi qui.”
“Io non vorrei abusare della sua pazienza, ma da quando sono partito ho
in mente di scrivere una lettera e se lei fosse così gentile da levarmi
ancora questi ferri….”
“Non posso.”
“La prego. Ho le mani indolenzite. Mi permetta di scrivere due righe alla
mia famiglia.”
La guardia non si fece pregare a lungo e appena gli tolse le manette, l’uomo
si mise a frugare dentro un piccolo zaino tipo militare. Estrasse alcune salviette
e si rinfrescò il viso, poi prese un pacco di fogli da lettera.
“A lei non dispiace se mi isolo un po’ per scrivere. Vorrei stare
un po’ solo. Se non si fida può chiudere la porta a chiave e stare
di guardia.
Lo
avevano avvertito già all’interno del carcere.
Il medico alle prime gocce di sangue nelle urine aveva diagnosticato
un principio di calcolosi, poi l’ecografia e altri esami
più approfonditi evidenziarono la presenza di un polipo
nel canale dell’uretra.
“C’è qualcosa che non va, devo essere schietto con lei. Mi
dica solo se nella sua famiglia qualcuno era già affetto da tumore?”
Se avesse saputo del problema di suo padre avrebbe risposto al medico diversamente.
Così invece…..
Si appoggiò al tavolo e si prese la testa tra le mani. Pensava a tutte
queste cose e sentiva il sangue bollire in una rabbia convulsa. Erano le sue
larve, si muovevano in modo caotico e disordinato dentro di lui.
Non ricordò quanto tempo era rimasto concentrato su quel foglio, ma quando
la guardia entrò, aveva già scritto quanto desiderava.
Cara
Luisa,
ho appreso con grande dispiacere della morte di papà. Anche se lui non
aveva voluto dirmelo, almeno tu potevi comunicarmi per tempo la gravità del
suo male. Non me lo sarei mai aspettato da te, non credo neppure di meritarlo.
Vorrei anzittutto informarti sul mio stato di salute. Mi hanno trovato un polipo
alla vescica e dovrei sottopormi ad un intervento chirurgico.
Non ho ancora preso provvedimenti, ma gradirei che tu sapessi. Il medico mi ha
anche chiesto se qualcuno della mia famiglia avesse già in passato manifestato
disturbi simili e io ho risposto negativamente visto che non potevo sapere del
terribile male che stava consumando papà poco a poco.
Anch’io forse sono condannato, ma che possiamo fare?
“Si
prepari! Siamo arrivati!”
L’agente lo guardò, esprimendo una vaga espressione di tenerezza.
“Lei non si è neppure riposato un attimo in queste due ore e mezza”
“Non importa. Avrò tempo a lungo per riposare. Ho bisogno solo
di
una cortesia, dopo non le chiederò più nulla. Dovrebbe essere così gentile
da imbucarmi questa lettera.”
“Si rende conto di ciò che mi sta chiedendo? Lo sa che non sono
autorizzato a farlo? Potrei finire sotto inchiesta e perdere il posto.”
L’uomo sorrise appena.
“Certo che può. Basta volerlo.”
Aprì il suo sacco.
“Guardi questa busta, questi referti clinici. Io sono condannato. Ho ancora
qualche anno da scontare e forse non riuscirò neppure a saldare il mio
debito con la giustiziìa.”
Aveva evidenziato con un mutamento di tono quel “debito con la giustizia”,
marcandolo con un sorriso ironico.
“Questa lettera è strettamente riservata e l’ho indirizzata
a mia sorella. Preferirei non passasse al vaglio della censura, cerchi di capire,
mi aiuti….”
“Questo non posso farlo, mi dispiace.”
In quel momento la sirena del battello emise un sibilo prolungato.
“Presto! Si prepari! Siamo arrivati! Noi scendiamo dopo che sono scesi
gli altri passeggeri. Il cellulare ci starà aspettando.”
In pochi minuti scesero tutti e sulla nave era rimasto solo il personale di servizio.
L’altoparlante annunciava l’ultima traversata verso il continente.
Cercò di captare la provenienza di quella voce, ma non riuscì.
Quando gli ultimi residui sonori si dissiparono, ebbe l’impressione che
continuassero dentro di lui.
Strinse le mani al petto e accartocciò quella lettera che aveva scritto
durante la traversata, poi, con un gesto inconsueto, forse voluto, ritenne opportuno
che quelle cose dovevano restare ad alimentare i suoi pensieri, come quelle larve
che proliferavano con infinita pazienza.
Guardò quel foglio in balia delle onde ed emise un sospiro di prolungato
piacere.
Giorgio
Bona (1956) vive a Frascaro, un piccolo paese
sulle colline tra Alessandria e Acqui Terme.
Ha tradotto dall’inglese autori come Lee e Hamburger e
dal russo la raccolta antologica ”Fiabe dai Balcani a Vladivostock”.
Ha pubblicato “Newton” (poesie, Campanotto 1992), “Omaggio
il tempo” (poesie, Lietocollelibri 2002 finalista premio
Lorenzo Montano), “Ciao, Trotzkij” (racconti, Besa
2003).
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