C’ERA UNA VOLTA UN SOTTOTENENTE
Mário
de Carvalho
Un
passo in più sulla pista, uno in meno verso Lisbona,
diceva fra sé il tenente1 convincendosi che a ogni passo
si lasciava alle spalle un pezzo d’Africa.
Il ritmo dell’andatura degli uomini, disposti sul percorso
in due colonne, costituiva, infatti, il battito oscillatorio
dell’orologio che marcava il tempo del ritorno. Passatempo
di militari… modi di non pensare a nulla e di farsi beffe
della paura.
Il trillo d’un uccello – ma sarà stato, poi,
un uccello? – diede occasione al tenente di profanare una
volta di più, a fior di labbra, una poesia. Erano versi
di Sédar Senghor che successive generazioni di ufficiali
universitarî avevano totalmente distorto: J’écoute
le sang de l’Afrique lointaine et le chant de ton sang;
j’écoute le son de l’Afrique prochaine et
le saint de ton sang; j’écoute le son de l’Afrique
putaine et le chant de ton sein...
E quanto mancava ancora, destino porco, al crocevia di Nhambirre?
E quanti crocevia mancavano ancora a Lisbona, destino porco?
Maledetta terra di Nhambirre, una baracca di mattoni calcinati,
crivellati di pallottole e schegge, un recinto di bambù sfondato,
quattro croci di legno – prima erano otto – allineate
in un angolo dell’incrocio, la strategica, abituale meta
di quelle pattuglie.
Maledetta Nhambirre, maledetta Africa dei colori forti, del lerciume,
delle malattie immonde, della crudeltà insieme così animalesca
e quasi innocente. Che cosa ha da spartire il Tenente con quella
savana velenosa, con la truppa immensa, volgare, inconsapevole,
con quella guerra oltre confine? Lui non é di lì!
Alla malora quell’assenza di tiepidi tramonti, di sfumature,
di dolci mutazioni di luce! Non c’é crepuscolo in
questa terra. La savana non conosce mezze misure: desta il sole
e lo divora, in un rapido fiammeggiare di cieli roventi.
Il tenente rumina di continuo questa sua visione unilaterale
e un poco preconcetta dell’Africa: si sente spinto a esasperare
l’odio verso la terra in cui è stato mandato per
forza. Chi, in quei luoghi, può censurare il tenente per
la passionalità dei suoi giudizi o le lacune della sua
obiettività?
Lo scricchiolio dei passi sulla sabbia degli uomini che, con
le armi rivolte all’esterno, avanzano senza fretta calpestando
l’erba della savana, é ora l’unico segno di
vita nell’immensità dello spazio.
Quando quel baobab sarà ormai alle sue spalle, avrà fatto
cento metri in più, pensa il tenente, guardando l’albero
scheletrito che graffia l’orizzonte, dominando, nero, turgido,
inutile, la distesa d’erba.
Avevano oltrepassato il villaggio abbandonato, capanne di fango
sventrate in mezzo a un rado gruppo d’alberi nodosi e scuri,
tettoie crollate, immondizia sparsa dappertutto, resti di incendio;
avevano oltrepassato il vasto campo d’erba tagliata che
i soldati chiamavano “zuccapelata” per via del fatto
che una mitragliatrice aveva spazzato il terreno per ore, a tiro
radente, contro un nemico che ormai non c’era più;
avevano oltrepassato il dosso che esplosioni di granata avevano
disseminato di crateri e segnato di macchie scure, dove una certa
notte c’erano stati quattro morti.
Questa pista é la strada per Nhabirre. Figura nelle mappe
militari con il numero dodici. I soldati, tuttavia, le attribuiscono
nomi iperbolici o denigranti che variano con l’avvicendarsi
dei battaglioni. Era stata, un tempo, quando le imboscate erano
sicure, la “curva della morte”, subito dopo che a
Lisbona era uscito un film che aveva questo stesso titolo. Oggi
la chiamano “passeggiata domenicale”, giacché la
zona è diventata relativamente tranquilla, “praticamente
pacificata”, come dice lo Stato Maggiore, nonostante che
gli acquartieramenti siano periodicamente sotto tiro. Domani,
forse, avrà un altro nome, adeguato alle alterne sorti
della guerra e consono all’immaginazione della truppa.
A dire il vero, pensa il tenente – che un attimo prima
aveva deciso che il miglior refrigerio contro la canicola era
quello di non pensare a niente – a dire il vero, c’é chi
si trova in posti peggiori…
Ora gli uomini avanzano in fila lungo i bordi della pista, ben
distanziati l’uno dall’altro secondo le regole, con
le armi appoggiate sulle braccia incrociate e i coprifiamma che
sfiorano l’erba. Si procede senza fretta, con l’andatura
monotona e cadenzata di chi ha ancora molta strada davanti a
sé. Apre la fila il negro con funzioni di guida, vestito
con un dolmen logoro e brache strappate: costui non serve per
indicare la strada, giacché tutti la conoscono a memoria,
ma risulta utile nel caso di imprevisti dell’avanguardia
e come interprete negli sporadici contatti con la popolazione.
Il terreno smosso dai piedi lascia scorgere ogni tanto il giallo
luccicare di qualche capsula di cartuccia abbandonata, segno
di sparatorie che hanno coinvolto in altri tempi altri plotoni.
Come d’abitudine, il tenente occupa la decima posizione
nella fila, “una minchia di fila”, come dispone il
regolamento della contro-guerriglia. Non porta alcun distintivo.
Cammina ciondolante e sonnolento. Un passo in più sulla
pista, Lisbona più vicina...
L’operazione era stata annunciata dal plotone di comando
che, giorni prima, s’era stabilito nell’acquartieramento,
scaricato da elicotteri ronzanti. Era un gruppo che stava sulle
sue e manteneva le distanze. Prendevano il rancio per conto loro,
su quattro tavoli riservati. Dopo le esercitazioni, passavano
il tempo in un tiro a segno improvvisato, consumando munizioni
a volontà. Facevano esercitazioni speciali, in ore morte,
con grande baccano, disturbando la truppa normale che li mandava
al diavolo e nascondeva la testa sotto il cuscino. Così come
erano arrivati, se ne erano anche andati, in elicottero, con
grande sollievo di tutti: fazzoletto al collo e maniche abbottonate
sui polsi, inappuntabili come sempre.
Con la partenza del plotone di comando, però, si scatenò l’agitazione.
La notte stessa, il nuovo capitano aveva convocato gli ufficiali
nella sala operativa e, dopo qualche frase cortese su argomenti
futili, si era curvato, con giovialità ironica, sulla
mappa:
“
E’ in corso, signori miei, l’operazione Millepiedi.
Per alcuni di voi, meno entusiasti, potrebbe essere una soddisfazione
sapere che, una volta di più, resteremo ai margini. Vedo
già la delusione nei vostri sguardi, bramosi di azione
e scintillanti di bagliori guerrieri. Tuttavia, si sa, la strategia
la fa il comando... Non é ancora la volta buona... andrà meglio
la prossima...”.
Con voce professorale, scandita, aveva poi fatto seguire spiegazioni
tattiche, punteggiate di riferimenti a numeri e quote. Il tenente
aveva lasciato vagare il pensiero e a fatica aveva compreso ciò che
gli toccava di fare, quando il comandante aveva ricapitolato:
“
Allora siamo intesi: qui al crocevia di Nhabirre, chi arriva
per primo occupa la posizione e resta in attesa. Stabilito il
contatto, inverte la marcia e se ne torna alla base: il tenente
Malhares seguendo la pista di Mafala e il tenente Torres seguendo
la pista del Cantineiro; occhi aperti e senza fretta. Tutto chiaro?
Niente dubbi?”
S’erano
mossi alle cinque della mattina, con razioni da combattimento
per due giorni, come d’uso. Il tenente di quella strada
ne aveva le tasche piene, la conosceva fino alla nausea. Tutti
i punti di riferimento li aveva scolpiti nella memoria, con
le relative distanze e i particolari del percorso. Fra poco
avrebbe incontrato i filari di acagiù, poi lo spino
a forma di mano, poi il posto dove avevano trovato il leone
morto, poi il dosso dove avevano ucciso a colpi di granata
quel vecchio negro che sparava a bruciapelo, poi la collina
dell’imboscata di settembre, poi l’adansonia, baobab
o come cavolo si chiamava, sempre coperto di uccelli, più avanti
la radura piena di foglie e rami secchi, poi...
Uno scatto metallico, secco, nitido, deflagrò nell’aria.
La fila s’immobilizzò. Quasi curvi sulle loro automatiche,
gli uomini scrutavano ogni angolo, in una tensione feroce e vigile.
Nel mezzo della pista, il tenente non si mosse. Stava fermo,
rigido, le braccia leggermente discoste dal corpo, il volto pietrificato,
lo sguardo fisso davanti a sé. Reggeva la propria arma
per il coprifiamma come un funambolo che usa un contrappeso per
mantenere un precario equilibrio.
“
Ho pestato una mina!”
“
Ho pestato una mina, cazzo!”, disse di nuovo, quasi senza
muovere le labbra, rivolto al furiere che si avvicinava inquieto.
E c’era nelle parole del tenente un tono di profonda tristezza,
più che grave o compenetrato.
“
Signor tenente, per amor di Dio, non si muova”, replicò l’altro
sconvolto, con ampi gesti destinati a tranquillizzare il superiore.
Per qualche istante la ragione del tenente restò completamente
offuscata, come se egli si trovasse in un luogo lontano, immune
dall’agitazione che lo circondava. Il cuore gli batteva
nel petto con ritmica violenza. Il furiere vedeva chiaramente
il suo volto livido, le labbra bianche e si dimenava accanto
a lui in un profluvio di parole e avvertimenti che il tenente
non udiva più. Lo spazio intorno era andato sfocandosi
repentinamente in una grigia confusione di masse e volumi. Un
dolore sottile, mobile, aveva preso a percorrere il suo corpo,
frugandogli le budella, il petto. Sentiva le estremità quasi
doloranti, di gelo, e il sangue che rifluiva e tumultuava caoticamente
con il cuore che andava a briglia sciolta. In rapida sequenza,
il piede che aveva pestato la mina ora gli pareva un pesante
ceppo di piombo piantato a terra per l’eternità,
ora un’estremità vuota, abbandonata, di una leggerezza
eterea, fluttuante, quasi dormiente al mormorio della brezza.
Il breve scatto metallico del percussore, clic, definitivo, gli
tornava all’orecchio ripetutamente, in una successione
di palpitanti risonanze.
“
Calma - mormorava il tenente sottovoce, senza udire se stesso –,
calma, calma!”
A poco a poco, gli tornava la lucidità e si facevano chiari
i particolari di ciò che lo circondava. All’angoscia
della paura venne a mescolarsi un tremendo senso di ingiustizia
e il tenente fu preso da una profonda pietà per se stesso,
ingenua, tenera, infantile:
“
Ma perché doveva capitare proprio a me?”.
Sentì che nel suo profondo tornava ad affiorare la propensione
al pianto di quando era piccolo, ma subito i meccanismi di controllo
dell’adulto presero il sopravvento, e fu il tenente a urlare:
“
Ma che diavolo ci fate tutti qui in massa? I nostri furieri non
ricordano più che é proibito far gruppo sulla pista?
Credete di essere al giardino zoologico?”.
Imprudentemente i soldati facevano cerchio intorno a lui, turbati
e smarriti. S’udiva un sommesso mormorare di voci, quasi
rispettoso. Il tenente scorgeva ora i volti tesi, attenti, gli
occhi sgranati, le bocche spalancate. E insistette con furia:
“
Allontanatevi da qui! Volete saltare tutti in aria? ”.
Tutte le energie risvegliate dalla paura gli si erano mutate
in rabbia e la voce gli usciva stridula, quasi in falsetto:
“
Furieri, disponete la truppa per reparti, vicino a quell’albero!”.
Al comando dei furieri, i soldati si allontanavano contrariati,
lanciando ripetute occhiate dietro di sé. Gesti di incoraggiamento,
voci incerte:
“
Non si distragga, signore, calma, signore...”.
I soldati erano adesso schierati, a gruppi di sette, nel luogo
indicato, una radura coperta di rami secchi e sassi. Tutti gli
occhi erano fissi sul tenente che, a gambe larghe, molto rigido,
reggeva la G-3 con movimenti cauti e squadrava la truppa accigliato:
“
Voglio tutti in posizione di combattimento! Questa non é Rua
Augusta! Furiere Mendes; venga un po’ più vicino,
ma senza oltrepassare quel ciuffo d’erba!”.
L’altro prese ad avvicinarsi, curvo in avanti, con la bocca
schiusa in una grande “o” di paura.
“
Comunichi la situazione alla base e dica che mandino quelli della
sezione artificieri!”.
Il furiere s’avviò verso l’addetto alle trasmissioni
e il tenente si dispose a passare un brutto quarto d’ora,
un eternissimo quarto d’ora. A quella distanza dagli altri
si sentiva molto solo. Gli tornò in mente il detto del
filosofo antico secondo cui i marinai sono separati dalla morte
dal solo spessore delle tavole di legno che li tengono a galla.
Lui si vedeva separato dalla morte da un piccolo movimento, un
leggerissimo slittamento, una frazione di frazione di secondo...
Dalla morte? Dalla mutilazione, che é ancor peggio! Si
immaginava amputato, senza un piede, senza una gamba, senza...
Il tenente non voleva essere lì. Ancora una volta si rammaricava
di non essere scappato a Parigi come avevano fatto altri, per
l’ingenuità di voler andare dove andava il popolo,
per essere al fianco del popolo in uniforme. Il suo dovere...
Il suo sfoggio di fermezza, di coerenza, di coraggio... di fronte
alla sorpresa dei suoi colleghi che studiavano sulle carte topografiche
i guadi del Guardiana. E, alla fin fine, tutto il contatto con
il popolo s’era ridotto alla trasmissione di ordini calati
dall’alto, chiacchiere. Faceva la sua parte di ufficiale
ma, dentro la divisa, invecchiava rapidamente. Di notte giocava
a bridge, imprecava contro le zanzare, contro la guerra, contro
la vita, si sbronzava di whisky dell’Amministrazione Militare.
Il Popolo, che ne era del popolo?
In pieno sole, il sudore gli scorreva dalle tempie, dalla testa,
in rivoli pastosi che gli impregnavano la mimetica. Lentamente
passò l’arma nella mano destra, s’appoggiò su
di essa come su un bastone, sganciò la borraccia con gesti
cauti, si fece scorrere parte dell’acqua sul capo e buttò giù alcuni
sorsi.
“
Sia prudente, signor tenente, non si muova!”, gli gridavano
da lontano.
“
Non preoccupatevi, non preoccupatevi”, rispose con voce
bassa e strascicata.
Sparpagliati lungo il bordo rialzato della pista, da una parte
e dall’altra, i soldati non riuscivano a distogliere lo
sguardo dal tenente, affascinati dallo straordinario spettacolo.
“
Sono nervoso”, diceva uno.
“
Lui sta peggio di te – rispondeva un altro -, che situazione
di merda...”
Un po’ più lontano, agli ordini di due furieri,
un piccolo gruppo falciava erba con i coltelli da foresta, preparando
una radura per l’elicottero.
“
Se facesse un rapido balzo di lato forse potrebbe cavarsela”,
commentava uno.
“
Ma finiscila di dire cazzate! – ringhiò il furiere
spazientito -. Non sai che l’esplosione sarebbe istantanea,
non appena diminuisse la pressione? O pensi che i movimenti di
un uomo possano essere più veloci della corrente elettrica?
E se ci fosse collegata una bomba da aereo, eh?”
“
Ma, chissà...”, s’ostinava il soldato solo
per ostinarsi.
“
Vorrei proprio vederti al posto del tenente con tutte le tue
trovate. Se vuoi ti preparo una bella mina per far la prova.
Razza di bestie...”.
“
Non c’é bisogno d’offendere, furiere...”.
“
Quanto a me, se fossi al posto del tenente mi sarei già cagato
addosso”, ammise un altro.
Risero tutti a crepapelle. E continuarono a falciare.
“
E se ora, per massima sfiga, ci attaccassero?”, pensava
il tenente.
L’idea gli fece venire i brividi, sentì una stretta
alla bocca dello stomaco e fu preso da una sensazione diffusa
di malessere, di agonia. Immaginò di lasciarsi cadere,
di abbandonarsi al proprio destino, facendola finita una volta
per tutte con quella situazione.
Poco prima osservava con avidità, in un poetico commiato,
tutti i particolari di ciò che lo circondava, i colori,
i contorni.
Faceva una sorta di bilancio della propria vita. Aspirò profondamente
l’aria intorno a sé dicendo addio agli odori della
savana, per quanto, a dire il vero, in quel luogo l’Africa
non avesse odori particolari. Era un uomo imbottito di letteratura
il nostro tenente e, anche nei momenti estremi, non resisteva
a vedersi come un personaggio.
Era terrorizzato, di un terrore tanto più doloroso in
quanto doveva essere controllato, in una padronanza completa
del corpo. Accettava questa paura come naturale e sapeva che
nessuno avrebbe potuto esigere da lui una reazione diversa.
Più sorprendente, più strano, incomprensibile per
lui, era la condizione di chi è immune dalla paura, con
la conseguente evidenza che gli uomini non si possono misurare
tutti con lo stesso metro. La saggezza dei popoli insegna, dogmaticamente,
che é nelle situazioni di pericolo che si conoscono gli
uomini. E’ falso – pensava l’ufficiale -, nelle
situazioni di pericolo si conoscono soltanto gli uomini nelle
situazioni di pericolo.
Gli tornò alla memoria il primo attacco alla colonna motorizzata
con cui era giunto al nord. Senza sapere come, s’era ritrovato
dietro le ruote del Unlmog, in mezzo a un inferno di esplosioni
e raffiche di automatiche. Accanto a lui s’era seduto tranquillamente
un sergente della Sussitenza che aveva preso a rosicchiare una
crosta di pane, calmo come se stesso facendo un picnic.
“
Lei, signore, ha le labbra tutte bianche”, gli aveva sussurrato
con un forte accento dell’Alentejo, per poi aggiungere: “ Non
corriamo nessun rischio, stia tranquillo. Puntano troppo alto,
quei tipi devono avere veramente una mira schifosa...”.
Proprio quel sergente era stata l’unica perdita del battaglione.
L’avevano beccato steso sotto la vettura con una pallottola
di rimbalzo che gli aveva perforato il cranio.
Tanto coraggio e ardita disinvoltura inutilmente sprecati. E
il sergente non era uno speciale, era un poveraccio qualunque
della Sussistenza. Senza quell’esibizione di “sangue
freddo sotto il fuoco nemico”, come dicevano i comunicati
ufficiali e gli encomi, il tenente avrebbe avuto per lui lo stesso
condiscendente disprezzo che provava per la maggior parte dei
sergenti.
Poco lontano, un soldato disse a un altro:
“
I capelli gli diventeranno bianchi, gli diventeranno bianchi
ti dico! Quanto ci scommettiamo?”.
Il camerata, però, non rispose. Stava con l’orecchio
teso.
Un rombo sommesso, fluttuante, proveniva dalle profondità del
cielo. Gli uomini alzarono la testa, uno dopo l’altro,
scrutando lo spazio. Un furiere cominciò a saltellare
facendo ampi gesti di richiamo con le braccia tese.
L’elicottero, volando alto, oltrepassò la colonna,
volteggiò ronzando, cominciò a perdere quota a
poco a poco, finché dal basso si poterono distinguere
i volti dell’equipaggio. Infine, seguendo le indicazioni,
andò a posarsi delicatamente nella radura, sollevando
tutt’intorno un denso turbine di sabbia e polvere.
A distanza, il tenente, da sopra le spalle, vide tre uomini scendere
dall’elicottero: il caporale infermiere, il tenente medico
e il capitano. Scaricarono una barella che due soldati posarono
sulla pista. Il tenente aveva fatto affidamento nell’arrivo
degli artificieri e la contrarietà gli si dipinse sul
volto con un ghigno di nervosismo che, di lontano, nessuno notò:
“
Adesso sì che posso stare tranquillo con questi soccorsi
del cazzo!”.
Trascorsi i primi momenti nei quali gli uomini, curvi e trattenendo
il berretto con le mani, provvidero a sottrarsi ai vortici d’aria
provocati dalle pale dell’elicottero, il tenente assistette,
infastidito, al serio colloquio che intercorse, per qualche attimo,
tra i due ufficiali e i furieri. Questi ultimi, subito dopo,
si rivolsero ai loro reparti: il tenente udì urlare ordini
e vide che gli uomini si muovevano e si radunavano lungo la pista
scuotendosi la polvere di dosso.
Lasciandosi alle spalle il medico e l’infermiere, il capitano
si avvicinò, con le mani dietro la schiena, con andatura
tranquilla, come stesse passeggiando nel cortile della caserma.
Secondo il suo solito, in violazione dei regolamenti, invece
della mimetica da combattimento, indossava la divisa normale,
con galloni bene in vista sulle spalline. Non camminava né troppo
lento né troppo veloce, procedendo indolente e sicuro.
Non era neppure armato.
“
Che ci fa qui questo? che vuole?”, si domandava deluso
il tenente, mentre lo vedeva avvicinarsi man mano, sempre con
lo stesso passo.
Come gli altri ufficiali, e forse per ragioni diverse, il tenente
non impazziva d’amore per il capitano. Costui era un uomo
ancora giovane, magro, secco, impettito, precocemente promosso
per esigenze di guerra. Coltivava una impassibilità ostentata,
a lungo studiata. Si rivolgeva sempre ai sottoposti con un disprezzo
cortese, non raramente sarcastico, e non trattava mai i subalterni
con familiarità. Era l’unico ufficiale che desse
del lei ai soldati. Non beveva più del dovuto né diceva
parolacce. Anche durante la campagna bellica, esigeva, freddamente,
che fossero rispettati tutti i rituali della vita di caserma.
Di notte, restava isolato nella sua stanza e non partecipava
ai momenti di vita comune con gli altri ufficiali. Indossava
sempre la divisa verde oliva, con il basco marrone, e nessuno
lo aveva mai visto con la mimetica. Si era dato un modello, uno
stile personale, cui restava meticolosamente fedele.
Allo stesso schema aveva uniformato il proprio comportamento
in occasione dell’ultimo assalto all’acquartieramento.
Nel cortile si stava disputando una partita di calcio tra celibi
e ammogliati - saranno state circa le tre del pomeriggio - quando
orecchi esercitati distinsero il caratteristico tonfo soffocato,
tipo “porta di frigorifero”, che annunciava i mortai.
“
Colpi di mortaio!”, gridò qualcuno e, in un batter
d’occhio, i soldati abbandonarono il cortile precipitandosi
al riparo, mentre il plotone di guardia correva a prendere posizione.
Il capitano, per parte sua, era rimasto appoggiato alla porta
della sala operativa. Quando esplosero le prime granate, con
la loro miscela di terra e luce, il capitano si drizzò e
prese ad avanzare lentamente attraverso il piazzale. Camminava
eccessivamente teso, con movimenti rigidi, come gli ubriachi
quando tentano di mascherare la sbronza. Durante il tragitto,
non breve, tenne sempre le mani dietro la schiena. Sapeva che
gli uomini lo stavano osservando attraverso le feritoie dei loro
rifugi e si preparava ad immolarsi sull’altare della propria
immagine. Indifferente alle schegge che fendevano l’aria
per ogni dove, s’avvicinò con passo calmo a una
mitragliatrice Breda che si trovava in un angolo del piazzale,
sistemata sopra il treppiede. Si sedette a terra e assunse la
posizione di fuoco, lentamente. Quella mitragliatrice, però,
era in attesa d’essere smontata e oliata. Non c’erano
munizioni. Per tutto il tempo del bombardamento, che durò circa
un quarto d’ora, fino a quando l’artiglieria cominciò a
rispondere al fuoco, il capitano restò dove si trovava,
immobile, le mani incrociate sopra il calcio di quell’inutile
mitragliatrice, sussultando leggermente ad ogni deflagrazione.
Allorché l’operazione ebbe fine, gli uomini trovarono
il capitano che li attendeva alla porta di uno dei rifugi, molto
serio e con aria imperturbabile. Nessuno fece con lui il più vago
commento su quanto accaduto, né egli prese mai l’iniziativa
di introdurre l’argomento.
Memore del comportamento di quel semplice sergente della Sussistenza,
il tenente mise a confronto i due tipi di “sangue freddo
sotto il fuoco nemico” e concluse che il capitano era un
uomo molto pauroso.
“
Allora, tenente, un contrattempo irritante, vero? C’est
la guerre...”.
Stava di fronte a lui e lo guardava fisso, con un sorriso forzato,
sfumato di una vaga benevolenza paterna.
“
Questi ufficiali che non vogliono capire che i regolamenti della
contro-guerriglia ci sono per essere applicati... Ogni uomo deve
mettere il piede nell’orma di quello che lo precede!”.
Il tenente andava infuriandosi dentro di sé: al diavolo
le recriminazioni! A che cosa serviva tirarle fuori adesso? Voleva
forse che gli facesse il saluto militare, lì sul posto,
e gli fischiasse l’inno nazionale?”.
Si limitò, tuttavia, a mormorare sinceramente:
“
Non pensavo che ci fossero mine su questa pista, capitano...”.
“
Routine, vero? La routine é sempre il miglior alleato
del nemico. Pensandoci bene, lei é stato persino fortunato.
Non sono per nulla frequenti le mine di questo tipo”.
Sospirò, scuotendo leggermente la testa, pose una mano
sulla spalla del tenente e gli rivolse la più ovvia delle
raccomandazioni:
“
Ora é necessario mantenere la calma, tutto si risolverà ”.
Poi, dopo aver lanciato al tenente uno sguardo intenso, di sentita
solidarietà di guerra, disse:
“
Sono certo che capirà: non posso lasciare qui un intero
gruppo da combattimento solo per via di questo incidente. Resta
un reparto, gli altri proseguono, al comando del furiere con
maggiore anzianità”.
E, fatto un cenno di saluto, voltò le spalle al tenente.
“
Capitano!”.
“
Eccomi”.
“
Capitano!”
“
Dica pure!”.
“
Gli artificieri non vengono?”.
“
Pare che ci sia una piccola difficoltà. Ma stia tranquillo
che é tutto a posto... Del resto, se sarà necessario,
io stesso disinnescherò la mina”.
In breve era nuovamente fra gli uomini, in mezzo alla pista,
in posizione di “alt”. Attese un attimo, poi fece
un gesto con un braccio come per dire “in marcia!”.
E la truppa, lenta, si mise in marcia con l’interprete
negro davanti.
A uno a uno, gli uomini saltarono il bordo rialzato della pista
e scomparvero fra l’erba, producendo rumore di stoppie
spezzate e provocando onde in superficie. Ricomparvero più avanti,
riprendendo ordinatamente il sentiero tracciato. Passando di
fronte al tenente, la maggior parte di loro lo salutò di
lontano con gesti di incoraggiamento o di commiserazione: “Tenga
duro, signore; calma signore...”.
In breve, l’ultimo della colonna disparve in lontananza,
con un ultimo cenno di saluto. Per qualche tempo ancora, i sensi
vigili del tenente poterono scorgere, sopra l’erba che
occultava la pista, la lieve nuvola di polvere sollevata dai
soldati. Certamente avrebbe potuto ancora distinguere lontani
brandelli di voci e tintinnî metallici, se il capitano,
di nuovo al suo fianco, non avesse attirato la sua attenzione
su di sé:
“
Vede? – diceva – Una colonna in marcia, per quanto
usi ogni cautela, lancia sempre all’intorno segnali della
propria presenza. Per questo é sempre avvantaggiato chi
combatte dall’altra parte. La guerriglia voglio dire...
Hum... Aspetti un attimo che arrivo...”.
Seduti a terra, il medico e l’infermiere non distoglievano
lo sguardo dal tenente, impalato in mezzo alla pista, e seguivano
l’andirivieni del capitano. Il medico fece un segno di
saluto e ricevette in risposta una smorfia di traverso che, a
quella distanza, non poteva distinguere chiaramente. Il capitano
aveva proibito ai due di avvicinarsi e il medico provava un vago
senso di rimorso per il fatto di essere totalmente impotente
a soccorrere il tenente. Non sapeva neppure come confortarlo.
Quando gli venne a tiro, domandò al capitano:
“
Allora, capitano?”.
“
Non c’è da preoccuparsi...”, rispose l’altro
fra i denti, continuando in direzione dell’elicottero.
Il medico optò per fingere un atteggiamento giocoso e
rilassato e berciò una battuta circa il rischio d’una
trasformazione in albero. La spiritosaggine suonò falsa
e non fu apprezzata da nessuno. Il tenente, tuttavia, trovò la
forza di ribattere:
“
Vorrei vedere te al mio posto!”.
In risposta gli toccò l’ormai inevitabile invito:
“
Calma, ingegnere, calma eh!”
Il tenente, però, era stanco. Sentiva le spalle oppresse, la testa pesante,
il riverbero del sole lo tormentava. S’appoggiava con forza alla G 3. E
se la gamba gli si fosse addormentata? E se gli fosse venuta una insolazione?
E se gli fosse preso un crampo?
Stringeva i denti, chiudeva gli occhi e sopportava il lento passare del tempo,
l’approssimarsi della morte, al ritmo del flusso sanguigno.
Più lontano, i soldati parlavano ad alta voce. Alcuni suggerivano che
il tenente, con molta cautela, sfilasse il piede dallo stivale preventivamente
riempito di olio e saldamente fissato al suolo con contrappesi; altri consigliavano
che si bloccasse la mina intorno al piede con lastre di metallo caricate di pietre.
“
Silenzio!”, ordinò il furiere all’avvicinarsi del capitano.
Questi, però, aveva udito le parole del soldato:
“
Dunque – urlò -, lei pensa di essere molto furbo, vero? Crede che
sia la prima volta che succede un fatto simile? Ha scoperto l’acqua nel
pozzo, vero? Vuole provare a mettere in pratica le sue stupide idee e risolvere
il problema? Allora, che sta aspettando? Non faccia il timido e vada! Vada a
mettere le sue manine sulla mina e salvi il tenente, forza!”.
Il soldato restava in silenzio, grottescamente impalato sull’attenti, le
orecchie in fiamme, le guance rosse, gli occhi che manifestavano il suo turbamento.
“
C’é qualcun altro furbone che abbia proposte da fare? -, domandò il
capitano fissando i soldati -. Allora si faccia silenzio una volta per tutte!”.
Dopo un nuovo colloquio con quelli dell’elicottero, il tenente lo sentì avvicinarsi
di nuovo, con un vago senso di fastidio, palesemente in contrasto con l’angoscia
patita poco prima, quando l’aveva visto allontanarsi.
L’elicottero si rimise in moto, in un turbinio di pale. Si alzò di
alcuni metri sulla savana, con un forte spostamento d’aria e sollevando
terra in ogni direzione, fece un giro sul posto, oscillò, e s’allontanò facendosi
sempre più piccolo nel cielo.
Il tenente fu preso da una sensazione ancora maggiore di sconforto, di abbandono,
nonostante che il capitano fosse di nuovo al suo fianco. Adesso stringeva in
una mano una bacchetta con la quale si frustava indolentemente la punta d’una
scarpa. Un poco discosti dagli altri soldati, il medico e il caporale infermiere,
ormai seduti sulla barella, stavano fumando con volto corrucciato.
“
Allora, come va tenente?”.
“
Lo vede anche lei come può andare, capitano...”.
Giorni prima, nella sala ufficiali, durante la commemorazione dell’anniversario
di qualcuno, il tenente medico, aveva giurato di conoscere molto bene quel capitano:
“
E’ un sadico! – assicurava ad alta voce, già ubriaco perso
-. Non é stato nel mio corso, é stato in un altro, ma tutti a Mafra
segnavano a dito quel tipo...”
Raccontò che il capitano era allora tenente, istruttore di tattica nel
secondo ciclo. Ricordavano quei grandi cani di Mafra, paciosi e amichevoli, che
accompagnavano sempre la truppa durante le esercitazioni? Ebbene, lui aveva ordinato
di catturare i cani e di legarli ai bersagli, nel poligono di tiro. Quindi, aveva
ordinato ai cadetti di sparare sugli animali. Il che doveva servire per forgiare
il loro carattere, aveva detto.
“
E ci furono alcuni stronzi capaci di prendere la mira e colpire il bersaglio – sbraitava
il medico, fulminando i presenti con uno sguardo accusatore -. Ci sono bastardi
pronti a tutto, state tranquilli che ci sono bastardi pronti a tutto...”.
Ricordarono al medico che la storia del massacro dei cani a Mafra era un luogo
comune, una leggenda antica almeno come quella del fantasma del capitano senza
testa. Egli, però, reso astioso dall’alcol, insisteva, berciando
e tirando pugni sul tavolo:
“
E’ stato proprio lui, parola mia! E’ stato lui! Un sadico di merda!”.
Il capitano, adesso, domandava, con bonomia curiosa e affabile:
“
Mi dica una cosa, tenente: allora, dov’é questa mina? Sotto il piede
destro?”.
Il tenente fece un debole segno affermativo con il capo e insistette, con voce
lamentosa e impastata:
“
Capitano, che ne é degli artificieri?”.
“
Sono stati avvertiti, non dovrebbero tardare. Nel frattempo, tenga duro. Quel
che poi succederà lo sa anche lei perché devono averglielo insegnato
ai corsi: scavano vicino al piede, lentamente, con molta cautela, portano la
mina allo scoperto, di lato, la comprimono da sopra, infilano una lastra metallica
tra il percussore e la suola e a quel punto lei é in salvo. Consideri
l’accaduto solo un brutto momento passeggero, un’avventura da raccontare
un giorno ai suoi nipoti. Ma ora devo liberarla di tutti questi accessori che
le pesano troppo addosso...”.
Il capitano teneva il piede molto vicino al luogo dove probabilmente si trovava
la mina. Con gesti spediti ed efficienti gli allentò le cinghie e lo liberò del
cinturone, dello zaino e del tascapane.
“
Sarebbe bene che lei si sforzasse di non essere né troppo teso, né troppo
poco. Non deve rilassarsi al punto di diminuire la pressione del piede, né essere
teso in modo da compiere un movimento falso. Intesi?”.
“
Permetta che glielo dica, capitano – disse il tenente -, ma non mi pare
prudente che lei si esponga in questo modo. La ringrazio molto della sua solidarietà,
ma...”.
“
Sciocchezze! Sono gli incerti del nostro mestiere...”
Il tenente esitò un attimo prima di rispondere, sommessamente:
“
A dire il vero, proprio del nostro no, capitano. Io non sono un militare, sono
ingegnere”.
“
Era ingegnere! Lo era! Adesso é un ufficiale come gli altri”, replicò il
capitano un po’ ruvidamente, mentre, curvatosi, posava a terra l’equipaggiamento
che gli aveva tolto:
“
Ma mi dica, com’è che è finito qui da noi? Qualche guaio?”.
“
La polizia politica ha fornito informazioni sfavorevoli. Politicamente sospetto.
Mi hanno sbattuto qui”.
“
Ah, ha avuto problemi con la polizia politica?”.
“
Sono stato dirigente studentesco, all’università”.
Il capitano scosse gravemente la testa:
“
S’era impicciato di quelle faccende... Non se ne cava mai niente di buono..."
Poi aggiunse con ironia:
"
Dal male può venir fuori un bene! Se fosse andata diversamente, non avremmo
il piacere della sua compagnia qui in zona operativa...".
Mentre il capitano stava dicendo queste cose, al tenente tornarono alla memoria
gli avvenimenti di quel pomeriggio, che sarebbero stati facili da raccontare
per chi avesse avuto poca immaginazione e un cuore obbediente. Non però per
il tenente, così esposto ai sussulti dei nervi e alle complicazioni dell'anima.
Ciò che egli ricordava era un turbine colorato di gente che correva in
ogni direzione, le grida, le pattuglie di poliziotti vestiti di grigio che sbucavano
dagli angoli delle strade, con il fischietto in bocca e le braccia alzate, mozziconi
di parole d'ordine scagliate a intrecciarsi nell'aria.
Si rivedeva mentre galoppava sulla passerella metallica sopra Rua do Carmo, con
la cartella stretta al petto.
"
Fallo ora il lancio, accidenti, profitta di questo momento!", gli ordinava
una collega, con gli occhi scuri spalancati e le guance arrossate per lo sforzo.
Lui si era appoggiato alla balaustrata e guardava di sotto, attraverso la rete.
Scorgeva, confusamente, il fluire discontinuo della folla, sviata dal suo trantran
quotidiano, mescolata a gruppi di poliziotti e di studenti in fuga.
Aveva messo la cartella sotto il braccio, vi aveva infilato le mani... Ma era
rimasto rigido, bloccato, incapace d'un solo gesto.
Era stata la ragazza a strappargli la cartella dalle mani e a gettarne in aria
il contenuto. I comunicati alla cittadinanza avevano riempito il cielo di bianco,
sollevati dal vento. Mentre lui era rimasto ancora a guardare - ora rischiando
di essere arrestato -, la ragazza, con gli occhi scuri, gli aveva restituito
la cartella con un gesto imperativo e s'era gettata a correre.
Non era stato capace... E quella codardia gli aveva lasciato una cicatrice nella
memoria.
Adesso il capitano gli stava chiedendo particolari circa il movimento studentesco,
circa gli studenti arrestati, voleva sapere se erano veramente tutti comunisti
come si diceva. A quanto pareva, si apprestava a una lunga e placida conversazione.
Debolmente, contro voglia, il tenente prese a dire banalità, raccontando
episodi varî, con ampi intervalli di silenzio, a voce lenta. Dentro di
sé, provava un senso di rivolta contro la situazione in cui si trovava:
far conversazione da salotto a cavallo d'una mina. Il capitano, tuttavia, impassibile,
non gli dava tregua: esclamazioni, richieste di chiarimenti, domande, silenzi
interrogativi... E si mostrava insaziabile nella sua curiosità.
Il tenente tentava di misurare le parole che gli venivano alle labbra annebbiate,
ansiose, titubanti, forse eccessive, a volte reticenti. All'angoscia della paura
si mescolava il timoroso disagio di poter riferire troppo.
Ma non gli raccontò, certo non gli raccontò di quella volta in
cui, sul far della sera, con una rivista sotto il braccio (era forse la Flama?),
stava aspettando qualcuno che aveva girato l'angolo d'una strada esattamente
alle sette in punto e gli aveva domandato con un sorriso:
"
Saprebbe indicarmi come si va alla Madre de Deus?".
"
Non saprei, sono arrivato proprio adesso da Guarda".
E neppure gli raccontò che era la ragazza dagli occhi scuri, quella che
aveva supplito alla sua codardia di molti mesi prima, che adesso gli parlava,
dolcemente, di affascinanti utopie. Era questo il suo sogno più insistente,
mentre in Africa sorseggiava bibite fredde, all'ombra delle reti mimetiche. "Per
te sono Vanda", aveva detto. Quale sarà stato il suo vero nome? Chissà se
un giorno avrebbe potuto rivederla e spiegarle quel suo improvviso trovarsi privo
di volontà, quella codardia della quale, per altro, lei non gli aveva
più parlato, ma che il tenente aveva intuito nitida, ben presente, nella
conversazione che aveva avuto con lei nel corso di una breve, magica passeggiata.
Il vero nome di quella ragazza? Probabilmente, nessuno l'avrebbe mai saputo...
Forse anche il capitano provava molta paura. Il tenente, però, non poteva
negare che aveva coraggio ad esporsi così alla possibile esplosione della
mina. Sarebbe stato, lui, capace di condividere il rischio di un subordinato,
come stava facendo adesso il capitano, sia pure per bravata? A conti fatti no.
E un sordo risentimento venne ad affliggere ancor più il tenente.
"
Io, in queste faccende di politica - diceva il capitano -, sono come l'acqua:
inodore, insapore, incolore. Ma le dico una cosa: sono convinto che, una volta
finita la guerra, il clima si farà più aperto, ci sarà una
liberalizzazione...".
"
Temo che si potrà cambiare solo con la forza, capitano", arrischiò il
tenente.
"
La forza? La forza ce l'ha l'esercito - rispose il capitano -. Certamente c'è scontento,
ci sono problemi di promozioni... ma da qui a... In ogni modo, fino a che dura
la guerra, non se ne parla".
"
La forza è il popolo che ce l'ha, capitano. Quando lo scontento diventerà insopportabile,
il popolo uscirà sulla strada. Poi, forse una parte dell'esercito si manterrà,
tutt'al più, neutrale".
"
Ma non ha visto che cosa è accaduto nel maggio del '68? De Gaulle ha accerchiato
Parigi con i blindati. Tutto sotto controllo. E la rivoluzione ha fatto puff,
sgonfiata. Senza i militari, niente da fare".
Nel frattempo, il tenente medico era snervato e, impaziente, si stava sfogando
con il furiere e il caporale:
"
Ma perché diavolo se ne sta lì a prendere per il culo quel poveraccio,
accidenti? Come se già non gli bastasse quella puttana di mina... Di nuovo
quel suo stupido sfoggio di coraggio! Sarà per la Croce di Guerra? Vorrà la
Croce di Guerra? Se dipendesse da me, gliela avrei già data, così non
romperebbe più le palle...".
Si alzò in piedi, fischiò forte, sventolò il berretto verso
il tenente e urlò:
"
Eeeeeh, si tenga su! Prima o poi finirà, vedrà!".
Il tenente fece un debole sorriso, mentre il capitano non si voltò neppure.
Si stava ora lanciando in profonde considerazioni sulla natura umana:
"
La pace, la pace... sempre uno stato transitorio tra due guerre - sospirava il
capitano -. Ha letto, lei, Alexis Carrel?".
Il capitano considerava la guerra e la violenza come le pulsioni più radicate
dello spirito umano. Da sempre e per sempre. Si trattava di un istinto vitale,
come l'istinto di sopravvivenza. Bastavano a dimostrarlo i cacciatori, i toreri,
e anche i calciatori... E citava, con buona memoria e in abbondanza, Senofonte,
Sallustio e Clausewitz.
Il tenente ascoltava, lo ascoltava, sorpreso di tanta erudizione. Ricordava che,
giorni prima, il capitano aveva pronunciato Madame Bovary all'inglese (Ma'am
Bow'v'ry) a proposito di un libro sopra una mensola e che aveva domandato a uno
dei medici che citava Manuel Alegre (Magari a Lisbona): chi é questo tizio?
E si rammaricava di non aver abbastanza vita a disposizione per approfondire
queste contraddizioni dell'anima umana.
All'improvviso, cambiò argomento di conversazione:
"
Dicono - balbettò -, dicono che prima che un uomo muoia, la sua vita gli
scorre davanti agli occhi come un film. Io non provo nulla!".
"
Sì, lo dicono - replicò il capitano -, ma è tipico degli
annegati. E poi, lasci perdere queste faccende! Qui non muore nessuno!".
Il tenente, però, era allo stremo:
"
Capitano, gli artificieri non arrivano...".
"
Calma, tenente...".
Il capitano ripeté la proposta di disinnescare lui stesso la mina e, ancora
una volta, spiegò al tenente il funzionamento del meccanismo e i gesti
precisi per disattivarlo. Pareva tenerci molto.
"
Non mi dica che non si fida?", esclamò davanti allo sconforto silenzioso
del tenente.
In quegli ultimi istanti di conversazione con il capitano, il tenente aveva dato
fondo alle ultime riserve di energia e di coraggio. Con sempre maggior frequenza
era percorso da un brivido. Immaginava i piedi sofferenti e gonfi, ceppi informi.
Intuiva le oscillazioni segrete, impercettibili, del piede destro che slittava
millimetricamente nella sabbia...
"
Dipende da lei, tenente. Ci pensi bene: se salta in aria, io salto con lei!".
Ma perché il capitano non lo lasciava morire da solo? Se si fosse lanciato
in avanti, sarebbe stato colpito alle spalle. Morte istantanea. Forse non avrebbe
neppure sofferto, forse non avrebbe neppure udito lo scoppio. Se, invece, l'esplosione
gli avesse spezzato la colonna vertebrale, se fosse rimasto paralizzato per tutta
la vita?
Sente un enorme peso sulle spalle e per il peso gli si piegano leggermente le
gambe. E’ ormai stanco il braccio con cui s'appoggia alla G 3, fortemente
confitta a terra. Trema. Vede, confusamente, il volto del capitano, ondeggiante,
imperlato di grosse gocce di sudore.
"
Non ce la faccio", dice fra sé, con rassegnato sconforto.
Un dolore acuto viene a perforargli il palmo della mano, serpeggia lungo il braccio,
strazia la spalla e tutto il fianco sinistro. Il capitano continua a parlare:
che parli, tanto lui non lo sente più. A fiotti le lacrime gli affluiscono
agli occhi. Sulle guance si mescolano a gocce di sudore e tracciano solchi nello
strato di polvere e sporcizia.
"
Madre mia!", sussurra il tenente, giacché è sempre della madre
che gli uomini si ricordano in certe circostanze.
"
Tenente, per favore non pianga. NON PIANGA! -, urla il capitano afferrandolo
per le spalle -. Le proibisco di piangere. Mi sente, razza di femminuccia?".
Ma la testa del tenente si inclina su una spalla, di lato.
Non risponde più al capitano. Tra i singhiozzi, la respirazione si fa
ansimante, spezzata.
Il medico, dal posto dove si trova, si accorge che qualcosa va storto.
"
Gente, cominciamo a cantare - dice -. Dobbiamo far coraggio al tenente".
E intona un canto con una voce acuta, per un istante sospesa in aria, alla quale
a mano a mano s'uniscono altre voci:
"
Parte il treno/parte e fischia...".
Il capitano, reggendo il tenente per le spalle, ha un moto di stizza. Ma lo esorta:
"
Ascolti, tenente, i soldati cantano".
"Non ce la faccio, capitano, mi lasci per favore!".
"
E porta con sé il mio amore bello/verso la vita militare/verso quella
triste vita...".
"
Ancora un istante, forza. Accidenti, ha resistito finora... Non ci deluda, tenente.
Tenga duro, che risolvo questa faccenda una volta per tutte".
Il capitano si inginocchia, sfila il coltello dal cinturone posato a terra, lo
pianta nel terreno, a pochi centimetri dallo stivale del tenente.
Il canto si interrompe di colpo.
"
Serve aiuto, capitano?", urla il furiere.
"
Resti dove si trova - risponde il capitano -. Mi arrangio da solo".
Il tenente, a questo punto, sussulta, oscilla, crolla esanime.
Il capitano si getta a terra con un grido, rotolando su se stesso. I soldati,
istintivamente, si lanciano al suolo e si coprono il capo con le braccia.
Silenzio, silenzio: nessuna esplosione.
Mentre
il soldato più lento ancora era intento a scuotersi
la sabbia dalla testa, il medico e l'infermiere si davano già da
fare attorno al tenente.
"
Portiamolo all'ombra, presto. Acqua! - urlava il medico, curvo
sul corpo dell'ufficiale -. Muoversi, cazzo!".
Trascinarono il tenente sotto un albero. Il medico gli sbottonò la
mimetica, con lo stetoscopio in pugno:
"
Ma che sta facendo? Gli metta la testa verso il basso. Si sbrighi!",
ordinò all'infermiere.
All'improvviso, dopo una breve esitazione, prese a dar pugni
sul petto del tenente. I colpi, ritmati, riecheggiavano sordi
lungo la pista. A gambe larghe, con la bocca aperta, il capitano
contemplava quei maneggi. A un certo punto, il medico desistette.
Ripose lo stetoscopio con gesti bruschi e comunicò al
capitano:
"
E' morto! Non ce l'ha fatta... Guarda che cazzo doveva capitare!".
Il furiere cominciò a frugare per terra nel punto dove
si trovava prima il tenente. Poi s'avvicinò. Comprimeva
fra le dita una piccola molla, di quelle usate in certe danze
popolari:
"
Clic, clac! Eccola qua la "mina"... ".
Tutti si guardarono l'un l'altro sentendosi a disagio...
"
Chiuda il becco! - Ordinò il capitano -. Faccia venire
l'elicottero per evacuare il morto. E che gli uomini si preparino
per il ritorno!".
In
quella stessa notte, il tenente medico, completamente ubriaco,
nel bel mezzo del cortile, prese ad accusare il capitano di
aver fatto mettere lui delle molle lungo la pista per forgiare
il carattere dei soldati.
"
Sadico, sadico del cazzo!", urlava.
Tutti potevano scorgere l'ombra del capitano che, dietro le gelosie, fumava lentamente.
Il medico alla fine si stancò e andò a coricarsi, piangendo, sorretto
da altri ufficiali.
Ormai, era noto a tutti che il capitano non aveva inviato alcun messaggio per
chiedere l'intervento degli artificieri.
1 - Nel corso del racconto, per ragioni di eufonia, “promuoveremo” il
sottotenente a tenente (N.d.T.)
(Tradotto
dal Portoghese da Goffredo Feretto, professore all’Università di
Genova)
Mário
de Carvalho, scrittore portoghese, è nato
a Lisbona nel 1944 e ha studiato Diritto presso l'Università della
sua città natale. A causa dell'impegno politico contro la
dittatura, il suo servizio militare è stato interrotto dalla
prigione, subita prima a Caxias, poi a Peniche. Nel 1974 ha dovuto
riparare in Francia e in Svezia, ritornando in Portogallo dopo
la "Rivoluzione dei garofani" del 25 aprile 1974. Avvocato
e giornalista, ha pubblicato il suo primo libro nel 1982, dopo
aver esordito in un volume antologico. Da allora, la sua carriera è stata
segnata da un crescendo di consensi da parte della critica e del
pubblico. Fra i suoi libri spiccano: A Paixão do Conde de
Fróis, Os Alferes, Era Bom que Trocássemos umas Ideias
sobre o Assunto, Um Deus Passando pela Brisa da Tarde.
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