L'ASSICURATORE
Lucio
Mastronardi
Sono
produttore nelle Assicurazioni Viginti Còmpani. Il direttore
delle Assicurazioni mi chiamò nel suo studio e mi disse:
–
Prosperi, sono due mesi due che non ha combinato un contratto!
–
Veramente sono in parola... dissi, ma il direttore mi interruppe.
–
Lasciamo andare le parole... Prosperi, io penso che lei manchi
di tatto, direi di sfumature! Quando va nelle case operaie si
ricorda di tenere in tasca caramelle?
–
Veramente no, dissi.
–
Molto male! Vuol mettere la simpatia che suscita nella povera
gente il mettere la mano in saccoccia, come per caso! e trovare
caramelle e darle – badi: darle, non distribuirle – ai
bambini? E quando ha a che fare coi padroni, si ricordi di cambiarsi
di muda a ogni visita, e noleggiare un' automobile che non sia
la solita utilitaria!
Mi guardò con severità, e io assentii.
–
Sfumature, disse, ma sapesse come contano 'ste sfumature! ...
Prosperi, la voglio aiutare, disse dopo una pausa, porgendomi
un biglietto con scritti due nomi e due indirizzi.
–
Questi sono due ossi polposi. La signora Franceschi possiede
stabili e terreni scoperti da polizze assicurative; padron Massari
ha piantato una fabbrica da poco.
Fece una pausa e con altro tono di voce seguitò:
–
Prosperi, per la continuazione del suo servizio è es–sen–zia–le
che lei riesca ad assicurare questi signori. Adoperi tutti i
mezzi possibili. Chiaro?
Con altro tono di voce disse:
–
Se ella riuscirà ad assicurare sia la Franceschi che il
Massari e magari qualche altro, oltre ai premi e al rimborso
noleggio macchina scatterà da produttore a coordinatore
dei produttori. Capito?
–
Coordinatore dei produttori? dissi. – Al lavoro, Prosperi!
disse il capufficio.
La smania s'impossessò di me. A diventare coordinatore
dei produttori ci tenevo molto, non solo per la differenza di
stipendio e di lavoro, ma perché avrei raggiunto la posizione
che il mio amico Paolo aveva da tempo raggiunto. Non che Paolo
mi facesse pesare la sua più elevata posizione, anzi,
cercava in tutti i modi di non farmi sentire la distanza sociale
che s'era stabilita fra noi, e io la sentivo con maggiore intensità;
e interpretavo i suoi sorrisi e i suoi saluti e le sue parole
come se mi manifestasse una specie di protezione.
Scesi nell'ufficio dei produttori e preparai il materiale burocratico
nella cartella.
–
Se mi va bene, dissi a Paolo, diventeremo colleghi!
–
In bocca al lupo, rispose Paolo con voce indifferente.
Mentre camminavo verso la casa della Franceschi pensavo che io
ero l'unico produttore che davo del tu a Paolo, mentre gli altri
si tenevano a rispettosa distanza; e pensavo che sia in me che
in lui ci fosse una certa compiacenza in questa familiarità,
che mi faceva sentire superiore ai miei colleghi e, nello stesso
tempo doveva rappresentare per Paolo come una concessione, un
privilegio che mi accordava. Se potessi venirgli pari, pensavo.
Passai dinanzi al mio stabile e incontrai mia moglie sul portone.
–
Amelia, sono in missione speciale, le dissi. Se mi va bene...
Queste parole mi sfuggirono e mi morsi la lingua. Amelia mi portò dietro
il portone, mi baciò.
–
Porta buono, disse restando abbracciata.
–
Lasciami andare, la supplicai. È troppo importante per
noi!
–
Vedrai che andrà tutto bene, disse lei.
–
A stasera, dissi strizzando l'occhio.
–
A stanotte, mormorò lei con un sorriso di complicità.
Arrivato davanti allo stabile della Franceschi, consultai la
carta topografica che avevo in borsa. Una lunga fetta di strada
apparteneva a quella donna. Tutti quegli stabili che vedevo erano
suoi.
Traversai una vecchia corte, salii una rampa di baselli sconnessi,
e bussai alla porta.
Sentii un leggero scalpiccio dietro l'uscio e mi tranquillizzai.
Dalla ringhiera guardavo quattro inquilini che facevano la fila
davanti al cesso, e urlavano contro quello che lo teneva occupato.
Siccome sono meridionale, quella scena mi fece piacere. L'uscio
si aprì e mi trovai dinanzi una donna piuttosto anziana,
avvolta in una trasandata palandrana, spettinata e con un' aria
che mi parve di diffidenza.
–
Disturbo?
–
Chi è?
La donna mi fissava con due occhi intensi che mi misero a disagio.
–
Sono della Viginti Còmpani Assicurazioni, dissi.
La donna seguitava a fissarmi. Si spostò, stette un momento
soprapensiero, mi fissò ancora, e con bagliori negli occhi
mi disse:
–
Entra!
Mi trovai in una vecchia stanza, con vecchi mobili. Sulle pareti
erano appesi quadri, quadretti e quadroni di Gesù in tutte
le pose, in tutti i colori. I quadri coprivano tutta quanta la
superficie dei muri, e gli occhi di Gesù, severi in alcuni
quadri, severissimi in altri, mi davano una sensazione di malessere.
Gli occhi della Franceschi che seguitava a fissarmi mi impressionavano.
Sedetti su di una poltrona che sembrava un vecchio trono e la
donna urlò: – Non sulla sedia del mio Dio! e mi
indicò il divano. Una branda arrangiata a divano, dov'erano
ammucchiate sottane e sottovesti e indumenti più intimi
dai colori contrastanti e vivi. Per sentirmi vivo e presente
in quell'atmosfera accesi una sigaretta. La Franceschi, da un
armadio, tirò fuori un lungo lenzuolo ricamato pieno di
parole scritte col filo, e coperse la poltrona, mormorando una
preghiera che non avevo mai sentita.
Quindi prese una sedia e la portò davanti a me. Dopo un
silenzio che non saprei dire se fosse più intenso o più angoscioso,
la donna sbottò in una risata.
–
Ho capito! Ho capito perché sei venuto! sussurrò.
Ma non posso... non posso essere tua ora... Il mio Dio non permette...
Stanotte è venuto il mio Dio e m'ha ripetuto: Giacinta,
se vuoi vincere devi soffrire!
Abbassò di più la voce e allargò di più gli
occhi.
–
Ti desidero ma non posso... Sono vergine da sei mesi e l'estrazione
della Lotteria di Monza è vicina... Cento milioni tutti
miei... me l'ha detto il mio Dio...
La donna si alzò, da un cassetto tirò fuori dei
biglietti della lotteria e ci si sedette sopra.
–
Ti piace questo bracciale? mi disse mostrandomi il polso fasciato
da un pesante bracciale d'oro. Me l'ha regalato il mio Dio! I
suoi occhi divennero fanatici. Mi farò sverginare da te!
Con cento milioni in tasca! disse, e gli occhi brillavano come
il bracciale.
–
Vorrei assicurare... tentai di dire, ma m'interruppe:
–
Dopo assicurerò... Ora ti farò vedere se sono o
no una grande donna!
Nascose i biglietti della lotteria in un cassetto; lo chiuse
a chiave si attaccò la chiave alla collanina; prese una
sottana dal mucchio e si nascose dietro al separé che
stava in un cantone. L'aria era calda per me, e mi guardavo attorno
pensando: è proprio reale.
–
Sono venuto per stipulare... dissi, e la voce mi suonò falsa.
–
Te l'ho già detto: dopo! rispose lei.
Mi comparve davanti in una sottanella corta corta. – Lalà,
urlò in un salto. Lalà, in un altro salto. Lalà lalà lalà lalà lalà lalà lalà;
a ogni lalà corrispondeva uno scatto ora su una gamba
ora sull' altra; lalà lalà lalà. Voglio
danzare per te! disse, e si mise a cantare.
Avanti
un piè uno
indietro un piè uno
ballerinetta della Scala
sembri un cigno in decolté
tre passi in qua un due tre
tre passi in là un due tre.
Me
la vedevo davanti volteggiare in quel sottanino da cui traspariva
un corpo avvizzito; le gambe, nervose e magre, si alzavano
e abbassavano.
Si buttò sfinita sulla sedia.
Prese un pigiama e me lo porse.
–
Mettitelo, disse.
Esitavo.
–
Allora niente contratto! disse.
Dalla finestra guardavo i tetti e le corti dei suoi stabili.
Cominciai a svestirmi. Ella si ritirò dietro il separé.
Poi, uscì in un' altra sottana.
–
Scalzati, mi urlò. Anzi no, urlò più forte.
Dal cassetto tirò fuori una fotografia ritagliata di giornale,
dove il papa lavava i piedi a un prete.
La Franceschi si inginocchiò, mi scalzò, quindi
si sdraiò e cominciò a baciarmeli.
–
Nessuna donna ti ha mai baciato qui! urlava.
Quindi prese un profumo e si bagnava le mani e me le passava
sulla faccia.
–
Signora... dissi.
–
Lalà, urlò con un scatto; lalà lalà lalà lalà.
–
Signora... ripetei.
–
Ho capito: vuoi vedere la mia camera da letto! disse.
Mi portò nella camera attigua dove statue e statuette
di santi, sparse per ogni dove, formavano come uno strano presepio.
–
Vediamo se sono in grazia, disse la Franceschi. Passava e volteggiava
fra quelle statue senza farle cadere, gridando: sono in grazia!
sono in grazia! Il mio Dio, il mio Dio!
–
Violentami! Violentami! mi urlò.
Io seguitavo a guardare i tetti delle case attorno.
–
Violentami! urlò ancora.
La donna cercava di provocarmi; la presi per il collo e lo strinsi,
e la buttai sul letto e lei mi piantò un calcio in quel
punto che mi fece urlare e cadere.
–
Ho vinto il serpente! urlava la Franceschi ballando sul letto.
Mi abbandonai su una sedia. La Franceschi mi venne vicino e mi
disse:
–
Perché insisti? Aspetta 1'estrazione della Lotteria.
Dall'armuàr
tirò fuori una riproduzione della Primavera del Botticelli.
–
lo sono così, disse.
Lalà lalà lalà lalà lalà
lalà lalà lalà lalà.1alà
lalà lalà lalà lalà lalà.
– Facciamo
atmosfera? disse poi.
–
Facciamo atmosfera, risposi.
La donna chiuse gli scuri e i vetri e le imposte interne e la
stanza diventò buia come fosse notte. Sentivo che si stava
spogliando.
–
Questo è il mio pigiama, disse buttandomi in cò la
sua sottana e le sue mutande. Passami i tuoi!
Mi denudai e le passai il pigiama che avevo addosso.
Per qualche ora si stette al buio, nudi. Avevo voglia di domandarle
se si assicurava o no ma mi sembrava una mossa sbagliata che
poteva compromettere tutto l'affare. Dopo una mezz'ora rischiai:
–
Si assicura?
–
T'ho detto di si!
La sua voce mi fece paura.
–
Andiamo! dissi.
–
Quando suonerà la campanella delle Sacramentine, rispose.
Dopo un po' di opprimente silenzio e ancora più opprimenti
respiri, sentii la campanella delle Sacramentine, e colpi per
terra. Mi accorsi che la Franceschi picchiava la testa sul suolo.
–
Io metto il tuo pigiama e tu il mio! disse la Franceschi.
–
lo non metto sottane, dissi fra i denti.
–
Non mi assicuro, allora?
–
E se la metto?
–
Allora mi assicuro! disse.
Indossai mutande e sottana. La Franceschi aprì gli scuri.
–
Fammi queste polizze! disse.
Con un sospiro tirai fuori le carte.
–
Allora per gli stabili.., dissi.
–
Già assicurati! disse lei.
–
Per i terreni...
–
Già assicurati! disse lei.
–
Cosa vuole assicurare? urlai.
–
I cento milioni che vincerò, disse.
La fissai. Era proprio convinta di quello che diceva.
Lo specchio dell' armuàr mi rifletteva in sottanella e
mutandine di seta e pizzo. Chiusi gli occhi pensando:
ho perso quattro ore.
Batteva
mezzogiorno quando mi trovai in strada.
Non me la sentivo di tornare in sede e affrontare il capufficio.
Stavo camminando per una strada operaia. Mi fermai a una drogheria,
comprai delle caramelle e andai a battere alla porta di un operaio.
Attorno alla tavola la famigliola stava mangiando.
Non c'erano bambini. Quelli che mi sembravano i figli dell' operaio
erano due ragazzi sotto la vetrina.
Sono produttore della Viginti Còmpani, dissi.
–
Ma a ca' sua as mangia no, stura ke? disse la donna dell'operaio.
–
E l'ora del nostro lavoro. Senò quando potrei trovarvi?
dissi.
L'operaio mi guardava la testa, poi lentamente il suo sguardo
camminò sulla mia faccia, sul petto, sullo stomaco, sulle
gambe fino ai piedi, quindi lentamente risalì per fermarsi
dove era partito.
–
Lei che è operaio, dissi, non ha mai pensato che le sue
mani a contatto dei macchinari podarìano maciullarsi?
domandai.
La parola maciullarsi risuonò in quella stanza come potrebbe
risuonare una bestemmia in chiesa.
–
Per sua norma e per sua regola mè sunnò un operaio!
lo sono un tecnico. Va ben? Tecnico! disse duro.
–
Scusi! Ma ci ha pensato? insistetti.
L'uomo mi domandò quanto costasse la polizza e io spiegai:
–
Maciullamento della mano sinistra, tremila lire; cinquemila per
la mano destra; settemila per entrambe; premio di quattro milioni
per la sinistra, sei per la destra, dieci per entrambe!
L'uomo guardò i figli, quindi la moglie, che disse: – Ma
assicura la sinistra, vah! Deve pure vivere anche lui! e mi passò un'occhiata
di compassione.
Compilai la polizza. Tecnico Pavani Domenico, mi dettava l'uomo,
fissando la parola tecnico. Quindi mi contò tre bolli.
–
Questo è per il suo padrone, dissi posandogli un tagliando.
–
Mè go no padrone! rispose.
–
Per il suo principale, corressi.
–
Ioma fai una buona azione, disse la donna di Pavani.
Mentre tornavo all'ufficio, entrai in una corte; bussai a un
fabbrichino. Erano in quattro che lavoravano: due uomini e due
donne; che, come seppi, erano due fratelli con le rispettive
mogli.
– Assicurarci
? Ma neanche per idea, disse il più vecchio dei fratelli.
–
Perché assicuroma no il papà sulla vita? disse
il minore.
Ci fu un momento di dubbio.
–
Mè, lo assicuro il papà, disse il minore.
–
Ma sgiaca no via di dané! rispose il maggiore. Nella stanza
accanto trovai un vecchietto, novantanni, che se ne stava beato
a letto pipando un mezzo toscano.
–
Ci vorrebbe il certificato medico, dissi.
–
E 'gnuto stamattina il medico, ha detto che sta bene, disse il
minore.
–
Ci vuole proprio, insistetti.
–
Ma vuol mica andà adesso dal dutur! disse il minore.
Tatto e faccia tosta, pensai.
–
Perché no? dissi.
Andai dal medico, che mi disse di aspettare. Dopo mezz'ora mi
fece il certificato per il vecchio. Saputo che era per l'Assicurazione
sbuffò e insieme a lui tornammo dai Valegnoni (si chiamavano
così i figli dell'assicurando). Constatò che il
vecchio stava bene e mi rilasciò il certificato.
–
La polizza è diecimila per morte naturale, quindici compreso
il suicidio, dissi.
–
E... fece il minore.
–
Quattro milioni il premio! Otto se lei raddoppia il valore della
polizza! dissi.
–
Raddoppio, disse il minore.
Il fratello maggiore rideva: – Sgara i dané, sgara
lé!
Il capufficio mi aspettava.
–
Non risulta che la Franceschi si sia assicurata presso nessuno,
disse rabìo, lei s'è fatto prendere in giro!
Guardò le due polizze e scosse la testa.
–
Questa del maciullamento mani è un coriandolo, urlò,
e quest' altra è è è... vergognosa. Ma Prosperi,
non comprende che certi contratti assicurativi si devono tenere
per prestigio! Proprio uno di novantanni mi va ad assicurare!
Ma dico!
– Ho
il certificato medico! dissi.
–
Uhuhuhuhuhu! cominciò a urlare. Ma con chi ho da fare!
Il certificato medico, così se quel vecchio muore non
ci sono cristi che tengono! Ma non poteva evitare di farsi dare
il certificato medico?
–
Me l'hanno voluto dare per forza! mormorai.
Il capufficio con scatti apriva cassetti e li chiudeva con colpi,
apriva armadi e sbatteva le portiere. Mi fissò furibondo;
abbassai la testa e improvvisamente la sua faccia si appianò.
–
Prosperi, disse con voce calma, le concedo l'esame di riparazione.
Pausa.
–
Prosperi, oggi lei deve assolutamente assicurare la nuova fabbrica
di Massari. Pausa.
–
Prosperi, disse lentamente, non mi faccia pentire della fiducia
che, forse da incosciente, le concedo ancora! Pausa.
–
Sarà proprio come l'esame di riparazione, Prosperi!
–
Ho capito! mormorai, e la voce mi uscì infantile.
–
La voglio agevolare ancora. Oggi verso le cinque, l'industriale
Massari sarà al ricevimento della contessa Ischini. La
figlia di Massari si fidanza con il figlio della contessa.
Mi porse un cartoncino d'invito.
–
Sicché... dovrei andare... al ricevimento? borbottai.
–
Se sarà necessario. Se non conclude nella visita che gli
farà questa prima bassora, allora... Del resto vedrà quanti
suoi colleghi concorrenti gli ronzeranno intorno!
Mi accompagnò sulla porta e mi disse ancora:
–
Mi raccomando! La sua posizione dipende da Massari!
Avvilito scesi nell'ufficio dei produttori, e trovai Stelio,
un collega produttore, affranto sulla scrivania.
–
Sempre girare! Sempre girare! borbottava. Batti a una porta,
batti all'altra, ripetere le stesse robe: e se si rompe la gamba?
e se si rompe il braccio? e se brucia la casa? e se dovesse morire?
Porco zio!
–
E se si maciullano le... dissi.
Stelio si rasserenò in una mezza risata.
–
Stamattina sono andato in cinque case. In tre mi hanno mandato
via dopo che ho spiegato le faccende; in una mi hanno cacciato
senza lasciarmi aprire bocca; nell'ultima mi hanno mandato dietro
il cane! ... Il cane, capisci! Il cane!
Si passò una mano sulla faccia, sospirò.
–
E a te com' è andata?
–
Niente di niente! dissi.
–
Neanche una polizza? insisté, e mi parve sospeso alla
mia risposta.
–
Niente ti dico, niente!
Mi parve sollevato. lo mi sentivo meno oppresso di quanto ero
nell'entrare nell'ufficio. Almeno, pensavo, a me i cani non me
li hanno tirati dietro. E poi due polizze le ho tagliate.
Così pensando tornai a casa.
Mentre mangiavo pensavo a ciò che mi aveva detto il capufficio.
Risentivo le sue parole, quel timbro di voce, quegli occhi: non
mi faccia pentire della fiducia che, forse da incosciente, le
concedo ancora!
Comprendevo bene che quella fiducia era un atto di bontà,
forse di pietà verso me. – E' un atto di generosità!
mi dissi a mezza voce.
La casa era vuota. Mia moglie a quell'ora era in fabbrica, e
il trovare la minestra sul gas, e dovermela versare nel piatto
mi mortificò. – A questo punto sono ridotto! dissi
duro al ritratto di Amelia. Ma il versare la minestra nel piatto è niente
in confronto al subire un' azione di generosità, mi dissi
cattivo, e la mia voce e le parole mi dettero un tremito prima
nelle mani poi nel corpo. Non pensarci, mi dicevo, e mi misi
a cantare, mentre mangiavo, borbottando: che questo riso sia
lungo e schifoso è vero. Smisi di cantare impressionato
dalla mia voce, e il silenzio mi impressionò di più ancora.
Sono proprio sicuro di Amelia? mi domandavo. Sono proprio sicuro
che lei sia a lavorare? .
Mi cambiai; indossai il migliore vestito che avevo, e andai a
noleggiare una Giulietta. Feci un giro dalle parti della fabbrica
dove mia moglie lavorava, e la vidi, poco discosto dal cancello
della fabbrica, con tre amiche.
Il vederla appartata con donne sposate – che conoscevo
anch'io – mi tranquillizzò e mi irritò nello
stesso tempo. lo ero in una posizione che lei non poteva vedermi.
A pochi passi da lei una brancata di operaie e operai gridavano
mescolati insieme. Pensavo che fra quelli e mia moglie vi era
una distanza che non era dovuta all'educazione degli operai quanto
al riserbo e alla serietà che mia moglie sapeva emanare.
La guardai finché i cancelli si aprirono e la folla operaia
entrò vociando. Mia moglie aspettò qualche minuto
ed entrò per ultima.
Avevo voglia di passare davanti a lei in Giulietta, fermarmi,
ma pavoneggiarsi su di una macchina a nolo mi sembrava un' azione
meschina. Se mi andasse bene l'affare Massari, pensavo, ci starebbe
dentro anche un'utilitaria!
E pensavo a Paolo che possedeva l'utilitaria e mi portava spesso
con lui. Saremmo pari, pensavo.
Andai in Piazza e scesi davanti al solito caffè.
–
Ti sei fatta la macchina? mi domandò un conoscente.
–
Imprestata, dissi, e mi sentii avvampare.
–
Ah! fece quello. Volevo ben dire!
Se mi va bene l'affare Massari, pensavo, la prima roba che fo è piarmi
la macchina e investirti: altro che volevo ben dire!
Poi pensai che i pensieri cattivi potessero alienarmi la benevolenza
del cielo; mi sforzai di pentirmi e mormorai una preghiera.
Trovai Paolo davanti a un cognac, gli occhi lustri.
–
La morosa m'ha piantato, mi disse.
Quella confidenza da parte di un tipo orgoglioso come Paolo m'intenerì.
Come m'intenerì il fatto che non mi nascondesse la sua
disfatta intima.
–
Mah! sospirò. Mi sembrava che comprimesse dei singhiozzi.
Vidi davanti a lui una sfilza di cipolloni vuoti di cognac.
–
Paolo, dissi, se mia moglie mi avesse piantato da fidanzati,
sarei stato nelle tue condizioni se non peggio..
Paolo mi guardava con una nuvola di rabbia che gli passò subito;
quel peggio gli doveva esser suonato male.
–
... ma invece non m 'ha piantato e soffro ora... l'ho sempre
fra i piedi discinta e scalmanata, noiosa e invadente; e io sopporto!
sospirai.
Dissi tutte queste balle perché mi sembrava di essere
in debito verso Paolo.
–
E perché non la pianti! disse lui; e aggiunse: se fossi
io al tuo posto... e schioccò la lingua.
Pensai a mia moglie che m'aveva sempre sopportato in silenzio;
che m'aveva sopportato e compatito, che mi vegliava per notti
intere, tremando al minimo starnuto... Guardai Paolo, con occhi
fissi, lustri davanti al cognac.
Come non mi sono accorto subito che era tutt'una posa, quella?
Arrivare
da un padrone in Giulietta non vale, se il padrone non la vede.
Passai una mezza dozzina di volte davanti alla fabbrica di
Massari, appunto per essere notato da lui, ma Massari non lo
vedevo.
Lo vidi dopo, sfrecciare davanti a me con la macchina e accelerai.
A una curva la sua macchina rallentò e io gli passavo
dinanzi, lentamente, guardando nello specchio retrovisore.
Ebbi l'impressione che avesse notato l'automobile e non me.
Lo vidi svoltare a sinistra, accelerai per la mia strada pensando
di incrociarlo al crocevia; come difatti successe.
Mi portai in mezzo alla strada, e sfilai la sua che veniva in
senso inverso. Mi vide, fu un attimo ma mi vide.
Lo seguii. Dopo un'ora fra attese e giravolte per strade e stradette
lo vidi tornare in fabbrica.
Arrivai fino in fondo alla strada – un paio di chilometri – quindi
manovrai per tornare indietro. Volevo arrivare a pazza velocità davanti
alla fabbrica e fare una frenata a scivolo. Mentre manovravo
per tornare indietro, vidi la macchina di un produttore di una
società concorrente che filava nella direzione della fabbrica
di Massari. Premetti sull'acceleratore; fra me e quella macchina
s'ingaggiò una corsa fantastica; vinsi io allo sprint,
con una frenata e conseguente stridio che purtroppo sentii solo
io dato il rumore dei macchinari della fabbrica di Massari.
Scesi dalla automobile, guardai dentro l'automobile avversaria
il produttore che mi guardava fra lo stupito e l'arrabbiato,
ed entrai nella Massari.
–
Ha l'appuntamento? mi domandò il portiere. –No!
Prese il cornetto del citofono.
–
Il signor...
–
Prosperi.
–
... Prosperi per il padrone!
Attraverso il piccolo corno sentii il mio nome ripetuto e straripetuto
insieme a quello di Massari con voci rimbombanti – dovevano
provenire dal salone – che mi provocarono una sensazione
di vergogna.
–
Vuole sapere che vuole, mi disse il portiere.
–
Affari urgenti, risposi.
Il portiere ripeté la mia risposta al citofono. Notò l'attimo
di sospensione mio prima della risposta, e nella sua voce, come
nei suoi occhi, vibrava una colorita nota di ironia.
Quindi mi passò un modulo, che riempii, evitando di riempire
la voce professione.
–
Professione? disse il portiere.
–
Impiegato, dissi e scrissi, pensando che fosse il titolo non
solo più idoneo al mio lavoro, ma più idoneo ad
appagare la curiosità del portiere; che, se avessi scritto
padrone o commerciante, l'avrei reso più diffidente e
sornione di quello che già sembrava.
Mi fece passare, mentre 1'eco di una voce rimbombava per i larghi
magazzini: – Il signor Prosperi per padron Massari! Il
signor Prosperi per padron Massari!
Un operaio mi introdusse nella sala d'aspetto e mi disse di attendere.
Attesi un quarto d'ora, poi mezz'ora. Intanto mi preparavo ad
affrontare padron Massari.
–
La nostra organizzazione, mormoravo, tiene conto della realtà sociale.
Se la fabbrica si brucia, la nostra organizzazione non la ricostruisce
uguale a prima; ma più ampia e moderna. E non rifonde
il valore dei macchinari precedenti, bensì di quelli più moderni
e perfetti.. .
Intanto che mormoravo, sentivo la mia voce che mi pareva convincente,
come convincenti mi sembravano le parole.
Mi misi dopo tre quarti d'ora a leggere i numeri dell' Eco del
Cuoio, cercando di interessarmi a quegli articoli e notizie sul
costo delle pelli e sull' esportazione di scarpe e le descrizioni
di macchinari. Quindi lessi le reclame delle fabbriche e dei
prodotti scarpari pensando che dovessero interessare il mio lavoro.
Avevo voglia di controllare l'orologio, ma cercavo di prolungare
l'attesa.
Presi nota di indirizzi e numeri telefonici pubblicati dal giornaletto,
scrivendo adagio adagio. Finalmente guardai l'orologio. Era passata
un'ora e un quarto.
Mi pentii di avere detto: affari urgenti. Sospettavo che la parola
urgenti non fosse stata gradita da Massari.
Mi affacciai alla finestra e vidi la macchina del mio concorrente
gironzolare attorno alla fabbrica. Poi la vidi fermarsi; vidi
il produttore concorrente fare un segno col gesso sul muro, dopo
avere guardato a destra e a sinistra che nessuno lo vedesse,
e sgattaiolare sulla macchina.
Sapevo che i produttori assicurativi fanno segni sui muri delle
fabbriche e delle case. Noi della Viginti segnamo con una S rossa
o verde o gialla. S rossa significa: laboriose trattative. S
gialla, significa pericolo di concorrenza; S verde significa
contratto stipulato, ma in parte. Per un contratto ottimo stipulato
per intero ci scriviamo una parola fallica.
Ogni società ha un suo sistema di segnatura, che cambia
di tanto in tanto; così che certe parole o frasi falliche
e lubriche che si leggono sui muri fanno appunto parte di questi
alfabeti segreti. Comunque pur sapendo tutte queste cose, il
vedere un uomo che furtivamente segna il muro e che con circospezione
scappa, mi fece rabbrividire.
Aspettai ancora un'ora, che passò abbastanza in fretta
perché stavo dietro i vetri a guardare il concorrente
produttore che passava e ripassava ogni volta con una macchina
diversa.
Così, finché Massari mi concedette udienza.
–
Scommetto che è un assicuratore, mi disse come saluto.
Seduto davanti a lui mi sforzavo di parlare, ché sapevo
che se fossi stato zitto pochi secondi, riaccendere la conversazione
mi sarebbe stato più innaturale che difficile.
–
Mi spiace per l'incidente di macchina che ha avuto, cominciai
a dire. Noi della Viginti si era preoccupati; si pensava che
gliela sequestrassero, l'automobile! Massari scoppiò a
ridere.
–
Sequestrare la macchina a me? Ki vegnan! Ciò cinque automobili
mè: n'inciapan una e bella che a posto!
Mentre stavo arrivando al sodo, Massari m'interruppe per telefonare.
Io aspettavo che la comunicazione finisse per seguitare, ma la
conversazione si prolungava, e Massari parlava di fatti personali
e a me sembrava importuna e pesante la mia presenza.
Quindi riattaccò il ricevitore, mi guardò, si passò una
mano sulla faccia e fece un ah! come se si fosse dimenticato
di me.
–
La Viginti Còmpani tiene in considerazione la realtà sociale,
cominciai a dire, e la voce mi suonava vuota e impersonale, molto
diversa dalle prove che avevo fatto in anticamera. Se la sua
fabbrica dovesse essere ricostruita, la Viginti non risarcisce
1'azienda come era al momento del disastro, ma come sarebbe stata
se il disastro non fosse accaduto; cioè più grande,
con un'architettura più moderna; e in quanto ai macchinari,
se nel frattempo...
Sentivo di parlare con foga; convinto che si stesse interessando
a quanto dicevo.
–
La vita di un padrone non si può paragonare a quella di
un operaio, dissi. Ecco perché la Viginti, ai padroni
infortunati, oltre a pagare le giornate in rapporto alla loro
attività-guadagno, paga un quid in più a compensare
il dolore che l'inattività porta...
Mentre parlavo, Massari prese una matita, la mise in equilibrio
sull'indice della destra; tak, la matita cade. Tacqui.
–
Vada avanti, mi disse.
E mentre seguitavo a discorrere lo vedevo con quella matita sospesa
sul dito, che moveva in qua e in là; la matita, tak, cadeva,
e lui la rimetteva in piedi sull'indice, moveva la mano per farla
stare in equilibrio, tak... tak. tak... tak... tak.
Cercavo di essere convincente, pensando che la mia voce e le
mie parole dovessero avere un potere musicale che lo avrebbero
distolto da quel gioco... tak... tak., .. tak... tak...
–
I'ho capì! I'ho capì, disse mentre ripetevo, in
altra forma quanto avevo detto.
Massari prese il foglietto da me compilato e disse:
–
Questi sarebbero gli affari urgenti? Tak... tak…tak. tak...
Poi si mise a scrivere e io rimasi qualche minuto incerto; quindi
tossii debolmente.
–
Ma l'è ammò ke? mi gridò.
Mentre
tornavo alla Viginti passai davanti agli stabili della Franceschi
e vidi scritta sui muri una parolaccia, ripetuta diverse volte.
Riconobbi la scrittura di Stelio. Possibile che...
–
Ho assicurato la Franceschi! mi disse Stelio. Mi guardava contento
e si strofinava le mani.
–
L'affare che ha concluso Stelio lo porterà in alto; molto
in alto, mi disse il capufficio, fissandomi.
Ma come ha fatto? mormorai ripensando alla Franceschi.
–
Non si è fatto prendere in giro! disse il capufficio.
Dopo qualche istante mi disse:
–
Prosperi, prima di andare al ricevimento della contessa Ischini,
vada a fare un sopraluogo da padron Cicoria. L'operaio Pavani
che stamattina ha assicurato sulla mano sinistra, si è maciullato
tutte e due le mani!
Ripassai davanti agli stabili della Franceschi, e quella parolaccia
mi sembrava rivolta a me. Guidavo rabbioso.
–
Devo fare un'inchiesta sull'operaio Pavani, dissi a padron Cicoria.
–
Glielo spiego io, disse Cicoria su una gamba sola. I compressori
hanno preso in mezzo la mano destra di Pavani. Per liberarla,
lui ha portato la sinistra sulla destra e la macchina gliel'ha
maciullate tutt'e due. L'è asé?
–
Dovrei chiedere agli operai! dissi.
–
Disaranno quel che ciò detto io! rispose Cicoria. Quindi
mi piantò in asso, entrò di corsa nel salone della
fabbrica e dopo qualche momento tornò davanti a me.
–
A scanso di rogne il macchinario aveva la leva di bloccaggio
a portata di mano... sinistra! disse con un risolino.
–
Posso vedere la macchina? dissi.
Padron Cicoria soffiò: – Ioma giamò perduto
venti minuti per Pavani, disse secco. Uhi! gli operari i vegnan
e il tempo al vegna più degli operari!
–
Un minuto solo! dissi.
–
Un minuto sgarrato è un miliùn che mi parte, va
ben!
Di
nuovo piombò nel salone; dopo un momento tornò indietro.
Mi accompagnò davanti al macchinario e vidi che aveva
davvero la leva di bloccaggio a portata di mano. Attorno, alcuni
operai stavano pulendo i compressori dagli ossicini e dal sangue.
–
Dieci milani di pulizia, borbottava Cicoria, e tre ore di inattività del
macchinario! Uhm! A chi ce lo metto in conto?
Quindi guardò gli operai che mi fissavano come se fossi
una bestia rara.
–
E un uomo come voialtri! urlava Cicoria. Smeia che non abbiano
mai veduto un uomo; cramundu!
Con un occhio mi guardava, l'altro lo roteava ora all' orologio
ora sugli operai, pestando nervoso il piede, respirando affannato.
–
È convinto allora! È convinto o no? mi borbottava.
Mentre interrogavo un operaio, il suo piede seguitava a battere,
come se segnasse il tempo di una musica infernale che gli frullava
nel cervello; urlando col fiatone agli operai di guardare il
loro verso; e ripetendomi:
–
L'ha finì o no? Quanto ci vuole ancora? Dài dài
dài! Tornato in ufficio, stilai la storia della disgrazia
e la passai all'avvocato Lepegroni, 1'avvocato dell' Assicurazione.
Quindi presi il biglietto d'invito della festa Ischini è mi
preparai ad andare al ricevimento. Tornai a casa, e cambiai muda.
Mentre mi recavo ero in preda a un' agitazione strana, dove paura
e vergogna si mescolavano. Pensavo che andavo ad affrontare Massari
dopo nemmeno un'ora che gli avevo parlato; in un luogo e in una
circostanza non adatta agli affari. Il vedere davanti alla villa
della contessa l'assicuratore concorrente, mi calmò.
Entrai nel vestibolo, dove quattro operai di Massari – li
conoscevo – bardati come maggiordomi, stavano a due a due,
davanti a due porte, fermi e tronfi come statue. Consegnai il
biglietto d'invito nel salotto, anticamera del salone, quindi
entrai.
Sulla soglia del salone il figlio della contessa baciava la mano
alle convitate, mentre la fidanzata baciava e si faceva baciare
le gote dai convitati. lo m'intrufolai mentre l'uno e l'altra
stavano appunto baciando, e mi trovai in un salone largo lungo
e alto con le pareti e il soffitto affrescati di guerrieri e
uomini antichi e dame e signori in trono: mi pareva di trovarmi
in un castello.
Gl'invitati erano a gruppi e l'aggirarmi solo fra un gruppo e
l'altro mi dava un senso di paura.
Andai alla tavolata dei regali dove le persone erano in fianco
l'una all'altra e cercavo di fare gli occhi stupiti davanti all'argenteria
e all'oreficeria esposta.
A due passi da me era padron Massari che conversava col padre
dello sposo. La sua voce era cordiale e franca. – Mia figlia
vale un milione al pelo, stava dicendo Massari, ed è molto
pelosa!
Passeggiai per il salone in cerca di qualche faccia amica, ma
le uniche facce amiche erano quelle di Massari e dell'assicuratore
concorrente. Mi fermai davanti a un quadro raffigurante un gentiluomo
in un costume di signorotto medioevale.
–
Questo mio avo ha dato la quarta nave a Cristoforo Colombo, mi
disse una voce. Era il conte Ischini. Io rimasi stupito che il
conte si rivolgesse proprio a me, e il conte dovette interpretare
questo mio stupore a suo modo se disse con aria misteriosa e
importante: – Non sapeva?.. La Nina, la Pinta, la Santa
Maria e l'Ischina !... La storia purtroppo si dimentica di tante
cose, sospirò. E sull'Ischina c'era anche lui, il mio
antenato.
–
Interessante! dissi.
–
E pensi la stranezza; quando si dice la stranezza:
Cristoforo Colombo è riuscito a convincere il mio antenato
a finanziare, diremmo oggi, la spedizione in America; il mio
antenato non è riuscito a convincere Colombo che quella
terra che aveva scoperto fosse l'America e non l'India...
–
Strano davvero! dissi.
Girai gli occhi in cerca di Massari e lo vidi che stava mangiando
panini.
–
Quello che sta guardando è re Barisone, mi disse il conte
indicandomi la figura vicino al suo antenato; la figura di un
ceffo con un ciuffo e uno sguardo storto da insolente. Gran canaglia,
borbottò. Ha fatto bene la storia a dimenticarsi di lui!
Pensi che gli Ischini gli fecero un prestito di un milione di
fiorini! oggi sarebbero sei sette ottocento miliardi di sterline
oro, e re Barisone non ha restituito niente. Barisone...
–
Scusi! dissi al conte e mi allontanai verso Massari. Vidi il
conte guardarmi di brutto. Attorno a Massari vidi il produttore
concorrente che stava facendo la stessa manovra che facevo io
per avvicinarglisi. Comunque mi avvicinai prima io.
Massari mi guardò.
–
Ah! quello degli affari urgenti! disse.
lo sorrisi e gli dissi dei vantaggi dell' Assicurazione, mentre
lui masticava giù un panino dopo 1'altro con tutto un
accompagnamento di versi e sgorghi.
–
L'ha finì o no? mi domandò come tacqui.
–
Veramente no...
–
Me lo disarà un' altra volta! rispose Massari.
Si avvicinò a un suo conoscente. Dopo aver scambiato poche
parole con lui, e dopo che Massari ebbe fatto segno col dito
dietro di sé, nella posizione dove ero, il suo conoscente
si voltò, fece scivolare lo sguardo su di me e lo piantò su
di un piatto d'oro, quindi lo fece scivolare ancora su di me
e tornò a guardare Massari.
Rimasi ancora una mezz'ora fra i nobilotti e industrialotti,
tenendo d'occhio Massari e il mio produttore concorrente, finché Massari
disse:
–
Sintì brava gente, la festa 1'è bella ma mè devi
andà a luvrà! Sti ben, neh!
La faccia che il conte e la contessa fecero a quelle parole mi
divertirono, e insieme mi fecero provare una dolorosa sensazione
di incoscienza.
Il
capufficio mi disse: – Il vecchio Velegnoni è morto.
Grazie al suo lavoro, la società dovrà pagare
otto milioni ai figli!
Seguì un silenzio intenso, rotto dal tamburellare delle
sue dita sulla scrivania; traaak traaaak.
–
È chiaro che se entro stanotte non riesce ad assicurare
Massari... Cominciò a ridere d'un riso artificioso, così mi
parve.
–
Ha fatto la polizza, fu, ih, ih... una polizza, ih, ih, ih...
otto milioni ci costa la sua polizza, ih ih ih ih...
Poi la voce divenne dura come la sua faccia.
–
Anderà a portare la buona notizia ai Velegnoni.
Prima però dovrà portare a Pavani la notizia che
l'Assicurazione non gli deve niente... Niente gli deve, poiché la
mano sinistra avrebbe dovuto portarla alla leva di bloccaggio
e non fra i compressori...
–
Signor capo, dissi, non me la sento di portare la notizia a Pavani!
–
Chi ha assicurato Pavani? urlò. Chi l'ha assicurato vada!
–
Va bene, dissi.
Con la Giulietta tornai da Pavani. Mi accolsero come fossi un
buon mago.
–
Caro caro fiò, mi diceva Pavani toccandomi col polso monco
(impressione sgradevole anche se poco umana; forse appunto per
questo sgradevolissima) caro caro fiò! Ti voraria tirare
le orecchie (e così dicendo portava il polso monco e l'altro
da cui pendeva un pezzetto di mano, anzi di osso di mano, alle
mie orecchie). Se avesse insistito un tantino pusé avria
assicurato anche la destra!
Io guardavo i figli cercando nel loro sguardo un po' di diffidenza,
ma i due ragazzi avevano un' aria che mi parve più euforica
che dolorosa.
–
Ma che si accomodi! Ma che beva! Ma che stia! mi gridava la donnetta
di Pavani girandomi attorno.
–
Purtroppo... cominciai.
–
Eh lo so lo so, m'interruppe Pavani guardandosi i polsi monchi,
con una faccia spaventata come se si rendesse conto solo allora
del suo stato.
–
Purtroppo l'Assicurazione non può corrisponderle.. .
Due, quattro, sei, otto occhi fissi su di me, in un silenzio
teso.
Aspettai che m'interrompessero; il silenzio era rotto dal ticchettio
della sveglia, perché la mano sinistra l'ha messa lei
fra i compressori...
Ancora silenzio.
–
... doveva invece azionare la leva di bloccaggio! dissi in un
fiato.
I Pavani si guardarono in faccia e poi mi fissarono duri.
–
Mi piasaria vedere voialtri se in quel momento... è come
quando si cade che si mettono le mani davanti... mi piasaria
vedere voi in quegli attimi... si fa presto dire azionare la
leva di bloccaggio.., si fa presto, si fa! disse Pavani.
–
Niente? urlò la donnetta, stridula.
–
Che roba! urlarono i figli di Pavani.
–
Sah, schersoma no, eh! Che noialtri ci ioma fatto un conto su
quei soldi; ioma firmà cambiali, disse un figlio.
–
E mè mi sono licenziato dal me padròn! urlava l'altro.
Il Pavani mi faceva ballare davanti le braccia monche; me le
teneva vicine alla faccia; emanavano una puzza di farmcia che
prendeva alla testa.
–
Siete furbi siete! Trattare così un …povero…tecnico.
Si, si! un povero... tecnico... mormorava Pavani.
–
Stamattina pareva un strasé, disse la donnetta, incò viene
elegante e con la macchina... seh seh... Si fanno la Giulietta
sul lavoro dei tecnici... e intanto i miei fiò sono nel
guà delle cambiali.
Filai verso i Velegnoni.
Quando dissi che la società gli avrebbe pagato otto milioni,
i Velegnoni si misero a saltare, a cantare, ad abbracciarsi e
abbracciarmi. Quindi sturarono bottiglie di champagne alla mia
salute. Mentre bevevamo, una vecchia – la madre dei Velegnoni – entrò,
e dalla porta s'intravide il morto. Fu come uno sbuffo freddo
di aria.
– Ioma
otto miliùn, mama, urlava il Velegnoni maggiore, porgendo
alla vecchia un bicchiere colmo.
–
Abbiamo un tubo, abbiamo, urlò il minore. Chi ha pagato
l'assicurazione? Io!
–
Rovinoma no la festa, disse il maggiore.
–
Testimonio lui, urlava la moglie del fratello minore, prendendomi
per la giacca, che mio marito ha assicurato il vecchio contro
la volontà del fratello. L'è vera o l'è no
vera?
–
Buono questo champagne, dissi.
–
L'è vera o l'è no vera? urlava la donna.
–
E con questo? urlava il maggiore. Soma in società, sicché dunque?
–
Mè sun canevar! ghignava il minore. Talké, deh! – E
lui, mio cognato, vuriva no saveian. L'è vera o l'è no
vera? urlava la solita.
–
Foma metà pruna del premio! disse il maggiore. – Talké!
urlò il minore.
–
Allora mè assicuro la mamma! disse il maggiore. – L'assicuro
mè! disse il minore.
–
L'assicuriamo insieme! disse la moglie del minore.
–
Un' altra volta, dissi.
–
Subito, urlò il maggiore, subito!
Presi la mia borsa e assicurai la vecchia; aveva ottanta anni.
–
E il certificato medico? disse il maggiore.
–
Non occorre! dissi bleffando.
–
Ce lo metta insieme, disse quello, duro. Mentre sua moglie andava
a chiamare il medico, entrarono due venditori di abiti usati
e uno stracciarolo.
Si andò nella stanza del morto.
–
Sah, cinque mude, dodici para di mutande, quindici di calze;
venti maglie, a forfé, quanto? domandò il maggiore.
Cominciarono a tirare e allargare sul prezzo.
Lo stracciarolo insaccò le vecchie robe del morto.
–
Più di ottomila no!
–
Meno di diecimila niente!
–
Nove!
–
Nove e mezzo!
I due fratelli e i due venditori parevano impegnati in una strana
partita di poker; finché si accordarono.
–
Quanto mi date del letto ? domandò allo stracciarolo il
minore.
–
Tremila compreso materasso e tutto! rispose quello.
–
Uhi! E ferro battuto!
–
Cinquemila!
Intanto i due venditori di abiti usati avevano sistemato nelle
valigie gli abiti del vecchio.
–
Questa muda ve la pago fino a dieci bolli, disse un venditore
toccando la muda che ci aveva su il morto.
–
Dodici, disse l'altro venditore.
–
Quindici con le scarpe e gilè, offrì il primo.
–
Tempo fino a domani, quando lo sareranno nella cassa! disse il
maggiore dei figli.
Arrivò il medico che visitò la vecchia e la trovò sana.
–
Sarà meglio fare la polizza un' altra volta, dissi io.
–
Subito, disse il maggiore.
–
Però voglio metterci anch'io la mia parte! disse il minore.
–
Disi: il papà at basta no?
–
Che te ne fa a te ?
Per farla breve dovetti fare due polizze sulla vecchia. – Invece
di essere contento che ci diamo lavoro l'è ke che si fa
pregare! disse la moglie di uno guardandomi mentre indugiavo.
Uscii dalla casa che i Velegnoni si stavano prendendo per il
collo, e per la polizza del padre e per quelle della madre; la
quale se ne stava in d'un cantone siilenziosa, e lo sguardo che
mi diede mi gelò il sangue.
–
... L'è vera o l'è no vera? urlava la moglie del
minore.
Non
me la sentivo di tornare in ufficio con quelle due polizze
che mi bruciavano nella cartella. Pensavo a Massari. Sapevo
che alla sera Massari andava a passare qualche oretta al caffè in
Piazza.
Mi
sedetti ad aspettarlo. Dopo qualche momento arrivò Paolo.
–
Hai concluso l'affare con Massari? mi domandò.
–
Non ancora.
Paolo mi guardò con ironia.
–
Ti auguro con tutto il cuore che ce la faccia, così saremo
colleghi, disse.
–
Grazie, risposi.
–
È lì, Massari, mi disse Paolo.
Massari s'era seduto a un tavolino vicino al nostro. Paolo mi
guardava. Mi seccava dovere affrontare per la terza volta Massari;
e mi seccava di più la presenza di Paolo.
Animo, mi dissi. M'alzai; la smorfia di superiorità che
si disegnò sulla bocca di Paolo m'irritò. Mi avvicinai
con paura a Massari, con l'animo sospeso. Se avesse scattato?
–
Vedo che sta bevendo vino, dissi a Massari. Massari sgorgò. – Non è più vino
genuino, disse.
–
Ho paura che finiremo come la Svizzera, dissi con un sospiro
di dolore, finiremo col bere il sidro!
–
Il vino si fa anche con l'uva, disse Massari scoppiando a ridere.
Risi anch'io.
–
Ridendo si dicono le verità, dissi.
–
Il vino ah ah ah si fa ah ah ah anche oh oh oh oh oh con l'uva
ih ih ih.
Quindi sgorgò un' altra volta, chiese pardon, e mi disse:
–
A casa mia bevo vino di Cipro!
–
Non l'ho mai bevuto, dico. Se non è troppo disturbo, potrei...
–
Dopo andiamo! Sentirà il vino di Cipro, disse Massari
schioccando la lingua. Poi guardò l'ora e mi disse:
–
Andoma subito!
Si alzò, prese il suo cane al guinzaglio, un cagnone bianco,
e rimase un momento soprapensiero.
–
Entro un momento al caffè, disse. Però prima vi
voglio raccontare una barzelletta; 'na canunà.
Paolo si avvicinò a noi due, e Massari cominciò a
raccontare la barzelletta. – Sicché c'era un uomo
piccolo! va ben! ma picinin proprio piccolo! va ben! sti tent:
un giorno un camion va contro la sua macchina e gliela squagia
tutta: bum! L'uomo piccolo esce dai rottami e il camionista gli
fa, dice: oltre la macchina, che danno v'ho fai? E l'uomo piccolo
fa: prima dello scontro ero alto uno e novanta...
Massari tacque e mi guardò e io risi facendo gli occhi
di avere compreso; poi guardai Paolo e impallidii:
Paolo era dritto e duro, serio, che mi esaminava.
–
Un momento che vado al caffè! disse Massari. Che mi tenga
il cane una minuta, e cosi dicendo mi passò il guinzaglio.
Mentre tenevo il cane mi sentivo guardato da Paolo con aria prima
ironica che, col passare dei minuti diventava, così mi
sembrava, beffarda.
Passarono cinque minuti, dieci minuti. Il cagnaccio piantava
versacci a ogni passare di cane; si dimenava per scappare e io
lo tenevo mentre la faccia di Paolo diventava sarcastica.
I minuti non passavano mai. Sotto i portici seguitavano a passare
persone con i cani. La gente guardava quel cagnaccio con curiosità.
Uno mi domandò quanto l'avessi pagato. Un altro cosa gli
davo da mangiare. Un altro dove l'avessi comprato.
Quindici minuti. Massari non era uscito dal caffè e Paolo
mi guardava ora con aria malinconica.
–
Che bella bestia ih ih ih! risi. Curioso, curioso!
Paolo aveva portato la sedia davanti a me, e mi fissava.
Venti minuti. Gli occhi di Paolo erano sempre fissi su di me
e mi sembrava che mi leggessero nel pensiero. – Che bella
bestia! risi.
–
Mi sembri verde, disse Paolo, ma sarà il riflesso del
neon.
Il cagnaccio mi diede uno strappone per inseguire una cagna.
Stavo per smollarlo, così, pensavo, Paolo l’avrebbe
piantata di guardarmi con quella faccia. Ma il pensiero di Massari
e delle polizze Velegnoni e del licenziamento mi fece stringere
la mano al guinzaglio.
Massari lo vedevo dietro la vetrina ridere con un altro. Teneva
la mano appoggiata alla maniglia della porta, sicché sembrava
dovesse uscire da un momento all'altro.
Venti minuti. Paolo ora guardava me e guardava l'orologio. I
suoi sorrisi, i bagliori dei suoi occhi, cambiavano da un attimo
all'altro. Ora erano sorrisetti ironici; ora sarcastici; ora
dignitosi; ora di pena.
–
Non posso piu resistere, disse Paolo scattando dalla sedia.
Se ne andò, e per un momento mi sentii sollevato.
La bestia alzò la zampa contro la colonna e pisciò per
almeno due minuti. Il liquido formò un laghetto che si
dipartiva in tanti rigagnoli e quindi in tanti rametti. Passò un
vigile che prima guardò lo sporco, poi il cane, poi me,
poi scosse la testa.
Trentacinque minuti.
Una signora che conoscevo mi disse: – E quattro volte che
passo di qui!
–
Ah si, dissi ridendo.
Il cane riprese a fare bordello! Tutti che si voltavano a guardare.
–
È il vostro? mi domandavano.
–
No, rispondevo.
–
È di Massari, quel cane lì! dicevano altri.
I ragazzini scantonavano, poi un bambino si avvicinò al
cane che si mise ad abbaiare furioso contro il bambino.
Quaranta minuti. Massari era ancora là dietro i vetri,
la mano sulla maniglia.
Lo vidi stringere la mano dell'amico, rimanere sul forse con
la porta aperta; quindi avviarsi verso la saletta interna del
caffè.
Paolo tornò.
–
Ho fatto un giro a piedi fino all'ospedale: ho fatto lavare l'automobile;
cambiarci due gomme; e mangiato un tost, disse. Il suo sguardo
era sarcastico come la sua voce.
Il cane si mise a latrare contro una cagnetta che passava. Con
un balzo le saltò addosso. La padrona della cagna urlava
contro di me; urla dei cani, urla della donna, capannelli di
gente che guardava.
–
Questo cane qui ha fame di donne! dissi ridendo a Paolo, che
stava serio. Quaranta minuti e poi quarantacinque, e Paolo lì che
controllava, orologio alla mano. Quindi Paolo entrò nel
caffè e tornò fuori. Il suo viso aveva una espressione
desolata e anche sarcastica.
–
È da cinquantacinque minuti che gli tieni il cane, mi
disse.
–
Ti racconto una barzelletta forte!, gli dissi. Gliela contai.
Finalmente Massari usci dal caffè. Prese il cane.
–
E... allora... il vino... di Cipro? dissi.
–
Un'altra volta, rispose Massari andandosene.
–
Cinquantanove minuti esatti che gli tieni il cane e non ti ha
neanche ringraziato! disse.
–
Ti è piaciuta la mia barzelletta? domandai.
–
Te ne conto una migliore, disse Paolo, proprio un fatto vero.
E sugli assicuratori. Un produttore assicurativo corteggia un
industriale per fargli delle polizze sui suoi beni.., l'industriale
prega questo assicuratore di tenergli il cane e il produttore
glielo tiene per cinquantanove minuti...
–
E allora? domandai con la voce ai piedi.
–
Mentre il produttore gli costudisce il cane, l'industriale firma
le polizze con un altro assicuratore! disse Paolo.
–
No! urlai.
In quella dal caffè uscì il produttore mio concorrente
con un sorriso trionfante.
–
Oggi a me, domani a te, mi disse.
– Non
la supponevo così vendicativo, mi disse il capufficio.
Perché ho alzato la voce, perché l'ho minacciata,
lei si è vendicato; ha assicurato per due volte, e con
certificati medici, una vecchia. Prosperi, questo è il
suo ultimo giorno di lavoro qui!
–
Un' altra volta imprenderà... dissi duro. Guardavo quelle
due polizze sulla madre dei Velegnoni con aria soddisfatta e
ironica.
–
Può essere soddisfatto! disse il capufficio.
–
Contentissimo, dissi sarcastico.
Avevo l'impressione che quel licenziamento fosse dovuto non alla
mia incapacità, bensì a un atto di ribellione,
di strafottenza. Ma la faccia di Paolo mi riportò alla
realtà. Frugavo nella mente cercando nella vita di Paolo
qualche azione misera, qualche azione vergognosa, e per rinfacciargliela,
e per compensare in certo modo l'umiliazione che sentivo. Io
ho tenuto un cane per un' ora ma Paolo ha... pensavo. Purtroppo
non mi sovvenne nessuna azione che potesse stare alla pari con
la mia.
Andai nell'ufficio dei produttori a posare la cartella. Stelio
stava ultimando gli atti di assicurazione sugli stabili e sui
terreni della Franceschi.
–
Sono capo produttore, disse Stelio fregandosi le mani. Benedetta
quella Franceschi!
Tornai a casa. Per tutta la strada m'immaginavo il cagnaccio
di Massari stritolato dalle automobili.
Perché non avevo smollato il guinzaglio? pensavo. La faccia
di Paolo e lo scherzo giocatomi da Massari accrescevano l'angoscia.
Ripensai alla Franceschi...
Mi fermai davanti a una vetrina-specchio. Mi vidi bianco e stravolto.
Cinquemila lire se n'erano andate per il noleggio macchina. Mi
vedevo ridere, con quel cagnaccio vicino. E quei latrati, madonna!
che mi esplodevano nella testa come raffiche di tuono.
Entrai in casa. Mia moglie stava in vestaglia, seduta in poltrona
in una posa voluttuosa, scollata, le gambe scoperte. Nelle pose
audaci ci trovava un certo compiacimento, Amelia; forse per compensare
una giovinezza seria, soffocata dalla morale cattolica.
–
Che hai? mi domandò guardandomi.
–
Ho che mi fai schifo! urlai.
–
Ma Antonio...
–
Schifo! Non avrei mai pensato che tu andassi in giro a contare
la nostra vita intima! Morbosa!
–
Ma Antonio...
–
Ma Antonio, ma Antonio... Nemmeno le le le... raccontano quello
che fanno coi loro mariti.
La guardai con disgusto e sputai per terra.
– Io?..
–
Me l'hanno detto! urlai.
–
Non è vero Antonio, non è proprio vero... Ma chi te l'ha detto,
portamelo a confronto Antonio... ti giuro che non è vero... solo in confessione
l'ho detto... Antonio credimi... Cosa devo fare per dimostrartelo...cosa devo
fare cosa... non e vero... non è vero...
(Tratto
da A casa tua ridono e altri racconti di Lucio Mastronardi – Eindaudi
Tascabili editore, Torino 2002)
Lucio
Mastronardi
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