NANTAS
Émile
Zola
I.
La
stanza che Nantas abitava da quando era arrivato da Marsiglia
si trovava all'ultimo piano d'una casa di Rue de Lille, accanto
al palazzo del barone Danvilliers, membro del Consiglio di
Stato. Quella casa apparteneva al barone, che l'aveva fatta
costruire su vecchie dipendenze. Sporgendosi, Nantas poteva
scorgere un angolo del giardino del palazzo, dove splendidi
alberi riversavano la loro ombra. Al di là, sopra le
cime verdi, uno scorcio si apriva su Parigi: si vedeva lo squarcio
della Senna, le Tuileries, il Louvre, l'infilata dei Lungosenna,
tutto un mare di tetti, fino al confuso orizzonte del Père-Lachaise.
Era un'angusta camera a mansarda, con un abbaino tagliato nelle
tegole d'ardesia. Nantas l'aveva semplicemente ammobiliata con
un letto, un tavolo e una sedia. Aveva preso alloggio lì,
cercando una sistemazione a buon mercato, deciso ad accamparsi
alla meglio finché non avesse trovato un lavoro qualsiasi.
La carta da parati sporca, il soffitto nero, la miseria di quella
cameretta spoglia dove non c'era un caminetto non lo mortificavano
affatto. Da quando si addormentava di fronte al Louvre e alle
Tuileries, si paragonava a un generale che dorme in qualche misera
stamberga sul ciglio di una strada, davanti alla città ricca
e immensa che dovrà prendere d'assalto il giorno dopo.
La storia di Nantas era breve. Figlio d'un muratore di Marsiglia,
aveva iniziato gli studi al liceo di quella città, spinto
dall'ambizioso affetto della madre che sognava di far di lui
un signore. I genitori si erano dissanguati per portarlo fino
alla maturità. Poi, morta la madre, Nantas dovette accettare
un impieguccio presso un commerciante, dove condusse per dodici
anni un'esistenza la cui monotonia lo esasperava. Sarebbe scappato
venti volte se il suo dovere di figlio non l'avesse inchiodato
a Marsiglia, accanto al padre caduto da un'impalcatura e divenuto
invalido. Adesso doveva provvedere a tutte le necessità.
Ma una sera, rientrando a casa, trovò il muratore morto,
con la pipa ancora calda accanto. Tre giorni dopo vendeva i quattro
stracci di casa, e partiva per Parigi con duecento franchi in
tasca.
C'era, in Nantas, una cocciuta fame di successo, che aveva ereditato
dalla madre. Era un ragazzo dalle decisioni rapide e dalla volontà imperturbabile.
Era ancora molto giovane e già diceva di essere una forza.
Avevano spesso riso di lui quando si lasciava andare alle confidenze
e ripeteva la sua frase preferita: “Sono una forza”;
frase che diventava comica, a vederlo con quella lisa redingote
nera, con le spalle sdrucite e le maniche che non arrivavano
a coprirgli i polsini. Così, a poco a poco, aveva fatto
della forza una religione, non vedendo altro che essa al mondo,
convinto che i forti sono comunque i vittoriosi. Secondo lui,
bastava volere e potere. Il resto non aveva importanza.
La domenica, quando passeggiava da solo nell'arida periferia
di Marsiglia, sentiva di avere del genio; in fondo al proprio
essere c'era come un impulso istintivo che lo spingeva in avanti;
e tornava per mangiare un piatto di patate insieme al padre infermo,
dicendosi che un giorno sarebbe stato certamente capace di ritagliarsi
la sua parte in quella società dove a trent'anni non era
ancora nessuno. Non era affatto una voglia meschina, un appetito
di piaceri volgari; era il sentimento molto netto di un'intelligenza
e di una volontà che, non trovandosi al loro posto, volevano
salire tranquillamente fino a quel posto per un naturale bisogno
di logica.
Appena messo piede a Parigi, Nantas credette che gli sarebbe
bastato allungare le mani per trovare un impiego degno di lui.
Il giorno stesso si mise in cerca. Gli avevano dato delle lettere
di raccomandazione che portò ai destinatari; inoltre,
bussò alla porta di alcuni concittadini, sperando nel
loro appoggio. Ma in capo a un mese non aveva ottenuto alcun
risultato: il momento era brutto, dicevano; altrove, gli facevano
promesse che non venivano affatto mantenute. Intanto la sua piccola
borsa si svuotava; gli restavano una ventina di franchi al massimo.
Con quei venti franchi dovette vivere un altro messe ancora,
mangiando solo pane, perlustrando Parigi dalla mattina alla sera
e tornando a coricarsi senza luce, sfinito dalla stanchezza,
sempre a mani vuote. Non si scoraggiava; soltanto, una collera
sorda cresceva in lui. La sorte gli sembrava illogica e ingiusta.
Una sera Nantas rientrò senza aver mangiato. Il giorno
prima aveva finito il suo ultimo pezzo di pane.
Niente più denaro, né un amico per prestargli qualche
spicciolo. Era piovuto tutto il giorno, una di quelle piogge
grigie di Parigi che sono così fredde. Un fiume di fango
inondava le strade. Nantas, zuppo fino alle ossa, era andato
a Bercy, poi a Montmartre, dove gli avevano indicato dei possibili
impieghi; ma a Bercy il posto era già preso; a Montmartre,
invece, non avevano trovato la sua grafia abbastanza bella. Erano
le ultime due speranze. Avrebbe accettato qualsiasi cosa, con
la certezza di ricavare il proprio capitale dal primo lavoro
che gli fosse capitato. All'inizio chiedeva soltanto un po' di
pane, quanto bastava per vivere a Parigi, un terreno qualsiasi
per poi costruire, pietra su pietra. Da Montmartre fino a Rue
de Lille camminò lentamente, il cuore soffocato dall'amarezza.
Aveva smesso di piovere; una folla frettolosa lo urtava sui marciapiedi.
Si fermò diversi minuti davanti a un ufficio di cambio:
cinque franchi gli sarebbero forse bastati per essere un giorno
il padrone di tutta quella gente; con cinque franchi si può vivere
otto giorni, e in otto giorni si fanno tante cose. Mentre fantasticava
in quel modo, una carrozza lo inzaccherò; dovette asciugarsi
la fronte, schiaffeggiata da uno schizzo di fango. Allora camminò più veloce,
stringendo i denti, preso da una voglia feroce di scaricare una
gragnuola di pugni sulla folla che ingombrava le strade: si sarebbe
vendicato della stupidità del destino. Un omnibus fu sul
punto di schiacciarlo in Rue de Richelieu. In mezzo a Place du
Carrousel, lanciò alle Tuileries uno sguardo invidioso.
Sul Pont des Saints–Pères una ragazzina ben vestita
lo costrinse a deviare dal suo tragitto rettilineo che percorreva
con la tensione di un cinghiale braccato da una muta; e quella
deviazione gli parve un'umiliazione suprema: persino i bambini
gli impedivano di passare! Alla fine, quando si fu rifugiato
nella sua stanza come un animale ferito che torna a morire nella
tana, si buttò sulla sedia, distrutto, esaminando i pantaloni
induriti dal fango e le scarpe scalcagnate che sgocciolavano
sul pavimento.
Questa volta era proprio la fine. Nantas si domandava come si
sarebbe ucciso. Il suo orgoglio restava in piedi: riteneva che
il proprio suicidio avrebbe punito Parigi. Essere una forza,
sentire in sé una potenza e non trovare una persona che
ti comprenda, che ti dia la prima moneta di cui hai bisogno!
Gli sembrava una cosa mostruosamente stupida; tutto il suo essere
si ribellava in preda alla collera. E poi c'era in lui un immenso
rimpianto quando lo sguardo si posava sulle sue braccia inutili.
Eppure nessun lavoro gli faceva paura; avrebbe sollevato il mondo
intero con l'ultima falange del dito mignolo; e restava lì,
ricacciato nel suo angolino, ridotto all'impotenza, a divorarsi
come un leone in gabbia. Ma ben presto si calmava; trovava che
la morte era più grande. Quand'era piccolo gli avevano
raccontato la storia di un inventore che, dopo aver costruito
una macchina meravigliosa, un giorno la spaccò a martellate,
davanti all'indifferenza della folla. Ebbene! era lui quell'uomo;
portava in sé una forza nuova, un raro meccanismo d'intelligenza
e di volontà, e avrebbe distrutto quella macchina spaccandosi
il cranio sul selciato.
Il sole tramontava dietro ai grandi alberi del palazzo Danvilliers,
un sole d'autunno i cui raggi d'oro accendevano le foglie ingiallite.
Nantas si alzò come attratto dall'addio di quell'astro.
Stava per morire e aveva bisogno di luce. Per un attimo si sporse.
Spesso, tra la massa del fogliame, all'angolo d'un viale, aveva
visto una ragazza bionda, molto alta, che camminava con un orgoglio
principesco. Lui non era affatto romantico; aveva superato l'età in
cui i ragazzi sognano, nelle mansarde, che signorine del bel
mondo vengano a portar loro grandi passioni e grandi fortune.
Eppure accadde, in quell'ora suprema del suicidio, che si ricordasse
all'improvviso di quella bella ragazza bionda, così altera.
Come poteva chiamarsi? Ma contemporaneamente strinse i pugni,
perché provava solo odio per gli abitanti di quel palazzo,
le cui finestre socchiuse gli lasciavano intravedere angoli di
lusso severo; e in un accesso di rabbia mormorò: “Oh!
Mi venderei, se mi dessero le prime cento monete della mia futura
fortuna mi venderei!”
Quell'idea di vendersi lo assorbi per un momento. Se ci fosse
stato da qualche parte un monte di pietà dove facevano
credito sulla volontà e l'energia, sarebbe andato a impegnarsi.
Immaginava delle contrattazioni: un uomo politico veniva a comprarlo
per far di lui il suo strumento; un banchiere lo prendeva per
servirsi in qualsiasi momento della sua intelligenza; e lui accettava,
disprezzando l'onore e dicendosi che bastava essere forti e trionfare,
un giorno. Poi sorrise. Era forse possibile vendersi? I furfanti
che spiano le occasioni crepano di miseria senza mai mettere
le mani su un compratore. Temette di essere vigliacco; si disse
che si stava inventando delle distrazioni. E si sedette di nuovo,
giurando che si sarebbe precipitato dalla finestra a notte fonda.
Tuttavia, la stanchezza era tale che si addormentò sulla
sedia. All'improvviso fu svegliato da un rumore di voci. Era
la portinaia che introduceva una signora nella sua stanza.
–
Signore, – cominciò, – mi sono permessa di
far salire...
E, non appena si accorse che nella stanza non c'era luce, ridiscese
rapidamente a prendere una candela. Pareva conoscere la persona
che conduceva, compiacente e rispettosa al tempo stesso.
–
Ecco, – disse di nuovo nel ritirarsi. – Potete parlare:
nessuno vi disturberà.
Nantas, che si era svegliato di soprassalto, guardava la signora
con sorpresa. Lei aveva alzato la veletta. Era una persona sui
quarantacinque anni, piccola, molto grassa, con un viso fresco
e bianco da vecchia beghina. Non l'aveva mai vista. Quando le
offri l'unica sedia interrogandola con lo sguardo, lei si presentò:
–
Signorina Chuin... Vengo, signore, per intrattenerla su un affare
importante.
Lui aveva dovuto sedersi sul bordo del letto. Il nome della signorina
Chuin non gli diceva niente. Scelse di aspettare che fosse la
donna a spiegarsi. Ma lei non aveva fretta; con uno sguardo aveva
fatto il giro dell'angusta stanza, e sembrava esitare sul modo
con cui avrebbe avviato la conversazione. Alla fine parlò,
con una voce molto dolce, sottolineando con un sorriso le frasi
delicate.
–
Signore, vengo da amica... Mi hanno dato sul vostro conto le
informazioni più toccanti. Non pensiate, certo, che vi
abbia fatto spiare. Non c'è, in tutto questo, nient'altro
che il vivo desiderio di esservi utile. So quanto la vita sia
stata dura con voi fino a questo momento, con quale coraggio
abbiate lottato per trovare un impiego, e quale sia oggi il deprimente
risultato di tanti sforzi... Perdonatemi ancora una volta, signore,
d'introdurmi così nella vostra esistenza. Vi giuro che
la simpatia soltanto...
Incuriosito, Nantas non l'interrompeva, pensando che la portinaia
aveva dovuto fornire tutti quei dettagli. La signorina Chuin
era libera di continuare, eppure sempre di più cercava
complimenti, modi carezzevoli di dire le cose.
–
Siete un giovane di grande avvenire, signore. Mi sono permessa
di seguire i vostri tentativi e sono stata fortemente colpita
dalla vostra lodevole fermezza nella sfortuna. Insomma, mi sembra
che andreste lontano se qualcuno vi tendesse la mano.
Si fermò di nuovo. Aspettava una parola. Il giovane credette
che quella signora venisse a offrirgli un posto. Rispose che
avrebbe accettato qualsiasi cosa. Ma lei, ora che il ghiaccio
era rotto, gli chiese apertamente: – Provereste qualche
ripugnanza a sposarvi?
–
Sposarmi! – esclamò Nantas. – Eh! Buon Dio!
Chi mi vorrebbe, signora?... Qualche povera ragazza che non potrei
nemmeno mantenere.
–
No. Una ragazza molto bella, molto ricca, magnificamente imparentata,
che con un gesto solo vi metterà in mano tutti i mezzi
per raggiungere la posizione più alta.
Nantas non rideva più.
–
Qual è la contropartita dunque? – chiese, abbassando
istintivamente la voce.
–
Questa ragazza è incinta, e bisogna riconoscere il bambino, – disse
chiaramente la signorina Chuin, che adesso dimenticava i giri
di frase untuosi per arrivare più presto al dunque.
–
È un'infamia quella che mi proponete, – mormorò lui.
–
Oh! Un'infamia, – esclamò la signorina Chuin, ritrovando
la sua voce mielosa, – non accetto questa brutta parola...
La verità, signore, è che voi salvereste una famiglia
dalla disperazione. Il padre ignora tutto; la gravidanza è ancora
poco avanzata; sono io che ho concepito l'idea di sposare al
più presto la poveretta, presentando il marito come il
padre del bambino. Conosco il padre autentico, ne morirebbe.
Il mio espediente attutirà il colpo: crederà a
una riparazione... La disgrazia è che il vero seduttore è sposato.
Ah! signore, esistono uomini che mancano davvero di senso morale...
Avrebbe potuto andare avanti cosi per molto. Nantas non l'ascoltava
più. Ma perché rifiutare? Non chiedeva di vendersi
poco fa? Ebbene! Venivano a comprarlo. Niente in cambio di niente.
Lui dava il suo nome, loro gli davano una posizione. Era un contratto
come un altro. Si guardò i pantaloni inzaccherati dal
fango di Parigi; senti che non aveva mangiato dal giorno prima;
tutta la collera di quei due mesi di ricerche e di umiliazioni
tornò a infiammargli il cuore. Finalmente! Si sarebbe
affermato in quel mondo che rifiutava e lo spingeva al suicidio!
–
Accetto, – disse aspramente.
Poi pretese dalla signorina Chuin spiegazioni più chiare.
Cosa voleva per la sua mediazione? Lei protestò, non voleva
niente. Tuttavia, fini per chiedere ventimila franchi sul capitale
che avrebbero destinato al giovane. E siccome lui non mercanteggiava,
lei si mostrò espansiva.
–
Sapete, sono io che ho pensato a voi. La giovane non ha detto
di no quando vi ho nominato... Oh! E un buon affare, più tardi
mi ringrazierete. Avrei potuto trovare un uomo titolato, ne conosco
uno che mi avrebbe baciato le mani. Ma ho preferito scegliere
al di fuori del mondo di quella poverina. Sembrerà più romantico...
E poi, voi mi piacete. Siete cortese; avete un carattere saldo
e le idee chiare. Oh! Andrete lontano. Non scordatevi di me,
sono a vostra completa disposizione.
Fin lì non era stato pronunciato alcun nome. Alla domanda
di Nantas, la zitella si alzò e disse, presentandosi di
nuovo:
–
Signorina Chuin... Sono al servizio del barone Danvilliers dalla
morte della baronessa, in qualità di governante. Sono
io che ho allevato la signorina Flavie, la figlia del signor
barone... La signorina Flavie è la giovane in questione.
E si ritirò, dopo aver deposto con discrezione sul tavolo
una busta contenente un biglietto da cinquecento franchi. Era
un anticipo di tasca propria per provvedere alle prime spese.
Quando fu solo, Nantas andò a mettersi alla finestra.
La notte era molto buia; adesso si distingueva soltanto la massa
degli alberi, dall'oscurità più intensa; una finestra
risplendeva sulla facciata scura del palazzo. Dunque, era una
ragazza alta e bionda, che camminava con un passo da regina e
che non si degnava affatto di vederlo. Lei o un'altra, che importava
del resto! La donna non rientrava nell'affare. Allora Nantas
levò lo sguardo più in alto, su Parigi che rombava
nelle tenebre; sui Lungosenna, le strade, i crocevia della Rive
gauche, illuminati dalle fiammelle danzanti del gas; e diede
del tu a Parigi, diventò disinvolto e superiore.
–
Adesso sei mia!
II.
Il
barone Danvilliers era nel salone che gli faceva da studio,
una stanza alta e severa, tappezzata di cuoio, arredata con
mobili antichi. Dall'antivigilia era rimasto come fulminato
dalla storia che la signorina Chuin gli aveva raccontato sul
disonore di Flavie. Per quanto lei l'avesse presa alla lontana,
edulcorando i fatti, il vecchio aveva accusato il colpo, e
soltanto l'idea che il seduttore potesse offrire una riparazione
definitiva lo teneva ancora in piedi. Quella mattina aspettava
la visita di un uomo che non conosceva affatto e che gli prendeva
sua figlia in quel modo. Suonò il campanello.
–
Joseph, verrà un giovane che farai accomodare... Non ci
sono per nessun altro.
E se ne stava solo, accanto al fuoco, a rimuginare. Il figlio
d'un muratore, un morto di fame che non aveva nessuna posizione
onesta! La signorina Chuin lo presentava, sì, come un
ragazzo promettente, ma che vergogna in una famiglia fino a quel
momento senza macchia! Flavie si era accusata con una specie
di furore, per risparmiare alla sua governante il minimo rimprovero.
Restava chiusa in camera da quella penosa spiegazione; il barone
si era rifiutato di rivederla. Voleva, prima di perdonare, sistemare
lui stesso quella terribile vicenda. Aveva già preso tutti
i provvedimenti. Ma i suoi capelli erano diventati completamente
bianchi e un tremolio senile gli agitava la testa.
–
Il signor Nantas, – annunciò Joseph.
Il barone non si alzò. Voltò soltanto la testa
e guardò fisso Nantas che veniva avanti. Aveva avuto l'intelligenza
di non cedere al desiderio di vestirsi a nuovo; aveva comprato
una redingote e un paio di pantaloni neri ancora decenti, ma
molto lisi; gli davano l'aria d'uno studente povero e curato,
che non aveva nulla dell'avventuriero. Si fermò in mezzo
alla stanza e attese, in piedi, eppure senza umiltà.
–
Dunque siete voi, signore, – balbettò il vecchio.
Ma non riuscì a continuare, l'emozione lo soffocava; temeva
di lasciarsi andare a qualche atto di violenza. Dopo un attimo
di silenzio disse semplicemente: – Signore, avete commesso
una cattiva azione.
E, mentre Nantas stava per scusarsi, ripeté con più forza: – Una
cattiva azione... Non voglio sapere niente, vi prego di non cercare
di spiegarmi le cose. Anche se mia figlia vi avesse buttato le
braccia al collo, il vostro crimine rimarrebbe identico... Solamente
i ladri s'introducono con altrettanta violenza nelle famiglie.
Nantas aveva di nuovo chinato la testa.
–
È una dote guadagnata facilmente. E una trappola in cui
eravate sicuro di far cadere la figlia e il padre...
–
Permettete, signore, – interruppe il giovane che si ribellava.
Ma il barone ebbe un gesto terribile.
–
Come? Cosa volete che permetta?... Non tocca a voi parlare qui.
Vi dico quel che devo dirvi e quel che dovete ascoltare, dal
momento che venite a me come colpevole... Mi avete oltraggiato.
Vedete questa casa? La nostra famiglia ci ha vissuto per più di
tre secoli senza una macchia; non vi respirate un onore secolare,
una tradizione di dignità e di rispetto ? Ebbene, signore,
voi avete schiaffeggiato tutto questo. Sono stato lì lì per
morirne, e oggi le mie mani tremano, come se fossi improvvisamente
invecchiato di dieci anni... Tacete e ascoltatemi.
Nantas era diventato molto pallido. Aveva accettato un ruolo
molto pesante. Tuttavia volle addurre come pretesto l'accecamento
della passione.
–
Ho perso la testa, – mormorò, nel tentativo d'inventare
un romanzo. – Non sono riuscito a vedere la signorina Flavie...
Al nome di sua figlia, il barone si alzò e urlò con
voce tonante: – Tacete! Vi ho detto che non volevo sapere
niente. Che mia figlia sia venuta a cercarvi o siate stato voi
ad andare da lei, questo non mi riguarda. Non le ho chiesto niente,
non vi chiedo niente. Tenetevi tutti e due le vostre confessioni, è una
scelleratezza in cui io non entrerò.
Si risedette, tremante, estenuato. Nantas chinava la testa, profondamente
scosso malgrado il controllo che manteneva su di sé. Dopo
un attimo di silenzio il vecchio riprese con la voce brusca di
un uomo che tratta un affare: – Vi chiedo scusa, signore.
Mi ero ripromesso di mantenere il sangue freddo. Non siete voi
ad appartenermi, sono io che vi appartengo dal momento che sonno
alla vostra mercé. Siete qui per offrirmi una transazione
divenuta necessaria. Transigiamo, signore.
E da quel momento assunse il modo di parlare d'un procuratore
legale che risolve con un patteggiamento un processo vergognoso,
in cui mette le mani unicamente con disgusto. Disse pacatamente: – La
signorina Flavie Danvilliers ha ereditato, alla morte di sua
madre, la somma di duecentomila franchi, di cui sarebbe entrata
in possesso soltanto il giorno del suo matrimonio. Questa somma
ha già prodotto degli interessi. Del resto, ecco i conti
della mia curatela che voglio comunicarvi.
Aveva aperto un fascicolo; lesse delle cifre. Nantas tentò invano
di fermarlo. Adesso un'emozione lo prendeva di fronte a quel
vecchio così leale e così semplice, che gli appariva
grandissimo da quando si era calmato.
–
Per finire, – concluse il barone, – nel contratto
che il mio notaio ha stilato stamattina, vi riconosco un apporto
di duecentomila franchi. So che non avete niente. Riscuoterete
i duecentomila franchi dal mio banchiere il giorno dopo il matrimonio.
–
Ma, signore, – disse Nantas, – io non vi chiedo il
vostro denaro, voglio soltanto vostra figlia...
Il barone gli tolse la parola
–
Non avete il diritto di rifiutare, e mia figlia non potrebbe
sposare un uomo meno ricco di lei... Vi do la dote che le destinavo,
ecco tutto. Forse avevate calcolato di trovare di più,
ma mi si crede più ricco di quel che non sia in realtà,
signore.
E mentre il giovane restava ammutolito da quest'ultima crudeltà,
il barone concluse l'incontro, suonando al domestico.
–
Joseph, dì alla signorina che l'aspetto immediatamente
nel mio studio.
Si era alzato e camminava lentamente; non pronunciò più una
parola. Nantas restava in piedi, immobile. Stava ingannando quel
vecchio; si sentiva piccolo e senza forza davanti a lui. Finalmente
Flavie entrò.
–
Figlia, – disse il barone, – ecco quest'uomo. Il
matrimonio si svolgerà nei termini di legge.
E se ne andò; li lasciò soli, come se, per lui,
il matrimonio fosse già concluso. Quando la porta si fu
richiusa, regnò il silenzio. Nantas e Flavie si guardarono.
Non si erano ancora visti. Gli sembrò molto bella, con
quel viso pallido e altero, e i grandi occhi grigi che non abbassavano
lo sguardo. Forse aveva pianto nei tre giorni in cui non aveva
lasciato la sua camera; ma la freddezza delle sue guance doveva
aver gelato le lacrime. Fu lei a parlare per prima.
–
Allora, signore, l'affare è concluso?
–
Sì, signora, – rispose semplicemente Nantas.
Fece una smorfia involontaria, avvolgendolo in un lungo sguardo
che sembrava cercare in lui la sua bassezza.
–
Bene, tanto meglio, – riprese lei. – Temevo di non
trovare nessuno per un affare simile.
Nantas sentì, dal tono della voce, tutto il disprezzo
di cui lei lo ricopriva. Ma rialzò la testa. Se aveva
tremato davanti al padre sapendo d'ingannarlo, era deciso a essere
fermo e risoluto di fronte alla figlia che era sua complice.
–
Scusate, signora, – disse tranquillamente, con grande cortesia, – credo
che fraintendiate la situazione in cui ci mette quello che, molto
giustamente, avete appena definito un affare. Desidero che, fin
da oggi, ci poniamo su un piano di uguaglianza...
–
Ah! davvero, – interruppe Flavie, con un sorriso sprezzante.
–
Sì, su un piano di completa uguaglianza... Voi avete bisogno
di un nome per nascondere un errore che non mi permetto di giudicare,
e io vi do il mio. Da parte mia, ho bisogno di capitali e d'una
certa posizione sociale per realizzare grandi imprese, e voi
mi portate questi capitali. Da oggi siamo due soci le cui quote
si bilanciano; non dobbiamo far altro che ringraziarci per il
favore che ci facciamo vicendevolmente.
Lei non sorrideva più. Una piega d'orgoglio irritato le
corrugava la fronte. Tuttavia non rispose. Dopo una pausa disse: – Conoscete
le mie condizioni?
–
No, signora, – disse Nantas, che manteneva una calma perfetta. – Vogliate
dettarmele; mi sottometto fin da ora.
Allora lei si espresse chiaramente, senza un'esitazione né un
rossore.
–
Sarete mio marito sempre e soltanto di nome. Le nostre vite resteranno
completamente distinte e separate. Abbandonerete tutti i vostri
diritti su di me e io non avrò alcun dovere verso di voi.
A ogni frase, Nantas accettava con un cenno della testa. Era
esattamente quello che desiderava. Aggiunse: – Se credessi
di dover essere galante, vi direi che condizioni così dure
mi fanno disperare. Ma siamo superiori a complimenti così insulsi.
Sono molto contento di vedere che avete il coraggio richiesto
dalle nostre rispettive situazioni. Entriamo nella vita attraverso
un sentiero dove non si colgono fiori. Non vi chiedo che una
cosa, signora, ed è quella di non fare un uso della libertà che
vi lascio tale da rendere necessario il mio intervento.
–
Signore! – disse con veemenza Flavie, ferita nell'orgoglio.
Ma lui s'inchinò rispettosamente, supplicandola di non
offendersi. La loro posizione era delicata; dovevano entrambi
tollerare certe allusioni senza cui l'intesa diveniva impossibile.
Evitò d'insistere ulteriormente. La signorina Chuin, in
un secondo incontro, gli aveva raccontato l'errore di Flavie.
Il suo seduttore era un certo signor des Fondettes, il marito
di una delle sue amiche del convento. Durante il mese che aveva
trascorso da loro in campagna si era trovata una sera tra le
braccia di quell'uomo, senza sapere di preciso come potesse essere
accaduto e fino a che punto lei fosse consenziente. La signorina
Chuin parlava quasi d'uno stupro.
Tutt'a un tratto Nantas ebbe un moto amichevole. Come tutte le
persone che hanno coscienza della propria forza, amava essere
bonario.
–
Sentite, signora! – esclamò. – Non ci conosciamo;
ma avremmo davvero torto a detestarci cosi, a prima vista. Forse
siamo fatti per intenderci... Vedo chiaramente che mi disprezzate;
il fatto è che ignorate la mia storia.
E parlò con fervore, appassionandosi, raccontando la sua
vita divorata dall'ambizione a Marsiglia, spiegando la rabbia
dei due mesi d'inutili tentativi a Parigi. Poi mostrò il
proprio disprezzo per ciò che chiamava “convenzioni
sociali”, in cui sguazzano la maggior parte degli uomini.
Che importava il giudizio della folla, quando ci si affermava
su di essa! Si trattava di essere superiori. L'onnipotenza scusava
tutto. E a grandi linee dipinse la vita eccezionale che avrebbe
saputo crearsi. Non temeva più nessun ostacolo; niente
prevaleva contro la forza. Sarebbe stato forte, sarebbe stato
felice.
–
Non pensate che sia banalmente interessato, – aggiunse. – Non
mi vendo per la vostra fortuna. Prendo il vostro denaro soltanto
come un mezzo per salire molto in alto... Oh! Se sapeste tutto
quel che ribolle dentro di me, se sapeste le notti ardenti che
ho trascorso a rifare sempre lo stesso sogno, incessantemente
travolto dalla realtà del giorno dopo, mi capireste, sareste
forse fiera di appoggiarvi al mio braccio, convincendovi che
mi fornite finalmente i mezzi per essere qualcuno!
Lei l'ascoltava, impettita; non un lineamento del viso si muoveva.
E lui si faceva una domanda che rimuginava da tre giorni senza
riuscire a trovare la risposta: l'aveva forse notato alla finestra,
per aver accettato così presto il progetto della signorina
Chuin quando costei l'aveva nominato? Gli venne il curioso pensiero
che forse si sarebbe messa ad amarlo d'un amore romantico, se
lui avesse rifiutato con indignazione l'affare che la governante
era venuta a proporgli.
Tacque, e Flavie rimase di ghiaccio. Poi, come se non le avesse
fatto quella confessione, lei ripeté seccamente: – Dunque:
mio marito soltanto di nome, le nostre vite completamente distinte,
una libertà assoluta.
Nantas riprese subito l'aria cerimoniosa e quella voce secca
dell'uomo che discute un contratto.
–
È concordato, signora.
E si ritirò, scontento di sé. Come aveva potuto
cedere alla sciocca voglia di convincere quella donna? Era molto
bella; sarebbe stato meglio che non avessero niente in comune,
perché lei avrebbe potuto intralciarlo nella vita.
III.
Dieci
anni erano trascorsi. Una mattina Nantas si trovava nello studio
dove il barone Danvilliers lo aveva un tempo così duramente
accolto, in occasione del loro primo incontro. Adesso quello
studio era suo; il barone, dopo essersi riconciliato con la
figlia e il genero, aveva lasciato loro il palazzo, riservandosi
soltanto un padiglione situato all'altro capo del giardino,
in Rue de Beaune. In dieci anni Nantas aveva conquistato una
delle più grandi fortune finanziarie e industriali.
Coinvolto in tutte le grandi imprese ferroviarie, lanciato
in tutte le speculazioni sui terreni che caratterizzarono i
primi anni dell'Impero, aveva realizzato rapidamente un'immensa
fortuna. Ma la sua ambizione non si fermava lì; voleva
ricoprire una carica politica, ed era riuscito a farsi nominare
deputato in un dipartimento in cui possedeva numerose fattorie.
Fin dal suo ingresso nel corpo legislativo, si era candidato
come futuro Ministro delle Finanze. Grazie ai suoi contatti
esclusivi e alla sua facilità di parola, giorno dopo
giorno vi assumeva un posto sempre più importante. Del
resto, mostrava abilmente un'assoluta fedeltà all'Impero,
pur avendo in materia di finanza delle teorie personali che
facevano scalpore e che – ne era al corrente – preoccupavano
molto l'imperatore.
Quella mattina Nantas era oberato dagli impegni. Nei vasti uffici
che aveva installato al pianoterra del palazzo regnava un'attività prodigiosa.
Una folla d'impiegati, gli uni immobili dietro agli sportelli,
gli altri che andavano e venivano incessantemente facendo sbattere
le porte; un rumore d'oro continuo; sacchi aperti e rovesciati
sui tavoli; la musica ininterrotta d'una cassa il cui flusso
sembrava dover inondare le strade. Poi, nell'anticamera, una
moltitudine si accalcava; postulanti, uomini d'affari, uomini
politici: tutta Parigi in ginocchio davanti alla potenza. Spesso,
personaggi importanti aspettavano lì pazientemente per
un'ora. E lui, seduto alla sua scrivania, in corrispondenza epistolare
con la provincia e l'estero, capace di stringere il mondo semplicemente
allungando le braccia, realizzava finalmente il suo vecchio sogno
di forza, si sentiva il motore intelligente di una colossale
macchina che smuoveva i regni e gli imperi.
Nantas suonò all'usciere che gli controllava la porta.
Sembrava preoccupato.
–
Germain, – chiese, – sai se la signora è rientrata
? E, avendo l'usciere risposto che lo ignorava, gli ordinò di
far scendere la cameriera della signora. Ma Germain non se ne
andava.
–
Scusate, signore, – mormorò, – c'è il
signor presidente del corpo legislativo che insiste per entrare.
Nantas ebbe un moto d'impazienza, e disse: – Fallo entrare,
allora! E fa' quel che ti ho ordinato.
Il giorno prima, a proposito di un aspetto fondamentale del bilancio,
un discorso di Nantas aveva prodotto un'impressione tale, che
l'articolo in discussione era stato inoltrato alla commissione
perché venisse emendato nel senso da lui indicato. Dopo
la seduta si era sparsa la voce che il Ministro delle Finanze
avrebbe rassegnato le dimissioni, e nei gruppi già s'indicava
il giovane deputato come suo successore. Lui faceva spallucce:
niente era concluso, e con l'imperatore aveva avuto soltanto
un colloquio su punti specifici. Tuttavia, la visita del presidente
del corpo legislativo poteva essere ricca di significato. Parve
scrollarsi di dosso la preoccupazione che lo crucciava, si alzò e
andò a stringere la mano al presidente.
–
Ahi! signor duca, – disse, – vi faccio le mie scuse.
Ignoravo che foste qui... Sappiate che sono molto lusingato dall'onore
che mi fate.
Per alcuni minuti conversarono passando da un argomento all'altro,
con un tono di cordialità. Poi il presidente, senza rivelare
niente di preciso, gli fece intendere che era stato mandato dall'imperatore
per sondarlo. Avrebbe accettato il portafoglio delle finanze,
e con quale programma? Allora lui, con imperturbabile sangue
freddo, pose le sue condizioni. Ma sotto il suo viso impassibile
saliva un ruggito di trionfo. Finalmente stava scalando l'ultimo
gradino; era in cima. Ancora un passo e avrebbe avuto tutte le
teste sotto di sé. Mentre il presidente concludeva, dicendo
che si sarebbe recato all'istante dall'imperatore per comunicargli
il programma discusso, una porticina che dava sugli appartamenti
si aprì, e comparve la cameriera della signora.
Nantas, ridiventato improvvisamente pallido, non terminò la
frase che stava pronunciando. Corse da quella donna, mormorando: – Scusatemi,
signor duca...
E, sottovoce, la interrogò. La signora era dunque uscita
di buon'ora? Aveva detto dove andava? Quando sarebbe dovuta rientrare?
La cameriera rispondeva con parole vaghe, da ragazza intelligente
che non vuole compromettersi. Avendo compreso l'ingenuità di
quell'interrogatorio, Nantas finì per dire semplicemente: – Appena
la signora torna, avvertila che desidero parlarle. Sorpreso,
il duca si era avvicinato a una finestra e guardava nel cortile.
Nantas tornò da lui, scusandosi di nuovo. Ma aveva perso
il suo sangue freddo; balbettò; lo stupì con parole
poco accorte.
–
Ecco, ho rovinato tutto, – si lasciò scappare ad
alta voce, quando il presidente non fu più lì. – Quel
portafoglio mi sfuggirà. E rimase in uno stato di turbamento,
inframmezzato da accessi di collera. Molte persone vennero introdotte
nel suo ufficio. Un ingegnere aveva da presentargli un rapporto
che annunciava la possibilità di ottenere benefici enormi
dallo sfruttamento d'una miniera. Un diplomatico lo intrattenne
a proposito di un prestito che una potenza vicina voleva chiedere
a Parigi. Vari protetti sfilarono, rendendogli conto di venti
affari considerevoli. Infine, ricevette un gran numero di colleghi
della Camera; tutti si profondevano in elogi sperticati riguardo
al suo discorso del giorno precedente. Lui, sprofondato nella
poltrona, accettava quell'incenso senza un sorriso. L'oro continuava
a risuonare negli uffici vicini; una vibrazione da fabbrica faceva
tremare i muri, come se tutto quell'oro sonante fosse stato prodotto
lì. Non doveva fare altro che impugnare una penna per
evadere dei dispacci il cui arrivo avrebbe rallegrato o gettato
nella costernazione i mercati d'Europa; poteva impedire o far
precipitare la guerra, appoggiando o combattendo il prestito
di cui gli avevano parlato; anche se aveva in mano il bilancio
della Francia, presto avrebbe saputo se sarebbe stato pro o contro
l'Impero. Era il trionfo; la sua personalità sviluppata
oltre misura diventava il centro intorno a cui girava tutto un
mondo. E non gustava affatto quel trionfo come si era ripromesso
di fare. Provava una tale stanchezza; la mente era altrove; trasaliva
al minimo rumore. Quando una fiamma, una febbre d'ambizione soddisfattagli
saliva alle guance, si sentiva subito impallidire, come se da
dietro, all'improvviso, una mano fredda l'avesse toccato alla
nuca.
Due ore erano trascorse, e Flavie non era ancora comparsa. Nantas
suonò per chiamare Germain e incaricarlo di andare a cercare
il signor Danvilliers, se il barone fosse stato in casa. Rimasto
solo, andò avanti e indietro nello studio, rifiutandosi
di ricevere ancora per quel giorno. A poco a poco la sua agitazione
era aumentata. Evidentemente sua moglie era a qualche appuntamento.
Doveva aver riallacciato i rapporti con il signor des Fondettes,
che era vedovo da sei mesi. Certamente, Nantas si proibiva di
essere geloso; per dieci anni aveva strettamente osservato il
trattato concluso; voleva soltanto – diceva – non
essere ridicolo. Mai avrebbe permesso a sua moglie di compromettere
la sua carriera, rendendolo lo zimbello di tutti. E la sua forza
lo abbandonava, quel sentimento di marito che vuole semplicemente
essere rispettato s'impadroniva di lui con un turbamento che
non aveva mai provato, nemmeno quando giocava le carte più azzardate
agli inizi della sua fortuna.
Flavie entrò, ancora con il cappotto; si era tolta solo
il cappello e i guanti. Con voce tremante, Nantas le disse che
sarebbe salito da lei se gli avesse fatto sapere che era rientrata.
Ma lei, senza sedersi, con l'aria frettolosa di una cliente,
fece un gesto per invitarlo a sbrigarsi.
–
Signora, – cominciò, – fra di noi si è resa
necessaria una spiegazione... Dove siete andata stamattina?
La voce fremente del marito, la mancanza di riguardo della sua
domanda la sorpresero enormemente.
–
Ma, – rispose freddamente, – dove mi è parso.
–
Appunto, è proprio quello che ormai non mi sta più bene, – riprese
lui, diventando molto pallido. – Dovreste ricordarvi di
quel che vi dissi. Non tollererò che facciate uso della
libertà che vi lascio in modo da disonorare il mio nome.
Flavie fece un sorriso di supremo disprezzo.
–
Disonorare il vostro nome, signore? Ma questo riguarda voi, è un
compito che è già stato assolto.
Allora, Nantas, in un impeto incontrollabile, avanzò verso
di lei come per colpirla, balbettando: – Disgraziata, uscite
ora dalle braccia del signor des Fondettes... Avete un amante,
lo so.
–
Vi sbagliate, – disse lei senza indietreggiare davanti
alla sua minaccia, – non ho mai rivisto il signor des Fondettes...
Ma, anche se avessi un amante, voi non avreste il diritto di
rimproverarmelo. Perché dovrebbe riguardavi? Dimenticate
i nostri accordi.
Per un attimo la guardò con occhi smarriti; poi, scosso
da singhiozzi, mettendo nel suo grido una passione a lungo contenuta,
piombò ai suoi piedi.
–
Oh! Flavie, vi amo!
Lei, impettita, si scostò, perché le aveva toccato
l’orlo della veste. Ma l'infelice la seguiva trascinandosi
sulle ginocchia, a mani tese.
–
Vi amo, Flavie, vi amo come un pazzo... È successo non
so come. Ormai da anni. E a poco a poco mi ha preso completamente.
Oh! ho lottato; trovavo questa passione indegna di me; ricordavo
il nostro primo colloquio... Ma oggi soffro troppo, bisogna che
vi parli...
A lungo continuò. Era il crollo di tutte le sue convinzioni.
Quell'uomo che aveva riposto la sua fede nella propria forza,
che sosteneva che la volontà è l'unica leva capace
di sollevare il mondo, cadeva annientato, debole come un bambino,
disarmato davanti a una donna. E realizzato il suo sogno di fortuna,
conquistata la sua alta posizione, avrebbe dato tutto perché quella
donna lo rialzasse con un bacio sulla fronte. Lei gli rovinava
il trionfo. Non sentiva più l'oro risuonare nei suoi uffici;
non pensava più alla sfilata di cortigiani che erano appena
venuti a salutarlo; dimenticava che l'imperatore, in quel momento,
lo stava forse chiamando al potere. Quelle cose non esistevano.
Aveva tutto, e non voleva che Flavie. Se Flavie si rifiutava,
non aveva niente.
–
Sentite, – continuò, – quello che ho fatto,
l'ho fatto per voi... All'inizio, è vero, non contavate,
lavoravo per soddisfare il mio orgoglio. Poi, siete diventata
l'unica meta di tutti i miei pensieri, di tutti i miei sforzi.
Mi dicevo che dovevo salire più in alto possibile per
meritarvi. Speravo di intenerirvi il giorno in cui avrei messo
ai vostri piedi la mia potenza. Guardate dove sono oggi. Non
ho guadagnato il vostro perdono? Non disprezzatemi più,
ve ne scongiuro!
Lei non aveva ancora parlato. Disse tranquillamente: – Rialzatevi,
signore, potrebbe entrare qualcuno.
Lui si rifiutò, la supplicò ancora. Forse avrebbe
aspettato, se non fosse stato geloso del signor des Fondettes.
Era un tormento che lo sconvolgeva. Poi, si fece molto umile.
–
È chiaro che mi disprezzate ancora. Ebbene, aspettate,
non date il vostro amore a nessuno. Vi prometto cose così grandi
che riuscirò a farvi cedere. Dovete perdonarmi se sono
stato brutale poco fa. Non ho più la testa a posto...
Oh!, lasciatemi sperare che mi amerete un giorno!
–
Mai! – pronunciò lei con energia.
E mentre lui restava in terra, prostrato, lei fece per uscire.
Ma lui, fuori di sé, in preda a un accesso di collera,
si alzò e l'afferrò ai polsi. Una donna, sfidarlo
così, quando il mondo era ai suoi piedi! Poteva tutto,
rovesciare gli Stati, governare la Francia a suo piacimento,
e non sarebbe riuscito a ottenere l'amore di sua moglie! Lui,
così forte, così potente; lui, i cui desideri più insignificanti
erano ordini, non aveva più che un unico desiderio, e
quel desiderio non si sarebbe mai realizzato perché una
creatura, debole come un bambino, rifiutava! Le stringeva le
braccia, ripetendo con voce roca: – Voglio... voglio...
–
E io non voglio, – diceva Flavie, pallidissima e irrigidita
nella sua volontà.
La lotta continuava quando il barone Danvilliers aprì la
porta. Nel vederlo, Nantas lasciò andare Flavie ed esclamò: – Signore,
ecco vostra figlia che rientra dopo essere stata dal suo amante...
Ditele dunque che una moglie deve rispettare il nome del marito,
anche quando non lo ama e il pensiero del proprio onore non la
ferma più.
Il barone, molto invecchiato, restava in piedi sulla soglia,
davanti a quella scena di violenza. Era per lui una sorpresa
dolorosa. Credeva la coppia unita; approvava i rapporti cerimoniosi
dei due sposi, pensando che non ci fosse in essi che un contegno
decoroso. Lui e il genero erano di due generazioni diverse; ma
se era ferito dall'attività poco scrupolosa del finanziere,
se condannava alcune iniziative considerandole temerarie, aveva
dovuto riconoscere la sua forza di volontà e la sua viva
intelligenza. E, all'improvviso, piombava in quel dramma insospettato.
Quando Nantas accusò Flavie di avere un amante, il barone,
che trattava ancora la figlia sposata con la severità che
le riservava a dieci anni, si avvicinò col suo passo da
vegliardo solenne.
–
Vi giuro che è appena uscita dalla casa del suo amante, – ripeteva
Nantas, – e guardatela! è lì che mi sfida.
Flavie, sprezzante, aveva voltato la testa. Si sistemava i polsini
che la brutalità del marito aveva sgualcito. Non un rossore
le era salito al viso. Intanto suo padre le parlava.
–
Figlia mia, perché non vi difendete? Vostro marito ha
detto forse la verità? Avreste forse riservato quest'ultimo
dolore alla mia vecchiaia?... L'affronto sarebbe anche nei miei
confronti, perché in una famiglia la colpa di un solo
membro basta a infangare tutti gli altri.
Allora lei ebbe un moto d'impazienza. Come se la prendeva comoda
suo padre nell'accusarla! Ancora per un istante sopportò l'interrogatorio;
voleva risparmiargli la vergogna d'una spiegazione. Ma poiché cominciava
a sua volta ad adirarsi vedendola muta e provocatrice, lei finì per
dire: – Ah! padre mio, lasciate che quest'uomo reciti la
sua parte... Non lo conoscete. Non costringetemi a parlare per
rispetto verso di voi.
–
È vostro marito, – riprese il vecchio. – E
il padre di vostro figlio.
Flavie si era raddrizzata, fremente.
–
No, no, non è il padre di mio figlio... Infine, vi dirò tutto.
Quest'uomo non è nemmeno un seduttore, perché sarebbe
una scusa almeno, se mi avesse amato. Quest'uomo si è semplicemente
venduto e ha acconsentito a coprire la colpa di un altro.
Il barone si voltò verso Nantas che, livido, indietreggiava.
–
Capite, padre mio! – riprendeva Flavie con più forza, – si è venduto,
venduto per denaro... Non l'ho mai amato, non mi ha mai toccata
con un dito... Ho voluto risparmiarvi un grande dolore, l'ho
comprato perché vi mentisse... Guardatelo, vedete se dico
la verità.
Nantas si nascondeva il viso tra le mani.
–
E oggi, – continuò la giovane donna, – ecco
che vuole che io l'ami... Si è messo in ginocchio e ha
pianto. Una commedia, senza dubbio. Perdonatemi di avervi ingannato,
padre; ma, davvero, appartengo forse a quest'uomo?... Adesso
che sapete tutto, portatemi via. Mi ha usato violenza poco fa,
non resterò qui un minuto di più.
Il barone raddrizzò la schiena curva. E in silenzio, andò a
offrire il braccio a sua figlia. Tutti e due attraversarono la
stanza, senza che Nantas facesse un gesto per trattenerli. Poi,
alla porta, il vecchio lasciò cadere soltanto queste parole: – Addio,
signore.
La porta si era richiusa. Nantas rimaneva solo, distrutto, a
guardare con aria folle il vuoto intorno a sé. Germain
era appena entrato e aveva posato una lettera sulla scrivania;
lui l’aprì meccanicamente e gli dette una scorsa.
Quella lettera, interamente di pugno dell'imperatore, lo chiamava
al ministero delle Finanze in termini molto cortesi. Comprese
appena. La realizzazione di tutte le sue ambizioni non lo toccava
più. Nelle casse vicine il rumore dell'oro era aumentato;
era l'ora in cui casa Nantas rimbombava, mettendo in moto un
intero universo. E lui, in mezzo a quell'immane fatica che era
la sua opera, all'apogeo della propria potenza, con gli occhi
stupidamente fissi sulla scrittura dell'imperatore, emise questo
lamento infantile, che era la negazione della sua vita intera: – Non
sono felice... Non sono felice...
Piangeva, con la testa abbandonata sulla scrivania, e le lacrime
calde cancellavano la lettera che lo nominava ministro.
IV.
Da
quando – diciotto mesi prima – era diventato ministro
delle Finanze, Nantas sembrava stordirsi con una mole di lavoro
sovrumana. All'indomani della violenta scena che si era svolta
nel suo studio, aveva avuto un incontro con il barone Danvilliers;
dietro consiglio del padre, Flavie aveva acconsentito a ritornare
al domicilio coniugale. Ma gli sposi non si rivolgevano più la
parola, al di fuori della commedia che dovevano recitare davanti
agli altri. Nantas aveva deciso che non l’avrebbe lasciato
i suoi appartamenti. La sera faceva venire i suoi segretari
e sbrigava lì il lavoro.
Fu il periodo della sua esistenza in cui realizzò le imprese
maggiori. Una voce gli suggeriva ispirazioni grandiose e feconde.
Al suo passaggio si levava un mormorio di simpatia e d'ammirazione.
Ma lui rimaneva insensibile agli elogi. Si sarebbe detto che
lavorasse senza sperare in alcuna ricompensa, con il pensiero
di accumulare attività all'unico scopo di tentare l'impossibile.
Ogni volta che saliva più in alto consultava il viso di
Flavie. Era finalmente colpita? Gli avrebbe perdonato la sua
antica infamia, per non vedere più nient'altro che le
conquiste della sua intelligenza? E continuava a non sorprendere
alcuna emozione sul viso muto di quella donna; allora si diceva,
rimettendosi al lavoro: “Forza! Non sono affatto arrivato
abbastanza in alto per lei; bisogna salire ancora, salire continuamente”.
Voleva forzare la felicità come aveva forzato la fortuna.
Gli stava tornando tutta la fede nella propria forza; non ammetteva
nessun'altra leva in questo mondo, perché è la
volontà della vita che ha forgiato l'umanità. Quando,
a volte, veniva preso dallo scoraggiamento, si rinchiudeva perché nessuno
potesse sospettare le debolezze della sua carne. Si indovinavano
le sue lotte soltanto dagli occhi più profondi, cerchiati
di nero, in cui bruciava una fiamma intensa.
Adesso la gelosia lo divorava. Non riuscire a farsi amare da
Flavie era un supplizio, ma una rabbia lo sconvolgeva quando
pensava che poteva darsi a un altro. Per affermare la propria
libertà, Flavie era capace di esibirsi in pubblico insieme
al signor des Fondettes. Faceva quindi finta di non occuparsi
affatto di lei, pur morendo d'angoscia alle sue minime assenze.
Se non avesse temuto il ridicolo l'avrebbe seguita lui stesso
per la strada. Fu allora che volle metterle accanto una persona
di cui avrebbe comprato la fedeltà.
La signorina Chuin continuava a prestare servizio nella casa.
Il barone era abituato a lei. D’altra parte, sapeva troppe
cose perché fosse possibile sbarazzarsene. C’era
stato un momento in cui la zitella aveva progettato di ritirarsi
con i ventimila franchi che Nantas le aveva dato all'indomani
del matrimonio. Ma senz’altro si era detta che quella casa
diventava buona per pescarvi nel torbido. Aspettava così una
nuova occasione, avendo calcolato che le occorrevano altri ventimila
franchi se voleva comprare a Roinville, il suo paese, la casa
del notaio che aveva tanto ammirato in gioventù.
Nantas non doveva farsi troppi riguardi con quella zitella, i
cui atteggiamenti trasudanti devozione non riuscivano più a
ingannarlo. Eppure, la mattina in cui la fece venire nel suo
studio e le propose apertamente di tenerlo al corrente dei più piccoli
movimenti della moglie, lei finse d'indignarsi, chiedendogli
per chi l'avesse presa.
–
Suvvia, signorina, – disse spazientito, – ho molta
fretta, mi aspettano. Concludiamo, vi prego.
Ma lei non intendeva sentir ragioni se lui non avesse curato
un po’ la forma. Il suo principio era che le cose non sono
brutte in sé, ma lo diventano o smettono di esserlo a
seconda del modo in cui vengono presentate.
–
Dunque, – riprese lui, – si tratta, signorina, d'una
buona azione... Temo che mia moglie mi nasconda certi dispiaceri.
La vedo triste da qualche settimana, e ho pensato a voi per ottenere
delle informazioni.
—
Potete contare su di me, — disse allora lei con effusione
materna. — Sono devota alla signora; farò qualsiasi
cosa per il suo onore e il vostro... Da domani stesso veglieremo
su di lei.
Le promise di ricompensarla dei suoi servigi. Lei dapprima s'arrabbiò.
Poi ebbe l'abilità di costringerlo a fissare una cifra:
le avrebbe dato diecimila franchi se gli avesse fornito una prova
formale della buona o della cattiva condotta della signora. A
poco a poco erano giunti a precisare le cose.
Da allora Nantas si tormentò di meno. Tre mesi trascorsero;
era impegnato in una grossa impresa, la preparazione del bilancio.
D'accordo con l'imperatore, aveva apportato al sistema finanziario
importanti modifiche. Sapeva che sarebbe stato violentemente
attaccato alla Camera, e doveva preparare una notevole quantità di
documenti. Spesso rimaneva sveglio per intere nottate. Questo
lo stordiva e lo rendeva paziente. Quando vedeva la signorina
Chuin l'interrogava con voce secca. Sapeva qualcosa? La signora
aveva fatto molte visite? Si era fermata in alcune case in particolare?
La signorina Chuin teneva un diario dettagliato. Ma non aveva
ancora raccolto che fatti senza importanza. Nantas si rassicurava,
mentre talvolta la vecchia stringeva gli occhi, ripetendo che
forse presto avrebbe avuto novità.
La verità era che la signorina Chuin aveva riflettuto
molto. Diecimila franchi non facevano al caso suo; gliene occorrevano
ventimila per comprare la casa del notaio. Ebbe dapprima l'idea
di vendersi alla moglie, dopo essersi venduta al marito. Ma conosceva
la signora, e temette di essere cacciata alla prima parola. Da
molto tempo, ancora prima che la incaricassero di quell'incombenza,
l'aveva spiata per conto suo, dicendosi che i vizi dei padroni
sono la fortuna dei servi; ma si era scontrata con una di quelle
onestà tanto più solide in quanto poggiano sull'orgoglio.
Dai tempi del suo errore, Flavie conservava un rancore verso
tutti gli uomini. La signorina Chuin cominciava a disperare,
quando un giorno incontrò il signor des Fondettes. Lui
le chiese così insistentemente della sua padrona che lei
capì di colpo che la desiderava follemente, divorato dal
ricordo dell'istante in cui l'aveva tenuta fra le braccia. E
il suo piano fu deciso: servire contemporaneamente il marito
e l'amante, ecco la combinazione geniale.
Per l'appunto, tutto capitava al momento giusto. Il signor des
Fondettes, respinto, ormai senza speranza, avrebbe dato la sua
fortuna per possedere ancora quella donna che era stata sua.
Fu lui che, per primo, sondò la signorina Chuin. La rivide,
recitò la parte dell'innamorato, giurando che si sarebbe
ucciso se lei non l'avesse aiutato. In capo a otto giorni, dopo
un gran dispendio di sensibilità e di scrupoli, l'affare
era concluso: lui avrebbe dato diecimila franchi e lei, una sera,
lo avrebbe nascosto nella camera di Flavie.
La mattina dopo la signorina Chuin si recò da Nantas.
—
Cosa avete saputo? — chiese lui impallidendo.
Ma lei, da principio, non precisò niente. La signora aveva
di sicuro una relazione. Dava addirittura degli appuntamenti.
—
Veniamo ai fatti, i fatti, — ripeteva lui, fuori di sé per
l'impazienza.
Alla fine, lei nominò il signor des Fondettes. — Stasera
sarà nella camera della signora.
—
Va bene, grazie, — balbettò Nantas.
La congedò con un gesto; aveva paura di svenire davanti
a lei. Quel brusco commiato la stupiva e la soddisfaceva, perché si
era aspettata un lungo interrogatorio a cui, per non imbrogliarsi,
aveva già preparato le risposte. Fece un inchino e si
ritirò, prendendo un'espressione addolorata.
Nantas si era alzato. Quando fu solo, parlò a voce alta.
—
Questa sera... In camera sua...
E si portò le mani al cranio, come se lo avesse sentito
scricchiolare. Quell'appuntamento, dato nel domicilio coniugale,
gli appariva di un'impudenza mostruosa. Non poteva lasciarsi
oltraggiare in questo modo. I suoi pugni da lottatore si serravano;
la rabbia gli faceva vagheggiare un assassinio. Tuttavia, doveva
finire un lavoro. Per tre volte tornò a sedersi alla scrivania,
e per tre volte una ribellione di tutto il corpo lo rimise in
piedi; mentre, da dietro, qualcosa lo spingeva, un bisogno di
salire immediatamente da sua moglie per trattarla da sgualdrina.
Alla fine, si controllò; si rimise al lavoro, giurando
che, la sera, li avrebbe strangolati. Fu la più grande
vittoria mai conseguita su se stesso.
Nel pomeriggio Nantas andò a sottoporre all'imperatore
il progetto definitivo del bilancio. Avendogli questi fatto alcune
obiezioni, lui le discusse con perfetta lucidità. Ma dovette
promettere di modificare tutta una parte del suo lavoro. Il progetto
avrebbe dovuto essere consegnato il giorno dopo.
–
Sire, passerò la notte in bianco, – disse.
Sulla via del ritorno, pensava: “Li ucciderò a mezzanotte,
e poi avrò tempo fino all'alba per terminare questo lavoro”.
La sera, a cena, il barone Danvilliers parlò precisamente
di quel progetto di bilancio che faceva sensazione. Lui non approvava
tutte le idee del genero in materia di finanza. Ma le trovava
davvero notevoli, molto brillanti. Mentre rispondeva al barone,
a più riprese Nantas credette di sorprendere gli occhi
di sua moglie fissi sui suoi. Spesso, adesso, lei lo guardava
così. Il suo sguardo non si addolciva; lo ascoltava soltanto
e sembrava cercare di leggere oltre il suo viso. Nantas pensò che
temesse di essere stata tradita. Così fece uno sforzo
per apparire spensierato: conversò molto, fu estremamente
brillante, finì per convincere il suocero che cedette
davanti alla sua grande intelligenza. Flavie continuava a guardarlo;
e una morbidezza appena sensibile le attraversò per un
attimo il viso.
Fino a mezzanotte Nantas lavorò nel suo studio. A poco
a poco si era appassionato; non esisteva più niente al
di fuori di quella creazione, quel meccanismo finanziario che
aveva lentamente costruito, ingranaggio dopo ingranaggio, attraverso
innumerevoli ostacoli. Quando il pendolo suonò mezzanotte,
alzò istintivamente la testa. Un grande silenzio regnava
nel palazzo. D'un tratto si ricordò: l'adulterio era lì,
in fondo a quell'ombra e a quel silenzio. Ma fu per lui una pena
lasciare la poltrona: posò la penna a malincuore, fece
qualche passo come per ubbidire a un'antica volontà, che
non ritrovava più. Poi un calore gli imporporò il
volto, una fiamma gli accese gli occhi. E salì agli appartamenti
di sua moglie.
Quella sera Flavie aveva congedato presto la sua cameriera. Voleva
stare sola. Fino a mezzanotte era rimasta nel salottino antistante
la camera da letto. Distesa su una causeuse, aveva preso un libro;
ma il libro le scivolava in continuazione dalle mani, e pensava,
lo sguardo perso nel vuoto. Il suo viso si era raddolcito ancora;
a tratti vi passava un pallido sorriso.
Si alzò di soprassalto. Avevano bussato.
–
Chi è?
–
Aprite, – rispose Nantas.
Fu per lei una sorpresa così grande che aprì meccanicamente.
Suo marito non si era mai presentato da lei in quel modo. Lui
entrò, sconvolto; la collera l'aveva ripreso, mentre saliva.
La signorina Chuin, che lo aspettava sul pianerottolo, gli aveva
appena mormorato all'orecchio che il signor des Fondettes era
lì da due ore. Così non mostrò nessun riguardo.
–
Signora, – disse, – un uomo è nascosto in
camera vostra.
Flavie non rispose subito, talmente il suo pensiero era lontano.
Finalmente capì.
–
Voi siete pazzo, signore, – mormorò.
Ma, senza fermarsi a discutere, lui camminava già verso
la camera. Allora, con un balzo, lei si mise davanti alla porta,
gridando:
–
Non entrerete... Qui sono in casa mia, e vi proibisco di entrare!
Fremente, divenuta ancora più alta, difendeva la porta.
Per un attimo rimasero immobili, senza una parola, gli occhi
negli occhi. Lui, con il collo tirato e le mani protese, stava
per gettarsi su di lei per passare.
–
Toglietevi di lì, – mormorò con voce roca. – Sono
più forte di voi, entrerò lo stesso.
–
No, non entrerete, non voglio.
Come un folle, lui ripeteva: – C'è un uomo, c'e
un uomo...
Lei, senza nemmeno degnarsi di smentirlo, alzava le spalle. Poi,
mentre lui faceva ancora un passo: – Ebbene! Anche se ci
fosse un uomo, perché la cosa dovrebbe riguardarvi? Non
sono forse libera?
Indietreggiò davanti a quella parola che lo colpiva come
uno schiaffo. Effettivamente, lei era libera. Un grande freddo
lo prese alle spalle; sentì nettamente che lei aveva il
ruolo superiore, e che lui stava recitando in quel momento una
scena da bambino malato e incoerente. Non rispettava il trattato;
la sua stupida passione lo rendeva odioso. Perché non
era rimasto a lavorare studio? Il sangue abbandonava le sue guance;
un'ombra nel suo d'indicibile sofferenza gli illividí il
viso. Quando Flavie si accorse dello sconvolgimento che si operava
in lui, si scostò dalla porta, mentre una tenerezza le
raddolciva gli occhi.
Guardate, – disse semplicemente.
E lei stessa entrò nella camera, con una lampada in mano,
mentre Nantas rimaneva sulla soglia. Con un gesto le aveva detto
che era inutile, che non voleva vedere. Ma lei, adesso, insisteva.
Quando arrivò al letto, alzò le tende; nascosto
dietro, apparve il signor des Fondettes. Fu per lei un tale stupore
che mandò un grido di spavento.
–
È vero. – balbettò, sconvolta, – è vero,
quest'uomo era qui... Lo ignoravo, oh!, sulla mia vita, ve lo
giuro!
Poi, con uno sforzo di volontà, si calmò; parve
addirittura rimpiangere quella prima reazione che l'aveva appena
spinta a difendersi.
–
Avevate ragione, signore, e vi chiedo scusa, – disse a
Nantas, cercando di ritrovare il suo tono freddo.
Intanto, il signor des Fondettes si sentiva ridicolo. Stava facendo
una meschina figura; avrebbe dato qualsiasi cosa perché il
marito si arrabbiasse. Ma Nantas taceva. Era soltanto diventato
molto pallido. Quando ebbe riportato lo sguardo dal signor des
Fondettes su Flavie, s'inchinò davanti a lei, pronunciando
quest'unica frase: – Signora, scusatemi. Siete libera.
Voltò la schiena e se ne andò, qualcosa si era
appena rotto; solo il meccanismo dei muscoli e delle ossa funzionava
ancora. Quando si ritrovò nello studio, andò dritto
a un cassetto dove nascondeva una rivoltella. Dopo aver esaminato
l'arma disse a voce alta, come per fare una promessa formale
nei confronti di se stesso: – Basta così, tra poco
mi ucciderò.
Aumentò la luce della lampada che si stava affievolendo,
si sedette alla scrivania e si rimise tranquillamente al lavoro.
Senza un'esitazione, in quel grande silenzio, continuò la
frase iniziata. Uno dopo l'altro, metodicamente, i fogli si accumulavano.
Due ore dopo, quando Flavie, che aveva cacciato il signor des
Fondettes, scese a piedi nudi per origliare alla porta dello
studio, sentì soltanto il lieve stridio della penna sulla
carta. Allora si curvò, e guardò nel buco della
serratura. Nantas continuava a scrivere con la stessa calma;
il suo viso esprimeva la pace e la soddisfazione del lavoro,
mentre un raggio della lampada illuminava la canna della rivoltella,
accanto a lui.
V.
La
casa confinante con il giardino del palazzo adesso era proprietà di
Nantas, che l'aveva comperata dal suocero. Per un capriccio,
proibiva di affittare l'angusta mansarda dove, al tempo del
suo arrivo a Parigi, per due mesi si era dibattuto nella miseria.
Dopo aver accumulato la sua enorme fortuna, aveva provato a
più riprese il bisogno di salire a chiudervisi per qualche
ora. Lì aveva sofferto, lì voleva trionfare.
Anche quando si presentava un ostacolo vi andava volentieri
a riflettere, a prendere le grandi decisioni della sua vita.
Lì tornava a essere ciò che era stato una volta.
Così, davanti alla necessità del suicidio, era
proprio in quella mansarda che aveva deciso di morire.
La mattina, Nantas finì il lavoro soltanto verso le otto.
Temendo che la stanchezza lo facesse assopire, si sciacquò il
viso abbondantemente. Poi chiamò uno dopo l'altro molti
impiegati per impartire loro degli ordini. Quando fu il turno
del suo segretario, ebbe con lui un colloquio: il segretario
avrebbe dovuto portare immediatamente il progetto del bilancio
alle Tuileries, e fornire alcune spiegazioni se l'imperatore
avesse sollevato nuove obiezioni. A quel punto Nantas pensò di
aver fatto abbastanza. Lasciava tutto in ordine; non se ne sarebbe
andato come un bancarottiere colpito da demenza. Finalmente si
apparteneva, poteva disporre di sé senza che lo si accusasse
di egoismo e di vigliaccheria.
Suonarono le nove. Era ora. Ma, mentre stava per lasciare lo
studio portando con sé la rivoltella, dovette ingoiare
un'ultima amarezza. La signorina Chuin si presentò per
riscuotere i diecimila franchi promessi. Lui la pagò,
e dovette subire la sua confidenza. Si mostrava materna, lo trattava
un po' come un allievo che è stato promosso. Se gli fosse
rimasta qualche esitazione, quella complicità vergognosa
lo avrebbe deciso al suicidio. Salì rapidamente e, nella
fretta, lasciò la chiave nella porta.
Niente era cambiato. La carta da parati aveva gli stessi strappi;
il letto, il tavolo e la sedia erano sempre lì, con il
loro odore di antica povertà. Per un momento respirò quell'aria
che gli ricordava le lotte d'un tempo. Poi si avvicinò alla
finestra e scorse la stessa vista di Parigi, gli alberi del palazzo,
la Senna, i Lungosenna, tutto un angolo della Rive droite dove
l'onda delle case correva, si alzava, si confondeva fino all'orizzonte
del Père-Lachaise.
La rivoltella era sul tavolo traballante, a portata di mano.
Adesso non aveva più fretta; era certo che non sarebbe
venuto nessuno e che si sarebbe ucciso come e quando avesse voluto.
Pensava e si diceva che si ritrovava allo stesso punto di una
volta, ricondotto allo stesso luogo, alla stessa volontà di
suicidio. Già una sera, in quel posto, aveva deciso di
buttarsi di sotto; era troppo povero allora per comprare una
pistola; c'era soltanto il selciato della strada, ma la morte
era comunque all'altro capo. Così, nell'esistenza, soltanto
la morte non ingannava, si mostrava sempre sicura e sempre pronta.
Di saldo conosceva soltanto essa; era inutile cercare: sotto
di lui era sempre crollato tutto; solo la morte rimaneva una
certezza. E provò il rimpianto di aver vissuto dieci anni
di troppo. L'esperienza che aveva fatto della vita, arrivando
al successo e al potere, gli appariva puerile. A cosa serviva
quel dispendio di volontà, a cosa serviva una tale produzione
di forza se, decisamente, la volontà e la forza non erano
tutto? Era bastata una passione per distruggerlo; si era messo
stupidamente ad amare Flavie, e adesso il monumento che stava
costruendo scricchiolava, crollava come un castello di carte
travolto dal fiato di un bambino. Che cosa miserevole; somigliava
alla punizione di uno scolaro sotto il cui peso si rompe il ramo
dell'albero dove è salito per rubarne i frutti, e che
perisce proprio come chi fila la corda che poi l'appende. La
vita era stupida; gli uomini superiori vi finivano in modo altrettanto
piatto degli sciocchi.
Nantas aveva preso la rivoltella sul tavolo e lentamente la stava
caricando. Per un attimo, in quel momento supremo un ultimo rimpianto
lo fece vacillare. Che grandi cose avrebbe realizzato se Flavie
lo avesse compreso! Il giorno in cui gli avesse gettato le braccia
al collo, dicendo: “Ti amo! ”, quel giorno avrebbe
trovato una leva per sollevare il mondo. E il suo ultimo pensiero
fu un gran disprezzo per la forza, poiché la forza che
doveva dargli tutto non era riuscita a dargli Flavie.
Alzò l'arma. La mattinata era magnifica. Dalla finestra
spalancata entrava il sole, portando un risveglio di giovinezza
nella mansarda. Lontano, Parigi iniziava il suo travaglio di
città gigante. Nantas si portò la canna alla tempia.
Ma la porta si aprì violentemente, e Flavie entrò.
Con un gesto deviò il colpo; la pallottola andò a
conficcarsi nel soffitto. Si guardarono. Lei era talmente ansante,
talmente senza fiato, che non riusciva a parlare. Finalmente,
dando per la prima volta del tu a Nantas, trovò le parole
che lui aspettava, le uniche parole che potessero deciderlo a
vivere: – Ti amo ! – gridò abbracciandolo,
singhiozzando, strappando quella confessione al proprio orgoglio,
a tutto il proprio essere domato. – Ti amo perché sei
forte!
(Tratto
dalla raccolta L’amore impossibile, a cura di Guido Davico
Bonino, tradotto da di Lorena Camerini, Einaudi, Torino, 2003)
Émile
Zola
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