NANTAS

Émile Zola

 

I.

La stanza che Nantas abitava da quando era arrivato da Marsiglia si trovava all'ultimo piano d'una casa di Rue de Lille, accanto al palazzo del barone Danvilliers, membro del Consiglio di Stato. Quella casa apparteneva al barone, che l'aveva fatta costruire su vecchie dipendenze. Sporgendosi, Nantas poteva scorgere un angolo del giardino del palazzo, dove splendidi alberi riversavano la loro ombra. Al di là, sopra le cime verdi, uno scorcio si apriva su Parigi: si vedeva lo squarcio della Senna, le Tuileries, il Louvre, l'infilata dei Lungosenna, tutto un mare di tetti, fino al confuso orizzonte del Père-Lachaise.
Era un'angusta camera a mansarda, con un abbaino tagliato nelle tegole d'ardesia. Nantas l'aveva semplicemente ammobiliata con un letto, un tavolo e una sedia. Aveva preso alloggio lì, cercando una sistemazione a buon mercato, deciso ad accamparsi alla meglio finché non avesse trovato un lavoro qualsiasi. La carta da parati sporca, il soffitto nero, la miseria di quella cameretta spoglia dove non c'era un caminetto non lo mortificavano affatto. Da quando si addormentava di fronte al Louvre e alle Tuileries, si paragonava a un generale che dorme in qualche misera stamberga sul ciglio di una strada, davanti alla città ricca e immensa che dovrà prendere d'assalto il giorno dopo.
La storia di Nantas era breve. Figlio d'un muratore di Marsiglia, aveva iniziato gli studi al liceo di quella città, spinto dall'ambizioso affetto della madre che sognava di far di lui un signore. I genitori si erano dissanguati per portarlo fino alla maturità. Poi, morta la madre, Nantas dovette accettare un impieguccio presso un commerciante, dove condusse per dodici anni un'esistenza la cui monotonia lo esasperava. Sarebbe scappato venti volte se il suo dovere di figlio non l'avesse inchiodato a Marsiglia, accanto al padre caduto da un'impalcatura e divenuto invalido. Adesso doveva provvedere a tutte le necessità. Ma una sera, rientrando a casa, trovò il muratore morto, con la pipa ancora calda accanto. Tre giorni dopo vendeva i quattro stracci di casa, e partiva per Parigi con duecento franchi in tasca.
C'era, in Nantas, una cocciuta fame di successo, che aveva ereditato dalla madre. Era un ragazzo dalle decisioni rapide e dalla volontà imperturbabile. Era ancora molto giovane e già diceva di essere una forza. Avevano spesso riso di lui quando si lasciava andare alle confidenze e ripeteva la sua frase preferita: “Sono una forza”; frase che diventava comica, a vederlo con quella lisa redingote nera, con le spalle sdrucite e le maniche che non arrivavano a coprirgli i polsini. Così, a poco a poco, aveva fatto della forza una religione, non vedendo altro che essa al mondo, convinto che i forti sono comunque i vittoriosi. Secondo lui, bastava volere e potere. Il resto non aveva importanza.
La domenica, quando passeggiava da solo nell'arida periferia di Marsiglia, sentiva di avere del genio; in fondo al proprio essere c'era come un impulso istintivo che lo spingeva in avanti; e tornava per mangiare un piatto di patate insieme al padre infermo, dicendosi che un giorno sarebbe stato certamente capace di ritagliarsi la sua parte in quella società dove a trent'anni non era ancora nessuno. Non era affatto una voglia meschina, un appetito di piaceri volgari; era il sentimento molto netto di un'intelligenza e di una volontà che, non trovandosi al loro posto, volevano salire tranquillamente fino a quel posto per un naturale bisogno di logica.
Appena messo piede a Parigi, Nantas credette che gli sarebbe bastato allungare le mani per trovare un impiego degno di lui. Il giorno stesso si mise in cerca. Gli avevano dato delle lettere di raccomandazione che portò ai destinatari; inoltre, bussò alla porta di alcuni concittadini, sperando nel loro appoggio. Ma in capo a un mese non aveva ottenuto alcun risultato: il momento era brutto, dicevano; altrove, gli facevano promesse che non venivano affatto mantenute. Intanto la sua piccola borsa si svuotava; gli restavano una ventina di franchi al massimo. Con quei venti franchi dovette vivere un altro messe ancora, mangiando solo pane, perlustrando Parigi dalla mattina alla sera e tornando a coricarsi senza luce, sfinito dalla stanchezza, sempre a mani vuote. Non si scoraggiava; soltanto, una collera sorda cresceva in lui. La sorte gli sembrava illogica e ingiusta.
Una sera Nantas rientrò senza aver mangiato. Il giorno prima aveva finito il suo ultimo pezzo di pane.
Niente più denaro, né un amico per prestargli qualche spicciolo. Era piovuto tutto il giorno, una di quelle piogge grigie di Parigi che sono così fredde. Un fiume di fango inondava le strade. Nantas, zuppo fino alle ossa, era andato a Bercy, poi a Montmartre, dove gli avevano indicato dei possibili impieghi; ma a Bercy il posto era già preso; a Montmartre, invece, non avevano trovato la sua grafia abbastanza bella. Erano le ultime due speranze. Avrebbe accettato qualsiasi cosa, con la certezza di ricavare il proprio capitale dal primo lavoro che gli fosse capitato. All'inizio chiedeva soltanto un po' di pane, quanto bastava per vivere a Parigi, un terreno qualsiasi per poi costruire, pietra su pietra. Da Montmartre fino a Rue de Lille camminò lentamente, il cuore soffocato dall'amarezza. Aveva smesso di piovere; una folla frettolosa lo urtava sui marciapiedi. Si fermò diversi minuti davanti a un ufficio di cambio: cinque franchi gli sarebbero forse bastati per essere un giorno il padrone di tutta quella gente; con cinque franchi si può vivere otto giorni, e in otto giorni si fanno tante cose. Mentre fantasticava in quel modo, una carrozza lo inzaccherò; dovette asciugarsi la fronte, schiaffeggiata da uno schizzo di fango. Allora camminò più veloce, stringendo i denti, preso da una voglia feroce di scaricare una gragnuola di pugni sulla folla che ingombrava le strade: si sarebbe vendicato della stupidità del destino. Un omnibus fu sul punto di schiacciarlo in Rue de Richelieu. In mezzo a Place du Carrousel, lanciò alle Tuileries uno sguardo invidioso. Sul Pont des Saints–Pères una ragazzina ben vestita lo costrinse a deviare dal suo tragitto rettilineo che percorreva con la tensione di un cinghiale braccato da una muta; e quella deviazione gli parve un'umiliazione suprema: persino i bambini gli impedivano di passare! Alla fine, quando si fu rifugiato nella sua stanza come un animale ferito che torna a morire nella tana, si buttò sulla sedia, distrutto, esaminando i pantaloni induriti dal fango e le scarpe scalcagnate che sgocciolavano sul pavimento.
Questa volta era proprio la fine. Nantas si domandava come si sarebbe ucciso. Il suo orgoglio restava in piedi: riteneva che il proprio suicidio avrebbe punito Parigi. Essere una forza, sentire in sé una potenza e non trovare una persona che ti comprenda, che ti dia la prima moneta di cui hai bisogno! Gli sembrava una cosa mostruosamente stupida; tutto il suo essere si ribellava in preda alla collera. E poi c'era in lui un immenso rimpianto quando lo sguardo si posava sulle sue braccia inutili. Eppure nessun lavoro gli faceva paura; avrebbe sollevato il mondo intero con l'ultima falange del dito mignolo; e restava lì, ricacciato nel suo angolino, ridotto all'impotenza, a divorarsi come un leone in gabbia. Ma ben presto si calmava; trovava che la morte era più grande. Quand'era piccolo gli avevano raccontato la storia di un inventore che, dopo aver costruito una macchina meravigliosa, un giorno la spaccò a martellate, davanti all'indifferenza della folla. Ebbene! era lui quell'uomo; portava in sé una forza nuova, un raro meccanismo d'intelligenza e di volontà, e avrebbe distrutto quella macchina spaccandosi il cranio sul selciato.
Il sole tramontava dietro ai grandi alberi del palazzo Danvilliers, un sole d'autunno i cui raggi d'oro accendevano le foglie ingiallite. Nantas si alzò come attratto dall'addio di quell'astro. Stava per morire e aveva bisogno di luce. Per un attimo si sporse. Spesso, tra la massa del fogliame, all'angolo d'un viale, aveva visto una ragazza bionda, molto alta, che camminava con un orgoglio principesco. Lui non era affatto romantico; aveva superato l'età in cui i ragazzi sognano, nelle mansarde, che signorine del bel mondo vengano a portar loro grandi passioni e grandi fortune. Eppure accadde, in quell'ora suprema del suicidio, che si ricordasse all'improvviso di quella bella ragazza bionda, così altera. Come poteva chiamarsi? Ma contemporaneamente strinse i pugni, perché provava solo odio per gli abitanti di quel palazzo, le cui finestre socchiuse gli lasciavano intravedere angoli di lusso severo; e in un accesso di rabbia mormorò: “Oh! Mi venderei, se mi dessero le prime cento monete della mia futura fortuna mi venderei!”
Quell'idea di vendersi lo assorbi per un momento. Se ci fosse stato da qualche parte un monte di pietà dove facevano credito sulla volontà e l'energia, sarebbe andato a impegnarsi. Immaginava delle contrattazioni: un uomo politico veniva a comprarlo per far di lui il suo strumento; un banchiere lo prendeva per servirsi in qualsiasi momento della sua intelligenza; e lui accettava, disprezzando l'onore e dicendosi che bastava essere forti e trionfare, un giorno. Poi sorrise. Era forse possibile vendersi? I furfanti che spiano le occasioni crepano di miseria senza mai mettere le mani su un compratore. Temette di essere vigliacco; si disse che si stava inventando delle distrazioni. E si sedette di nuovo, giurando che si sarebbe precipitato dalla finestra a notte fonda.
Tuttavia, la stanchezza era tale che si addormentò sulla sedia. All'improvviso fu svegliato da un rumore di voci. Era la portinaia che introduceva una signora nella sua stanza.
– Signore, – cominciò, – mi sono permessa di far salire...
E, non appena si accorse che nella stanza non c'era luce, ridiscese rapidamente a prendere una candela. Pareva conoscere la persona che conduceva, compiacente e rispettosa al tempo stesso.
– Ecco, – disse di nuovo nel ritirarsi. – Potete parlare: nessuno vi disturberà.
Nantas, che si era svegliato di soprassalto, guardava la signora con sorpresa. Lei aveva alzato la veletta. Era una persona sui quarantacinque anni, piccola, molto grassa, con un viso fresco e bianco da vecchia beghina. Non l'aveva mai vista. Quando le offri l'unica sedia interrogandola con lo sguardo, lei si presentò:
– Signorina Chuin... Vengo, signore, per intrattenerla su un affare importante.
Lui aveva dovuto sedersi sul bordo del letto. Il nome della signorina Chuin non gli diceva niente. Scelse di aspettare che fosse la donna a spiegarsi. Ma lei non aveva fretta; con uno sguardo aveva fatto il giro dell'angusta stanza, e sembrava esitare sul modo con cui avrebbe avviato la conversazione. Alla fine parlò, con una voce molto dolce, sottolineando con un sorriso le frasi delicate.
– Signore, vengo da amica... Mi hanno dato sul vostro conto le informazioni più toccanti. Non pensiate, certo, che vi abbia fatto spiare. Non c'è, in tutto questo, nient'altro che il vivo desiderio di esservi utile. So quanto la vita sia stata dura con voi fino a questo momento, con quale coraggio abbiate lottato per trovare un impiego, e quale sia oggi il deprimente risultato di tanti sforzi... Perdonatemi ancora una volta, signore, d'introdurmi così nella vostra esistenza. Vi giuro che la simpatia soltanto...
Incuriosito, Nantas non l'interrompeva, pensando che la portinaia aveva dovuto fornire tutti quei dettagli. La signorina Chuin era libera di continuare, eppure sempre di più cercava complimenti, modi carezzevoli di dire le cose.
– Siete un giovane di grande avvenire, signore. Mi sono permessa di seguire i vostri tentativi e sono stata fortemente colpita dalla vostra lodevole fermezza nella sfortuna. Insomma, mi sembra che andreste lontano se qualcuno vi tendesse la mano.
Si fermò di nuovo. Aspettava una parola. Il giovane credette che quella signora venisse a offrirgli un posto. Rispose che avrebbe accettato qualsiasi cosa. Ma lei, ora che il ghiaccio era rotto, gli chiese apertamente: – Provereste qualche ripugnanza a sposarvi?
– Sposarmi! – esclamò Nantas. – Eh! Buon Dio! Chi mi vorrebbe, signora?... Qualche povera ragazza che non potrei nemmeno mantenere.
– No. Una ragazza molto bella, molto ricca, magnificamente imparentata, che con un gesto solo vi metterà in mano tutti i mezzi per raggiungere la posizione più alta.
Nantas non rideva più.
– Qual è la contropartita dunque? – chiese, abbassando istintivamente la voce.
– Questa ragazza è incinta, e bisogna riconoscere il bambino, – disse chiaramente la signorina Chuin, che adesso dimenticava i giri di frase untuosi per arrivare più presto al dunque.
– È un'infamia quella che mi proponete, – mormorò lui.
– Oh! Un'infamia, – esclamò la signorina Chuin, ritrovando la sua voce mielosa, – non accetto questa brutta parola... La verità, signore, è che voi salvereste una famiglia dalla disperazione. Il padre ignora tutto; la gravidanza è ancora poco avanzata; sono io che ho concepito l'idea di sposare al più presto la poveretta, presentando il marito come il padre del bambino. Conosco il padre autentico, ne morirebbe. Il mio espediente attutirà il colpo: crederà a una riparazione... La disgrazia è che il vero seduttore è sposato. Ah! signore, esistono uomini che mancano davvero di senso morale...
Avrebbe potuto andare avanti cosi per molto. Nantas non l'ascoltava più. Ma perché rifiutare? Non chiedeva di vendersi poco fa? Ebbene! Venivano a comprarlo. Niente in cambio di niente. Lui dava il suo nome, loro gli davano una posizione. Era un contratto come un altro. Si guardò i pantaloni inzaccherati dal fango di Parigi; senti che non aveva mangiato dal giorno prima; tutta la collera di quei due mesi di ricerche e di umiliazioni tornò a infiammargli il cuore. Finalmente! Si sarebbe affermato in quel mondo che rifiutava e lo spingeva al suicidio!
– Accetto, – disse aspramente.
Poi pretese dalla signorina Chuin spiegazioni più chiare. Cosa voleva per la sua mediazione? Lei protestò, non voleva niente. Tuttavia, fini per chiedere ventimila franchi sul capitale che avrebbero destinato al giovane. E siccome lui non mercanteggiava, lei si mostrò espansiva.
– Sapete, sono io che ho pensato a voi. La giovane non ha detto di no quando vi ho nominato... Oh! E un buon affare, più tardi mi ringrazierete. Avrei potuto trovare un uomo titolato, ne conosco uno che mi avrebbe baciato le mani. Ma ho preferito scegliere al di fuori del mondo di quella poverina. Sembrerà più romantico... E poi, voi mi piacete. Siete cortese; avete un carattere saldo e le idee chiare. Oh! Andrete lontano. Non scordatevi di me, sono a vostra completa disposizione.
Fin lì non era stato pronunciato alcun nome. Alla domanda di Nantas, la zitella si alzò e disse, presentandosi di nuovo:
– Signorina Chuin... Sono al servizio del barone Danvilliers dalla morte della baronessa, in qualità di governante. Sono io che ho allevato la signorina Flavie, la figlia del signor barone... La signorina Flavie è la giovane in questione.
E si ritirò, dopo aver deposto con discrezione sul tavolo una busta contenente un biglietto da cinquecento franchi. Era un anticipo di tasca propria per provvedere alle prime spese. Quando fu solo, Nantas andò a mettersi alla finestra. La notte era molto buia; adesso si distingueva soltanto la massa degli alberi, dall'oscurità più intensa; una finestra risplendeva sulla facciata scura del palazzo. Dunque, era una ragazza alta e bionda, che camminava con un passo da regina e che non si degnava affatto di vederlo. Lei o un'altra, che importava del resto! La donna non rientrava nell'affare. Allora Nantas levò lo sguardo più in alto, su Parigi che rombava nelle tenebre; sui Lungosenna, le strade, i crocevia della Rive gauche, illuminati dalle fiammelle danzanti del gas; e diede del tu a Parigi, diventò disinvolto e superiore.
– Adesso sei mia!

II.

Il barone Danvilliers era nel salone che gli faceva da studio, una stanza alta e severa, tappezzata di cuoio, arredata con mobili antichi. Dall'antivigilia era rimasto come fulminato dalla storia che la signorina Chuin gli aveva raccontato sul disonore di Flavie. Per quanto lei l'avesse presa alla lontana, edulcorando i fatti, il vecchio aveva accusato il colpo, e soltanto l'idea che il seduttore potesse offrire una riparazione definitiva lo teneva ancora in piedi. Quella mattina aspettava la visita di un uomo che non conosceva affatto e che gli prendeva sua figlia in quel modo. Suonò il campanello.
– Joseph, verrà un giovane che farai accomodare... Non ci sono per nessun altro.
E se ne stava solo, accanto al fuoco, a rimuginare. Il figlio d'un muratore, un morto di fame che non aveva nessuna posizione onesta! La signorina Chuin lo presentava, sì, come un ragazzo promettente, ma che vergogna in una famiglia fino a quel momento senza macchia! Flavie si era accusata con una specie di furore, per risparmiare alla sua governante il minimo rimprovero. Restava chiusa in camera da quella penosa spiegazione; il barone si era rifiutato di rivederla. Voleva, prima di perdonare, sistemare lui stesso quella terribile vicenda. Aveva già preso tutti i provvedimenti. Ma i suoi capelli erano diventati completamente bianchi e un tremolio senile gli agitava la testa.
– Il signor Nantas, – annunciò Joseph.
Il barone non si alzò. Voltò soltanto la testa e guardò fisso Nantas che veniva avanti. Aveva avuto l'intelligenza di non cedere al desiderio di vestirsi a nuovo; aveva comprato una redingote e un paio di pantaloni neri ancora decenti, ma molto lisi; gli davano l'aria d'uno studente povero e curato, che non aveva nulla dell'avventuriero. Si fermò in mezzo alla stanza e attese, in piedi, eppure senza umiltà.
– Dunque siete voi, signore, – balbettò il vecchio.
Ma non riuscì a continuare, l'emozione lo soffocava; temeva di lasciarsi andare a qualche atto di violenza. Dopo un attimo di silenzio disse semplicemente: – Signore, avete commesso una cattiva azione.
E, mentre Nantas stava per scusarsi, ripeté con più forza: – Una cattiva azione... Non voglio sapere niente, vi prego di non cercare di spiegarmi le cose. Anche se mia figlia vi avesse buttato le braccia al collo, il vostro crimine rimarrebbe identico... Solamente i ladri s'introducono con altrettanta violenza nelle famiglie.
Nantas aveva di nuovo chinato la testa.
– È una dote guadagnata facilmente. E una trappola in cui eravate sicuro di far cadere la figlia e il padre...
– Permettete, signore, – interruppe il giovane che si ribellava.
Ma il barone ebbe un gesto terribile.
– Come? Cosa volete che permetta?... Non tocca a voi parlare qui. Vi dico quel che devo dirvi e quel che dovete ascoltare, dal momento che venite a me come colpevole... Mi avete oltraggiato. Vedete questa casa? La nostra famiglia ci ha vissuto per più di tre secoli senza una macchia; non vi respirate un onore secolare, una tradizione di dignità e di rispetto ? Ebbene, signore, voi avete schiaffeggiato tutto questo. Sono stato lì lì per morirne, e oggi le mie mani tremano, come se fossi improvvisamente invecchiato di dieci anni... Tacete e ascoltatemi.
Nantas era diventato molto pallido. Aveva accettato un ruolo molto pesante. Tuttavia volle addurre come pretesto l'accecamento della passione.
– Ho perso la testa, – mormorò, nel tentativo d'inventare un romanzo. – Non sono riuscito a vedere la signorina Flavie...
Al nome di sua figlia, il barone si alzò e urlò con voce tonante: – Tacete! Vi ho detto che non volevo sapere niente. Che mia figlia sia venuta a cercarvi o siate stato voi ad andare da lei, questo non mi riguarda. Non le ho chiesto niente, non vi chiedo niente. Tenetevi tutti e due le vostre confessioni, è una scelleratezza in cui io non entrerò.
Si risedette, tremante, estenuato. Nantas chinava la testa, profondamente scosso malgrado il controllo che manteneva su di sé. Dopo un attimo di silenzio il vecchio riprese con la voce brusca di un uomo che tratta un affare: – Vi chiedo scusa, signore. Mi ero ripromesso di mantenere il sangue freddo. Non siete voi ad appartenermi, sono io che vi appartengo dal momento che sonno alla vostra mercé. Siete qui per offrirmi una transazione divenuta necessaria. Transigiamo, signore.
E da quel momento assunse il modo di parlare d'un procuratore legale che risolve con un patteggiamento un processo vergognoso, in cui mette le mani unicamente con disgusto. Disse pacatamente: – La signorina Flavie Danvilliers ha ereditato, alla morte di sua madre, la somma di duecentomila franchi, di cui sarebbe entrata in possesso soltanto il giorno del suo matrimonio. Questa somma ha già prodotto degli interessi. Del resto, ecco i conti della mia curatela che voglio comunicarvi.
Aveva aperto un fascicolo; lesse delle cifre. Nantas tentò invano di fermarlo. Adesso un'emozione lo prendeva di fronte a quel vecchio così leale e così semplice, che gli appariva grandissimo da quando si era calmato.
– Per finire, – concluse il barone, – nel contratto che il mio notaio ha stilato stamattina, vi riconosco un apporto di duecentomila franchi. So che non avete niente. Riscuoterete i duecentomila franchi dal mio banchiere il giorno dopo il matrimonio.
– Ma, signore, – disse Nantas, – io non vi chiedo il vostro denaro, voglio soltanto vostra figlia...
Il barone gli tolse la parola
– Non avete il diritto di rifiutare, e mia figlia non potrebbe sposare un uomo meno ricco di lei... Vi do la dote che le destinavo, ecco tutto. Forse avevate calcolato di trovare di più, ma mi si crede più ricco di quel che non sia in realtà, signore.
E mentre il giovane restava ammutolito da quest'ultima crudeltà, il barone concluse l'incontro, suonando al domestico.
– Joseph, dì alla signorina che l'aspetto immediatamente nel mio studio.
Si era alzato e camminava lentamente; non pronunciò più una parola. Nantas restava in piedi, immobile. Stava ingannando quel vecchio; si sentiva piccolo e senza forza davanti a lui. Finalmente Flavie entrò.
– Figlia, – disse il barone, – ecco quest'uomo. Il matrimonio si svolgerà nei termini di legge.
E se ne andò; li lasciò soli, come se, per lui, il matrimonio fosse già concluso. Quando la porta si fu richiusa, regnò il silenzio. Nantas e Flavie si guardarono. Non si erano ancora visti. Gli sembrò molto bella, con quel viso pallido e altero, e i grandi occhi grigi che non abbassavano lo sguardo. Forse aveva pianto nei tre giorni in cui non aveva lasciato la sua camera; ma la freddezza delle sue guance doveva aver gelato le lacrime. Fu lei a parlare per prima.
– Allora, signore, l'affare è concluso?
– Sì, signora, – rispose semplicemente Nantas.
Fece una smorfia involontaria, avvolgendolo in un lungo sguardo che sembrava cercare in lui la sua bassezza.
– Bene, tanto meglio, – riprese lei. – Temevo di non trovare nessuno per un affare simile.
Nantas sentì, dal tono della voce, tutto il disprezzo di cui lei lo ricopriva. Ma rialzò la testa. Se aveva tremato davanti al padre sapendo d'ingannarlo, era deciso a essere fermo e risoluto di fronte alla figlia che era sua complice.
– Scusate, signora, – disse tranquillamente, con grande cortesia, – credo che fraintendiate la situazione in cui ci mette quello che, molto giustamente, avete appena definito un affare. Desidero che, fin da oggi, ci poniamo su un piano di uguaglianza...
– Ah! davvero, – interruppe Flavie, con un sorriso sprezzante.
– Sì, su un piano di completa uguaglianza... Voi avete bisogno di un nome per nascondere un errore che non mi permetto di giudicare, e io vi do il mio. Da parte mia, ho bisogno di capitali e d'una certa posizione sociale per realizzare grandi imprese, e voi mi portate questi capitali. Da oggi siamo due soci le cui quote si bilanciano; non dobbiamo far altro che ringraziarci per il favore che ci facciamo vicendevolmente.
Lei non sorrideva più. Una piega d'orgoglio irritato le corrugava la fronte. Tuttavia non rispose. Dopo una pausa disse: – Conoscete le mie condizioni?
– No, signora, – disse Nantas, che manteneva una calma perfetta. – Vogliate dettarmele; mi sottometto fin da ora.
Allora lei si espresse chiaramente, senza un'esitazione né un rossore.
– Sarete mio marito sempre e soltanto di nome. Le nostre vite resteranno completamente distinte e separate. Abbandonerete tutti i vostri diritti su di me e io non avrò alcun dovere verso di voi.
A ogni frase, Nantas accettava con un cenno della testa. Era esattamente quello che desiderava. Aggiunse: – Se credessi di dover essere galante, vi direi che condizioni così dure mi fanno disperare. Ma siamo superiori a complimenti così insulsi. Sono molto contento di vedere che avete il coraggio richiesto dalle nostre rispettive situazioni. Entriamo nella vita attraverso un sentiero dove non si colgono fiori. Non vi chiedo che una cosa, signora, ed è quella di non fare un uso della libertà che vi lascio tale da rendere necessario il mio intervento.
– Signore! – disse con veemenza Flavie, ferita nell'orgoglio.
Ma lui s'inchinò rispettosamente, supplicandola di non offendersi. La loro posizione era delicata; dovevano entrambi tollerare certe allusioni senza cui l'intesa diveniva impossibile. Evitò d'insistere ulteriormente. La signorina Chuin, in un secondo incontro, gli aveva raccontato l'errore di Flavie. Il suo seduttore era un certo signor des Fondettes, il marito di una delle sue amiche del convento. Durante il mese che aveva trascorso da loro in campagna si era trovata una sera tra le braccia di quell'uomo, senza sapere di preciso come potesse essere accaduto e fino a che punto lei fosse consenziente. La signorina Chuin parlava quasi d'uno stupro.
Tutt'a un tratto Nantas ebbe un moto amichevole. Come tutte le persone che hanno coscienza della propria forza, amava essere bonario.
– Sentite, signora! – esclamò. – Non ci conosciamo; ma avremmo davvero torto a detestarci cosi, a prima vista. Forse siamo fatti per intenderci... Vedo chiaramente che mi disprezzate; il fatto è che ignorate la mia storia.
E parlò con fervore, appassionandosi, raccontando la sua vita divorata dall'ambizione a Marsiglia, spiegando la rabbia dei due mesi d'inutili tentativi a Parigi. Poi mostrò il proprio disprezzo per ciò che chiamava “convenzioni sociali”, in cui sguazzano la maggior parte degli uomini. Che importava il giudizio della folla, quando ci si affermava su di essa! Si trattava di essere superiori. L'onnipotenza scusava tutto. E a grandi linee dipinse la vita eccezionale che avrebbe saputo crearsi. Non temeva più nessun ostacolo; niente prevaleva contro la forza. Sarebbe stato forte, sarebbe stato felice.
– Non pensate che sia banalmente interessato, – aggiunse. – Non mi vendo per la vostra fortuna. Prendo il vostro denaro soltanto come un mezzo per salire molto in alto... Oh! Se sapeste tutto quel che ribolle dentro di me, se sapeste le notti ardenti che ho trascorso a rifare sempre lo stesso sogno, incessantemente travolto dalla realtà del giorno dopo, mi capireste, sareste forse fiera di appoggiarvi al mio braccio, convincendovi che mi fornite finalmente i mezzi per essere qualcuno!
Lei l'ascoltava, impettita; non un lineamento del viso si muoveva. E lui si faceva una domanda che rimuginava da tre giorni senza riuscire a trovare la risposta: l'aveva forse notato alla finestra, per aver accettato così presto il progetto della signorina Chuin quando costei l'aveva nominato? Gli venne il curioso pensiero che forse si sarebbe messa ad amarlo d'un amore romantico, se lui avesse rifiutato con indignazione l'affare che la governante era venuta a proporgli.
Tacque, e Flavie rimase di ghiaccio. Poi, come se non le avesse fatto quella confessione, lei ripeté seccamente: – Dunque: mio marito soltanto di nome, le nostre vite completamente distinte, una libertà assoluta.
Nantas riprese subito l'aria cerimoniosa e quella voce secca dell'uomo che discute un contratto.
– È concordato, signora.
E si ritirò, scontento di sé. Come aveva potuto cedere alla sciocca voglia di convincere quella donna? Era molto bella; sarebbe stato meglio che non avessero niente in comune, perché lei avrebbe potuto intralciarlo nella vita.

III.

Dieci anni erano trascorsi. Una mattina Nantas si trovava nello studio dove il barone Danvilliers lo aveva un tempo così duramente accolto, in occasione del loro primo incontro. Adesso quello studio era suo; il barone, dopo essersi riconciliato con la figlia e il genero, aveva lasciato loro il palazzo, riservandosi soltanto un padiglione situato all'altro capo del giardino, in Rue de Beaune. In dieci anni Nantas aveva conquistato una delle più grandi fortune finanziarie e industriali. Coinvolto in tutte le grandi imprese ferroviarie, lanciato in tutte le speculazioni sui terreni che caratterizzarono i primi anni dell'Impero, aveva realizzato rapidamente un'immensa fortuna. Ma la sua ambizione non si fermava lì; voleva ricoprire una carica politica, ed era riuscito a farsi nominare deputato in un dipartimento in cui possedeva numerose fattorie. Fin dal suo ingresso nel corpo legislativo, si era candidato come futuro Ministro delle Finanze. Grazie ai suoi contatti esclusivi e alla sua facilità di parola, giorno dopo giorno vi assumeva un posto sempre più importante. Del resto, mostrava abilmente un'assoluta fedeltà all'Impero, pur avendo in materia di finanza delle teorie personali che facevano scalpore e che – ne era al corrente – preoccupavano molto l'imperatore.
Quella mattina Nantas era oberato dagli impegni. Nei vasti uffici che aveva installato al pianoterra del palazzo regnava un'attività prodigiosa. Una folla d'impiegati, gli uni immobili dietro agli sportelli, gli altri che andavano e venivano incessantemente facendo sbattere le porte; un rumore d'oro continuo; sacchi aperti e rovesciati sui tavoli; la musica ininterrotta d'una cassa il cui flusso sembrava dover inondare le strade. Poi, nell'anticamera, una moltitudine si accalcava; postulanti, uomini d'affari, uomini politici: tutta Parigi in ginocchio davanti alla potenza. Spesso, personaggi importanti aspettavano lì pazientemente per un'ora. E lui, seduto alla sua scrivania, in corrispondenza epistolare con la provincia e l'estero, capace di stringere il mondo semplicemente allungando le braccia, realizzava finalmente il suo vecchio sogno di forza, si sentiva il motore intelligente di una colossale macchina che smuoveva i regni e gli imperi.
Nantas suonò all'usciere che gli controllava la porta. Sembrava preoccupato.
– Germain, – chiese, – sai se la signora è rientrata ? E, avendo l'usciere risposto che lo ignorava, gli ordinò di far scendere la cameriera della signora. Ma Germain non se ne andava.
– Scusate, signore, – mormorò, – c'è il signor presidente del corpo legislativo che insiste per entrare.
Nantas ebbe un moto d'impazienza, e disse: – Fallo entrare, allora! E fa' quel che ti ho ordinato.
Il giorno prima, a proposito di un aspetto fondamentale del bilancio, un discorso di Nantas aveva prodotto un'impressione tale, che l'articolo in discussione era stato inoltrato alla commissione perché venisse emendato nel senso da lui indicato. Dopo la seduta si era sparsa la voce che il Ministro delle Finanze avrebbe rassegnato le dimissioni, e nei gruppi già s'indicava il giovane deputato come suo successore. Lui faceva spallucce: niente era concluso, e con l'imperatore aveva avuto soltanto un colloquio su punti specifici. Tuttavia, la visita del presidente del corpo legislativo poteva essere ricca di significato. Parve scrollarsi di dosso la preoccupazione che lo crucciava, si alzò e andò a stringere la mano al presidente.
– Ahi! signor duca, – disse, – vi faccio le mie scuse. Ignoravo che foste qui... Sappiate che sono molto lusingato dall'onore che mi fate.
Per alcuni minuti conversarono passando da un argomento all'altro, con un tono di cordialità. Poi il presidente, senza rivelare niente di preciso, gli fece intendere che era stato mandato dall'imperatore per sondarlo. Avrebbe accettato il portafoglio delle finanze, e con quale programma? Allora lui, con imperturbabile sangue freddo, pose le sue condizioni. Ma sotto il suo viso impassibile saliva un ruggito di trionfo. Finalmente stava scalando l'ultimo gradino; era in cima. Ancora un passo e avrebbe avuto tutte le teste sotto di sé. Mentre il presidente concludeva, dicendo che si sarebbe recato all'istante dall'imperatore per comunicargli il programma discusso, una porticina che dava sugli appartamenti si aprì, e comparve la cameriera della signora.
Nantas, ridiventato improvvisamente pallido, non terminò la frase che stava pronunciando. Corse da quella donna, mormorando: – Scusatemi, signor duca...
E, sottovoce, la interrogò. La signora era dunque uscita di buon'ora? Aveva detto dove andava? Quando sarebbe dovuta rientrare? La cameriera rispondeva con parole vaghe, da ragazza intelligente che non vuole compromettersi. Avendo compreso l'ingenuità di quell'interrogatorio, Nantas finì per dire semplicemente: – Appena la signora torna, avvertila che desidero parlarle. Sorpreso, il duca si era avvicinato a una finestra e guardava nel cortile. Nantas tornò da lui, scusandosi di nuovo. Ma aveva perso il suo sangue freddo; balbettò; lo stupì con parole poco accorte.
– Ecco, ho rovinato tutto, – si lasciò scappare ad alta voce, quando il presidente non fu più lì. – Quel portafoglio mi sfuggirà. E rimase in uno stato di turbamento, inframmezzato da accessi di collera. Molte persone vennero introdotte nel suo ufficio. Un ingegnere aveva da presentargli un rapporto che annunciava la possibilità di ottenere benefici enormi dallo sfruttamento d'una miniera. Un diplomatico lo intrattenne a proposito di un prestito che una potenza vicina voleva chiedere a Parigi. Vari protetti sfilarono, rendendogli conto di venti affari considerevoli. Infine, ricevette un gran numero di colleghi della Camera; tutti si profondevano in elogi sperticati riguardo al suo discorso del giorno precedente. Lui, sprofondato nella poltrona, accettava quell'incenso senza un sorriso. L'oro continuava a risuonare negli uffici vicini; una vibrazione da fabbrica faceva tremare i muri, come se tutto quell'oro sonante fosse stato prodotto lì. Non doveva fare altro che impugnare una penna per evadere dei dispacci il cui arrivo avrebbe rallegrato o gettato nella costernazione i mercati d'Europa; poteva impedire o far precipitare la guerra, appoggiando o combattendo il prestito di cui gli avevano parlato; anche se aveva in mano il bilancio della Francia, presto avrebbe saputo se sarebbe stato pro o contro l'Impero. Era il trionfo; la sua personalità sviluppata oltre misura diventava il centro intorno a cui girava tutto un mondo. E non gustava affatto quel trionfo come si era ripromesso di fare. Provava una tale stanchezza; la mente era altrove; trasaliva al minimo rumore. Quando una fiamma, una febbre d'ambizione soddisfattagli saliva alle guance, si sentiva subito impallidire, come se da dietro, all'improvviso, una mano fredda l'avesse toccato alla nuca.
Due ore erano trascorse, e Flavie non era ancora comparsa. Nantas suonò per chiamare Germain e incaricarlo di andare a cercare il signor Danvilliers, se il barone fosse stato in casa. Rimasto solo, andò avanti e indietro nello studio, rifiutandosi di ricevere ancora per quel giorno. A poco a poco la sua agitazione era aumentata. Evidentemente sua moglie era a qualche appuntamento. Doveva aver riallacciato i rapporti con il signor des Fondettes, che era vedovo da sei mesi. Certamente, Nantas si proibiva di essere geloso; per dieci anni aveva strettamente osservato il trattato concluso; voleva soltanto – diceva – non essere ridicolo. Mai avrebbe permesso a sua moglie di compromettere la sua carriera, rendendolo lo zimbello di tutti. E la sua forza lo abbandonava, quel sentimento di marito che vuole semplicemente essere rispettato s'impadroniva di lui con un turbamento che non aveva mai provato, nemmeno quando giocava le carte più azzardate agli inizi della sua fortuna.
Flavie entrò, ancora con il cappotto; si era tolta solo il cappello e i guanti. Con voce tremante, Nantas le disse che sarebbe salito da lei se gli avesse fatto sapere che era rientrata. Ma lei, senza sedersi, con l'aria frettolosa di una cliente, fece un gesto per invitarlo a sbrigarsi.
– Signora, – cominciò, – fra di noi si è resa necessaria una spiegazione... Dove siete andata stamattina?
La voce fremente del marito, la mancanza di riguardo della sua domanda la sorpresero enormemente.
– Ma, – rispose freddamente, – dove mi è parso.
– Appunto, è proprio quello che ormai non mi sta più bene, – riprese lui, diventando molto pallido. – Dovreste ricordarvi di quel che vi dissi. Non tollererò che facciate uso della libertà che vi lascio in modo da disonorare il mio nome.
Flavie fece un sorriso di supremo disprezzo.
– Disonorare il vostro nome, signore? Ma questo riguarda voi, è un compito che è già stato assolto.
Allora, Nantas, in un impeto incontrollabile, avanzò verso di lei come per colpirla, balbettando: – Disgraziata, uscite ora dalle braccia del signor des Fondettes... Avete un amante, lo so.
– Vi sbagliate, – disse lei senza indietreggiare davanti alla sua minaccia, – non ho mai rivisto il signor des Fondettes... Ma, anche se avessi un amante, voi non avreste il diritto di rimproverarmelo. Perché dovrebbe riguardavi? Dimenticate i nostri accordi.
Per un attimo la guardò con occhi smarriti; poi, scosso da singhiozzi, mettendo nel suo grido una passione a lungo contenuta, piombò ai suoi piedi.
– Oh! Flavie, vi amo!
Lei, impettita, si scostò, perché le aveva toccato l’orlo della veste. Ma l'infelice la seguiva trascinandosi sulle ginocchia, a mani tese.
– Vi amo, Flavie, vi amo come un pazzo... È successo non so come. Ormai da anni. E a poco a poco mi ha preso completamente. Oh! ho lottato; trovavo questa passione indegna di me; ricordavo il nostro primo colloquio... Ma oggi soffro troppo, bisogna che vi parli...
A lungo continuò. Era il crollo di tutte le sue convinzioni. Quell'uomo che aveva riposto la sua fede nella propria forza, che sosteneva che la volontà è l'unica leva capace di sollevare il mondo, cadeva annientato, debole come un bambino, disarmato davanti a una donna. E realizzato il suo sogno di fortuna, conquistata la sua alta posizione, avrebbe dato tutto perché quella donna lo rialzasse con un bacio sulla fronte. Lei gli rovinava il trionfo. Non sentiva più l'oro risuonare nei suoi uffici; non pensava più alla sfilata di cortigiani che erano appena venuti a salutarlo; dimenticava che l'imperatore, in quel momento, lo stava forse chiamando al potere. Quelle cose non esistevano. Aveva tutto, e non voleva che Flavie. Se Flavie si rifiutava, non aveva niente.
– Sentite, – continuò, – quello che ho fatto, l'ho fatto per voi... All'inizio, è vero, non contavate, lavoravo per soddisfare il mio orgoglio. Poi, siete diventata l'unica meta di tutti i miei pensieri, di tutti i miei sforzi. Mi dicevo che dovevo salire più in alto possibile per meritarvi. Speravo di intenerirvi il giorno in cui avrei messo ai vostri piedi la mia potenza. Guardate dove sono oggi. Non ho guadagnato il vostro perdono? Non disprezzatemi più, ve ne scongiuro!
Lei non aveva ancora parlato. Disse tranquillamente: – Rialzatevi, signore, potrebbe entrare qualcuno.
Lui si rifiutò, la supplicò ancora. Forse avrebbe aspettato, se non fosse stato geloso del signor des Fondettes. Era un tormento che lo sconvolgeva. Poi, si fece molto umile.
– È chiaro che mi disprezzate ancora. Ebbene, aspettate, non date il vostro amore a nessuno. Vi prometto cose così grandi che riuscirò a farvi cedere. Dovete perdonarmi se sono stato brutale poco fa. Non ho più la testa a posto... Oh!, lasciatemi sperare che mi amerete un giorno!
– Mai! – pronunciò lei con energia.
E mentre lui restava in terra, prostrato, lei fece per uscire. Ma lui, fuori di sé, in preda a un accesso di collera, si alzò e l'afferrò ai polsi. Una donna, sfidarlo così, quando il mondo era ai suoi piedi! Poteva tutto, rovesciare gli Stati, governare la Francia a suo piacimento, e non sarebbe riuscito a ottenere l'amore di sua moglie! Lui, così forte, così potente; lui, i cui desideri più insignificanti erano ordini, non aveva più che un unico desiderio, e quel desiderio non si sarebbe mai realizzato perché una creatura, debole come un bambino, rifiutava! Le stringeva le braccia, ripetendo con voce roca: – Voglio... voglio...
– E io non voglio, – diceva Flavie, pallidissima e irrigidita nella sua volontà.
La lotta continuava quando il barone Danvilliers aprì la porta. Nel vederlo, Nantas lasciò andare Flavie ed esclamò: – Signore, ecco vostra figlia che rientra dopo essere stata dal suo amante... Ditele dunque che una moglie deve rispettare il nome del marito, anche quando non lo ama e il pensiero del proprio onore non la ferma più.
Il barone, molto invecchiato, restava in piedi sulla soglia, davanti a quella scena di violenza. Era per lui una sorpresa dolorosa. Credeva la coppia unita; approvava i rapporti cerimoniosi dei due sposi, pensando che non ci fosse in essi che un contegno decoroso. Lui e il genero erano di due generazioni diverse; ma se era ferito dall'attività poco scrupolosa del finanziere, se condannava alcune iniziative considerandole temerarie, aveva dovuto riconoscere la sua forza di volontà e la sua viva intelligenza. E, all'improvviso, piombava in quel dramma insospettato.
Quando Nantas accusò Flavie di avere un amante, il barone, che trattava ancora la figlia sposata con la severità che le riservava a dieci anni, si avvicinò col suo passo da vegliardo solenne.
– Vi giuro che è appena uscita dalla casa del suo amante, – ripeteva Nantas, – e guardatela! è lì che mi sfida.
Flavie, sprezzante, aveva voltato la testa. Si sistemava i polsini che la brutalità del marito aveva sgualcito. Non un rossore le era salito al viso. Intanto suo padre le parlava.
– Figlia mia, perché non vi difendete? Vostro marito ha detto forse la verità? Avreste forse riservato quest'ultimo dolore alla mia vecchiaia?... L'affronto sarebbe anche nei miei confronti, perché in una famiglia la colpa di un solo membro basta a infangare tutti gli altri.
Allora lei ebbe un moto d'impazienza. Come se la prendeva comoda suo padre nell'accusarla! Ancora per un istante sopportò l'interrogatorio; voleva risparmiargli la vergogna d'una spiegazione. Ma poiché cominciava a sua volta ad adirarsi vedendola muta e provocatrice, lei finì per dire: – Ah! padre mio, lasciate che quest'uomo reciti la sua parte... Non lo conoscete. Non costringetemi a parlare per rispetto verso di voi.
– È vostro marito, – riprese il vecchio. – E il padre di vostro figlio.
Flavie si era raddrizzata, fremente.
– No, no, non è il padre di mio figlio... Infine, vi dirò tutto. Quest'uomo non è nemmeno un seduttore, perché sarebbe una scusa almeno, se mi avesse amato. Quest'uomo si è semplicemente venduto e ha acconsentito a coprire la colpa di un altro.
Il barone si voltò verso Nantas che, livido, indietreggiava.
– Capite, padre mio! – riprendeva Flavie con più forza, – si è venduto, venduto per denaro... Non l'ho mai amato, non mi ha mai toccata con un dito... Ho voluto risparmiarvi un grande dolore, l'ho comprato perché vi mentisse... Guardatelo, vedete se dico la verità.
Nantas si nascondeva il viso tra le mani.
– E oggi, – continuò la giovane donna, – ecco che vuole che io l'ami... Si è messo in ginocchio e ha pianto. Una commedia, senza dubbio. Perdonatemi di avervi ingannato, padre; ma, davvero, appartengo forse a quest'uomo?... Adesso che sapete tutto, portatemi via. Mi ha usato violenza poco fa, non resterò qui un minuto di più.
Il barone raddrizzò la schiena curva. E in silenzio, andò a offrire il braccio a sua figlia. Tutti e due attraversarono la stanza, senza che Nantas facesse un gesto per trattenerli. Poi, alla porta, il vecchio lasciò cadere soltanto queste parole: – Addio, signore.
La porta si era richiusa. Nantas rimaneva solo, distrutto, a guardare con aria folle il vuoto intorno a sé. Germain era appena entrato e aveva posato una lettera sulla scrivania; lui l’aprì meccanicamente e gli dette una scorsa. Quella lettera, interamente di pugno dell'imperatore, lo chiamava al ministero delle Finanze in termini molto cortesi. Comprese appena. La realizzazione di tutte le sue ambizioni non lo toccava più. Nelle casse vicine il rumore dell'oro era aumentato; era l'ora in cui casa Nantas rimbombava, mettendo in moto un intero universo. E lui, in mezzo a quell'immane fatica che era la sua opera, all'apogeo della propria potenza, con gli occhi stupidamente fissi sulla scrittura dell'imperatore, emise questo lamento infantile, che era la negazione della sua vita intera: – Non sono felice... Non sono felice...
Piangeva, con la testa abbandonata sulla scrivania, e le lacrime calde cancellavano la lettera che lo nominava ministro.

IV.

Da quando – diciotto mesi prima – era diventato ministro delle Finanze, Nantas sembrava stordirsi con una mole di lavoro sovrumana. All'indomani della violenta scena che si era svolta nel suo studio, aveva avuto un incontro con il barone Danvilliers; dietro consiglio del padre, Flavie aveva acconsentito a ritornare al domicilio coniugale. Ma gli sposi non si rivolgevano più la parola, al di fuori della commedia che dovevano recitare davanti agli altri. Nantas aveva deciso che non l’avrebbe lasciato i suoi appartamenti. La sera faceva venire i suoi segretari e sbrigava lì il lavoro.
Fu il periodo della sua esistenza in cui realizzò le imprese maggiori. Una voce gli suggeriva ispirazioni grandiose e feconde. Al suo passaggio si levava un mormorio di simpatia e d'ammirazione. Ma lui rimaneva insensibile agli elogi. Si sarebbe detto che lavorasse senza sperare in alcuna ricompensa, con il pensiero di accumulare attività all'unico scopo di tentare l'impossibile. Ogni volta che saliva più in alto consultava il viso di Flavie. Era finalmente colpita? Gli avrebbe perdonato la sua antica infamia, per non vedere più nient'altro che le conquiste della sua intelligenza? E continuava a non sorprendere alcuna emozione sul viso muto di quella donna; allora si diceva, rimettendosi al lavoro: “Forza! Non sono affatto arrivato abbastanza in alto per lei; bisogna salire ancora, salire continuamente”. Voleva forzare la felicità come aveva forzato la fortuna. Gli stava tornando tutta la fede nella propria forza; non ammetteva nessun'altra leva in questo mondo, perché è la volontà della vita che ha forgiato l'umanità. Quando, a volte, veniva preso dallo scoraggiamento, si rinchiudeva perché nessuno potesse sospettare le debolezze della sua carne. Si indovinavano le sue lotte soltanto dagli occhi più profondi, cerchiati di nero, in cui bruciava una fiamma intensa.
Adesso la gelosia lo divorava. Non riuscire a farsi amare da Flavie era un supplizio, ma una rabbia lo sconvolgeva quando pensava che poteva darsi a un altro. Per affermare la propria libertà, Flavie era capace di esibirsi in pubblico insieme al signor des Fondettes. Faceva quindi finta di non occuparsi affatto di lei, pur morendo d'angoscia alle sue minime assenze. Se non avesse temuto il ridicolo l'avrebbe seguita lui stesso per la strada. Fu allora che volle metterle accanto una persona di cui avrebbe comprato la fedeltà.
La signorina Chuin continuava a prestare servizio nella casa. Il barone era abituato a lei. D’altra parte, sapeva troppe cose perché fosse possibile sbarazzarsene. C’era stato un momento in cui la zitella aveva progettato di ritirarsi con i ventimila franchi che Nantas le aveva dato all'indomani del matrimonio. Ma senz’altro si era detta che quella casa diventava buona per pescarvi nel torbido. Aspettava così una nuova occasione, avendo calcolato che le occorrevano altri ventimila franchi se voleva comprare a Roinville, il suo paese, la casa del notaio che aveva tanto ammirato in gioventù.
Nantas non doveva farsi troppi riguardi con quella zitella, i cui atteggiamenti trasudanti devozione non riuscivano più a ingannarlo. Eppure, la mattina in cui la fece venire nel suo studio e le propose apertamente di tenerlo al corrente dei più piccoli movimenti della moglie, lei finse d'indignarsi, chiedendogli per chi l'avesse presa.
– Suvvia, signorina, – disse spazientito, – ho molta fretta, mi aspettano. Concludiamo, vi prego.
Ma lei non intendeva sentir ragioni se lui non avesse curato un po’ la forma. Il suo principio era che le cose non sono brutte in sé, ma lo diventano o smettono di esserlo a seconda del modo in cui vengono presentate.
– Dunque, – riprese lui, – si tratta, signorina, d'una buona azione... Temo che mia moglie mi nasconda certi dispiaceri. La vedo triste da qualche settimana, e ho pensato a voi per ottenere delle informazioni.
— Potete contare su di me, — disse allora lei con effusione materna. — Sono devota alla signora; farò qualsiasi cosa per il suo onore e il vostro... Da domani stesso veglieremo su di lei.
Le promise di ricompensarla dei suoi servigi. Lei dapprima s'arrabbiò. Poi ebbe l'abilità di costringerlo a fissare una cifra: le avrebbe dato diecimila franchi se gli avesse fornito una prova formale della buona o della cattiva condotta della signora. A poco a poco erano giunti a precisare le cose.
Da allora Nantas si tormentò di meno. Tre mesi trascorsero; era impegnato in una grossa impresa, la preparazione del bilancio. D'accordo con l'imperatore, aveva apportato al sistema finanziario importanti modifiche. Sapeva che sarebbe stato violentemente attaccato alla Camera, e doveva preparare una notevole quantità di documenti. Spesso rimaneva sveglio per intere nottate. Questo lo stordiva e lo rendeva paziente. Quando vedeva la signorina Chuin l'interrogava con voce secca. Sapeva qualcosa? La signora aveva fatto molte visite? Si era fermata in alcune case in particolare? La signorina Chuin teneva un diario dettagliato. Ma non aveva ancora raccolto che fatti senza importanza. Nantas si rassicurava, mentre talvolta la vecchia stringeva gli occhi, ripetendo che forse presto avrebbe avuto novità.
La verità era che la signorina Chuin aveva riflettuto molto. Diecimila franchi non facevano al caso suo; gliene occorrevano ventimila per comprare la casa del notaio. Ebbe dapprima l'idea di vendersi alla moglie, dopo essersi venduta al marito. Ma conosceva la signora, e temette di essere cacciata alla prima parola. Da molto tempo, ancora prima che la incaricassero di quell'incombenza, l'aveva spiata per conto suo, dicendosi che i vizi dei padroni sono la fortuna dei servi; ma si era scontrata con una di quelle onestà tanto più solide in quanto poggiano sull'orgoglio. Dai tempi del suo errore, Flavie conservava un rancore verso tutti gli uomini. La signorina Chuin cominciava a disperare, quando un giorno incontrò il signor des Fondettes. Lui le chiese così insistentemente della sua padrona che lei capì di colpo che la desiderava follemente, divorato dal ricordo dell'istante in cui l'aveva tenuta fra le braccia. E il suo piano fu deciso: servire contemporaneamente il marito e l'amante, ecco la combinazione geniale.
Per l'appunto, tutto capitava al momento giusto. Il signor des Fondettes, respinto, ormai senza speranza, avrebbe dato la sua fortuna per possedere ancora quella donna che era stata sua. Fu lui che, per primo, sondò la signorina Chuin. La rivide, recitò la parte dell'innamorato, giurando che si sarebbe ucciso se lei non l'avesse aiutato. In capo a otto giorni, dopo un gran dispendio di sensibilità e di scrupoli, l'affare era concluso: lui avrebbe dato diecimila franchi e lei, una sera, lo avrebbe nascosto nella camera di Flavie.
La mattina dopo la signorina Chuin si recò da Nantas.
— Cosa avete saputo? — chiese lui impallidendo.
Ma lei, da principio, non precisò niente. La signora aveva di sicuro una relazione. Dava addirittura degli appuntamenti.
— Veniamo ai fatti, i fatti, — ripeteva lui, fuori di sé per l'impazienza.
Alla fine, lei nominò il signor des Fondettes. — Stasera sarà nella camera della signora.
— Va bene, grazie, — balbettò Nantas.
La congedò con un gesto; aveva paura di svenire davanti a lei. Quel brusco commiato la stupiva e la soddisfaceva, perché si era aspettata un lungo interrogatorio a cui, per non imbrogliarsi, aveva già preparato le risposte. Fece un inchino e si ritirò, prendendo un'espressione addolorata.
Nantas si era alzato. Quando fu solo, parlò a voce alta.
— Questa sera... In camera sua...
E si portò le mani al cranio, come se lo avesse sentito scricchiolare. Quell'appuntamento, dato nel domicilio coniugale, gli appariva di un'impudenza mostruosa. Non poteva lasciarsi oltraggiare in questo modo. I suoi pugni da lottatore si serravano; la rabbia gli faceva vagheggiare un assassinio. Tuttavia, doveva finire un lavoro. Per tre volte tornò a sedersi alla scrivania, e per tre volte una ribellione di tutto il corpo lo rimise in piedi; mentre, da dietro, qualcosa lo spingeva, un bisogno di salire immediatamente da sua moglie per trattarla da sgualdrina. Alla fine, si controllò; si rimise al lavoro, giurando che, la sera, li avrebbe strangolati. Fu la più grande vittoria mai conseguita su se stesso.
Nel pomeriggio Nantas andò a sottoporre all'imperatore il progetto definitivo del bilancio. Avendogli questi fatto alcune obiezioni, lui le discusse con perfetta lucidità. Ma dovette promettere di modificare tutta una parte del suo lavoro. Il progetto avrebbe dovuto essere consegnato il giorno dopo.
– Sire, passerò la notte in bianco, – disse.
Sulla via del ritorno, pensava: “Li ucciderò a mezzanotte, e poi avrò tempo fino all'alba per terminare questo lavoro”.
La sera, a cena, il barone Danvilliers parlò precisamente di quel progetto di bilancio che faceva sensazione. Lui non approvava tutte le idee del genero in materia di finanza. Ma le trovava davvero notevoli, molto brillanti. Mentre rispondeva al barone, a più riprese Nantas credette di sorprendere gli occhi di sua moglie fissi sui suoi. Spesso, adesso, lei lo guardava così. Il suo sguardo non si addolciva; lo ascoltava soltanto e sembrava cercare di leggere oltre il suo viso. Nantas pensò che temesse di essere stata tradita. Così fece uno sforzo per apparire spensierato: conversò molto, fu estremamente brillante, finì per convincere il suocero che cedette davanti alla sua grande intelligenza. Flavie continuava a guardarlo; e una morbidezza appena sensibile le attraversò per un attimo il viso.
Fino a mezzanotte Nantas lavorò nel suo studio. A poco a poco si era appassionato; non esisteva più niente al di fuori di quella creazione, quel meccanismo finanziario che aveva lentamente costruito, ingranaggio dopo ingranaggio, attraverso innumerevoli ostacoli. Quando il pendolo suonò mezzanotte, alzò istintivamente la testa. Un grande silenzio regnava nel palazzo. D'un tratto si ricordò: l'adulterio era lì, in fondo a quell'ombra e a quel silenzio. Ma fu per lui una pena lasciare la poltrona: posò la penna a malincuore, fece qualche passo come per ubbidire a un'antica volontà, che non ritrovava più. Poi un calore gli imporporò il volto, una fiamma gli accese gli occhi. E salì agli appartamenti di sua moglie.
Quella sera Flavie aveva congedato presto la sua cameriera. Voleva stare sola. Fino a mezzanotte era rimasta nel salottino antistante la camera da letto. Distesa su una causeuse, aveva preso un libro; ma il libro le scivolava in continuazione dalle mani, e pensava, lo sguardo perso nel vuoto. Il suo viso si era raddolcito ancora; a tratti vi passava un pallido sorriso.
Si alzò di soprassalto. Avevano bussato.
– Chi è?
– Aprite, – rispose Nantas.
Fu per lei una sorpresa così grande che aprì meccanicamente. Suo marito non si era mai presentato da lei in quel modo. Lui entrò, sconvolto; la collera l'aveva ripreso, mentre saliva. La signorina Chuin, che lo aspettava sul pianerottolo, gli aveva appena mormorato all'orecchio che il signor des Fondettes era lì da due ore. Così non mostrò nessun riguardo.
– Signora, – disse, – un uomo è nascosto in camera vostra.
Flavie non rispose subito, talmente il suo pensiero era lontano. Finalmente capì.
– Voi siete pazzo, signore, – mormorò.
Ma, senza fermarsi a discutere, lui camminava già verso la camera. Allora, con un balzo, lei si mise davanti alla porta, gridando:
– Non entrerete... Qui sono in casa mia, e vi proibisco di entrare!
Fremente, divenuta ancora più alta, difendeva la porta. Per un attimo rimasero immobili, senza una parola, gli occhi negli occhi. Lui, con il collo tirato e le mani protese, stava per gettarsi su di lei per passare.
– Toglietevi di lì, – mormorò con voce roca. – Sono più forte di voi, entrerò lo stesso.
– No, non entrerete, non voglio.
Come un folle, lui ripeteva: – C'è un uomo, c'e un uomo...
Lei, senza nemmeno degnarsi di smentirlo, alzava le spalle. Poi, mentre lui faceva ancora un passo: – Ebbene! Anche se ci fosse un uomo, perché la cosa dovrebbe riguardarvi? Non sono forse libera?
Indietreggiò davanti a quella parola che lo colpiva come uno schiaffo. Effettivamente, lei era libera. Un grande freddo lo prese alle spalle; sentì nettamente che lei aveva il ruolo superiore, e che lui stava recitando in quel momento una scena da bambino malato e incoerente. Non rispettava il trattato; la sua stupida passione lo rendeva odioso. Perché non era rimasto a lavorare studio? Il sangue abbandonava le sue guance; un'ombra nel suo d'indicibile sofferenza gli illividí il viso. Quando Flavie si accorse dello sconvolgimento che si operava in lui, si scostò dalla porta, mentre una tenerezza le raddolciva gli occhi.
Guardate, – disse semplicemente.
E lei stessa entrò nella camera, con una lampada in mano, mentre Nantas rimaneva sulla soglia. Con un gesto le aveva detto che era inutile, che non voleva vedere. Ma lei, adesso, insisteva. Quando arrivò al letto, alzò le tende; nascosto dietro, apparve il signor des Fondettes. Fu per lei un tale stupore che mandò un grido di spavento.
– È vero. – balbettò, sconvolta, – è vero, quest'uomo era qui... Lo ignoravo, oh!, sulla mia vita, ve lo giuro!
Poi, con uno sforzo di volontà, si calmò; parve addirittura rimpiangere quella prima reazione che l'aveva appena spinta a difendersi.
– Avevate ragione, signore, e vi chiedo scusa, – disse a Nantas, cercando di ritrovare il suo tono freddo.
Intanto, il signor des Fondettes si sentiva ridicolo. Stava facendo una meschina figura; avrebbe dato qualsiasi cosa perché il marito si arrabbiasse. Ma Nantas taceva. Era soltanto diventato molto pallido. Quando ebbe riportato lo sguardo dal signor des Fondettes su Flavie, s'inchinò davanti a lei, pronunciando quest'unica frase: – Signora, scusatemi. Siete libera.
Voltò la schiena e se ne andò, qualcosa si era appena rotto; solo il meccanismo dei muscoli e delle ossa funzionava ancora. Quando si ritrovò nello studio, andò dritto a un cassetto dove nascondeva una rivoltella. Dopo aver esaminato l'arma disse a voce alta, come per fare una promessa formale nei confronti di se stesso: – Basta così, tra poco mi ucciderò.
Aumentò la luce della lampada che si stava affievolendo, si sedette alla scrivania e si rimise tranquillamente al lavoro. Senza un'esitazione, in quel grande silenzio, continuò la frase iniziata. Uno dopo l'altro, metodicamente, i fogli si accumulavano. Due ore dopo, quando Flavie, che aveva cacciato il signor des Fondettes, scese a piedi nudi per origliare alla porta dello studio, sentì soltanto il lieve stridio della penna sulla carta. Allora si curvò, e guardò nel buco della serratura. Nantas continuava a scrivere con la stessa calma; il suo viso esprimeva la pace e la soddisfazione del lavoro, mentre un raggio della lampada illuminava la canna della rivoltella, accanto a lui.

V.

La casa confinante con il giardino del palazzo adesso era proprietà di Nantas, che l'aveva comperata dal suocero. Per un capriccio, proibiva di affittare l'angusta mansarda dove, al tempo del suo arrivo a Parigi, per due mesi si era dibattuto nella miseria. Dopo aver accumulato la sua enorme fortuna, aveva provato a più riprese il bisogno di salire a chiudervisi per qualche ora. Lì aveva sofferto, lì voleva trionfare. Anche quando si presentava un ostacolo vi andava volentieri a riflettere, a prendere le grandi decisioni della sua vita. Lì tornava a essere ciò che era stato una volta. Così, davanti alla necessità del suicidio, era proprio in quella mansarda che aveva deciso di morire.
La mattina, Nantas finì il lavoro soltanto verso le otto. Temendo che la stanchezza lo facesse assopire, si sciacquò il viso abbondantemente. Poi chiamò uno dopo l'altro molti impiegati per impartire loro degli ordini. Quando fu il turno del suo segretario, ebbe con lui un colloquio: il segretario avrebbe dovuto portare immediatamente il progetto del bilancio alle Tuileries, e fornire alcune spiegazioni se l'imperatore avesse sollevato nuove obiezioni. A quel punto Nantas pensò di aver fatto abbastanza. Lasciava tutto in ordine; non se ne sarebbe andato come un bancarottiere colpito da demenza. Finalmente si apparteneva, poteva disporre di sé senza che lo si accusasse di egoismo e di vigliaccheria.
Suonarono le nove. Era ora. Ma, mentre stava per lasciare lo studio portando con sé la rivoltella, dovette ingoiare un'ultima amarezza. La signorina Chuin si presentò per riscuotere i diecimila franchi promessi. Lui la pagò, e dovette subire la sua confidenza. Si mostrava materna, lo trattava un po' come un allievo che è stato promosso. Se gli fosse rimasta qualche esitazione, quella complicità vergognosa lo avrebbe deciso al suicidio. Salì rapidamente e, nella fretta, lasciò la chiave nella porta.
Niente era cambiato. La carta da parati aveva gli stessi strappi; il letto, il tavolo e la sedia erano sempre lì, con il loro odore di antica povertà. Per un momento respirò quell'aria che gli ricordava le lotte d'un tempo. Poi si avvicinò alla finestra e scorse la stessa vista di Parigi, gli alberi del palazzo, la Senna, i Lungosenna, tutto un angolo della Rive droite dove l'onda delle case correva, si alzava, si confondeva fino all'orizzonte del Père-Lachaise.
La rivoltella era sul tavolo traballante, a portata di mano. Adesso non aveva più fretta; era certo che non sarebbe venuto nessuno e che si sarebbe ucciso come e quando avesse voluto. Pensava e si diceva che si ritrovava allo stesso punto di una volta, ricondotto allo stesso luogo, alla stessa volontà di suicidio. Già una sera, in quel posto, aveva deciso di buttarsi di sotto; era troppo povero allora per comprare una pistola; c'era soltanto il selciato della strada, ma la morte era comunque all'altro capo. Così, nell'esistenza, soltanto la morte non ingannava, si mostrava sempre sicura e sempre pronta. Di saldo conosceva soltanto essa; era inutile cercare: sotto di lui era sempre crollato tutto; solo la morte rimaneva una certezza. E provò il rimpianto di aver vissuto dieci anni di troppo. L'esperienza che aveva fatto della vita, arrivando al successo e al potere, gli appariva puerile. A cosa serviva quel dispendio di volontà, a cosa serviva una tale produzione di forza se, decisamente, la volontà e la forza non erano tutto? Era bastata una passione per distruggerlo; si era messo stupidamente ad amare Flavie, e adesso il monumento che stava costruendo scricchiolava, crollava come un castello di carte travolto dal fiato di un bambino. Che cosa miserevole; somigliava alla punizione di uno scolaro sotto il cui peso si rompe il ramo dell'albero dove è salito per rubarne i frutti, e che perisce proprio come chi fila la corda che poi l'appende. La vita era stupida; gli uomini superiori vi finivano in modo altrettanto piatto degli sciocchi.
Nantas aveva preso la rivoltella sul tavolo e lentamente la stava caricando. Per un attimo, in quel momento supremo un ultimo rimpianto lo fece vacillare. Che grandi cose avrebbe realizzato se Flavie lo avesse compreso! Il giorno in cui gli avesse gettato le braccia al collo, dicendo: “Ti amo! ”, quel giorno avrebbe trovato una leva per sollevare il mondo. E il suo ultimo pensiero fu un gran disprezzo per la forza, poiché la forza che doveva dargli tutto non era riuscita a dargli Flavie.
Alzò l'arma. La mattinata era magnifica. Dalla finestra spalancata entrava il sole, portando un risveglio di giovinezza nella mansarda. Lontano, Parigi iniziava il suo travaglio di città gigante. Nantas si portò la canna alla tempia.
Ma la porta si aprì violentemente, e Flavie entrò. Con un gesto deviò il colpo; la pallottola andò a conficcarsi nel soffitto. Si guardarono. Lei era talmente ansante, talmente senza fiato, che non riusciva a parlare. Finalmente, dando per la prima volta del tu a Nantas, trovò le parole che lui aspettava, le uniche parole che potessero deciderlo a vivere: – Ti amo ! – gridò abbracciandolo, singhiozzando, strappando quella confessione al proprio orgoglio, a tutto il proprio essere domato. – Ti amo perché sei forte!


(Tratto dalla raccolta L’amore impossibile, a cura di Guido Davico Bonino, tradotto da di Lorena Camerini, Einaudi, Torino, 2003)

 


Émile Zola


         Precedente    Successivo          Copertina