UNA
PALLOTTOLA NEL CERVELLO
Tobias
Wolff
Anders
non riuscì ad arrivare in banca che qualche istante
prima della chiusura, ragion per cui ovviamente c'era una fila
che non finiva più e lui si ritrovò bloccato
dietro due donne la cui stupida e rumorosa conversazione gli
urtò subito i nervi. In ogni caso, la sua disposizione
d'animo non era mai delle migliori, Anders era un critico letterario
noto per l'elegante e noncurante ferocia con cui stroncava
qualsiasi libro gli capitasse di recensire.
Con una coda che ancora doppiava il corrimano, uno dei cassieri,
una donna, espose la targhetta CHIUSO davanti al suo sportello
e si ritirò in fondo alla banca, si appoggiò a
una scrivania e iniziò a chiacchierare animatamente con
un altro impiegato che intanto maneggiava delle carte. Le due
donne davanti ad Anders interruppero la conversazione e guardarono
con odio la cassiera. – Oh, gentile la signorina. – disse
una. Poi si girò verso Anders e aggiunse, sicura del suo
appoggio: – Ecco un esempio di quella cortesia per cui
questa banca va famosa.
Anders aveva sviluppato un suo personale e violentissimo odio
verso la cassiera, ma immediatamente lo rivolse sulla presuntuosa
e piagnucolosa donnetta davanti a lui. – Oh in che mondo
viviamo, – disse. – Quante tragiche ingiustizie!
Se non ti amputano la gamba sbagliata, se non ti bombardano il
paesello natio, ti chiudono lo sportello sotto il naso!
Lei non sì lasciò scoraggiare. – Non ho detto
che era una tragedia. – ribatté. – Dico solo
che è un pessimo modo di trattare i clienti.
–
È imperdonabile. – rimbeccò Anders. – In
Cielo ne prenderanno nota.
Lei si succhiò le guance, ma fissò lo sguardo oltre
le spalle di lui e non disse niente. Anders si accorse che l'altra,
la sua amica, stava sbarrando gli occhi guardando nella medesima
direzione. E a quel punto i cassieri interruppero ciò che
stavano facendo, e i clienti piano piano si girarono tutti e
il silenzio calò nella banca. Due uomini che indossavano
impeccabili abiti blu e avevano passamontagna neri in testa si
erano piazzati ai lati della porta. Uno dei due rapinatori teneva
una pistola premuta contro la nuca dell'agente della vigilanza.
L'agente aveva gli occhi chiusi, e le labbra gli tremavano. L'altro
rapinatore era armato con un fucile a canna mozza. – Zitti! – gridò l'uomo
con la pistola, benché nessuno avesse fiatato. – Se
solo uno di voi cassieri si azzarda a premere l'allarme, qui
siete tutti carne morta. Afferrato l'idea?
I cassieri annuirono.
–
Ma bravo! – disse Anders. – Carne morta –.
Si girò verso la donna che gli stava davanti. – Magnifica
sceneggiatura, eh? Ecco la dura poesia delle classi socialmente
pericolose che ti colpisce come un tirapugni.
La donna lo guardò con gli occhi dilatati.
Quello col fucile a canna mozza diede uno spintone all'agente
costringendolo a inginocchiarsi. Passò il fucile al suo
compagno e con uno strattone afferrò i polsi dell'agente,
gli tirò le braccia dietro la schiena e gli bloccò le
mani con un paio di manette. Poi lo fece ruzzolare a terra con
un calcio fra le costole. Riprese il fucile e si avvicinò alla
porta di sicurezza in fondo al banco. Era un uomo basso e pesante,
si muoveva con particolare lentezza, quasi torpidamente. – Apritegli! – gridò il
suo compare. Il rapinatore col fucile varcò la porta di
sicurezza e lentamente passò davanti ai vari cassieri,
porgendo a ciascuno di essi una busta di plastica. Quando arrivò davanti
allo sportello vuoto, lanciò un'occhiata a quello con
la pistola, il quale disse:
–
Di chi è quel posto?
Anders guardò la cassiera. Lei si portò una mano
alla gola e si girò verso l'uomo con cui prima chiacchierava.
Lui annuì. – Mio, – disse lei.
–
E allora muoviti culona e riempi la borsa.
–
Ecco, – disse Anders alla donna davanti a lui. – Giustizia è fatta.
–
Ehi! Furbone! T'ho detto forse di parlare?
–
No, – disse Anders.
–
Allora chiudi quella fogna.
–
Sentito? – disse Anders. – “Furbone”. È una
battuta de I Killer.
–
Per l'amor di Dio, stia zitto. – gli disse la donna.
–
Ehi, tu, sei sordo o cosa? – L'uomo con la pistola si avvicinò ad
Anders e gli piantò l'arma nella pancia.
–
Pensi che gioco?
–
No. – rispose Anders, ma la canna della pistola gli faceva
il solletico come fosse un ditone puntato e gli venne la ridarella.
Per bloccarla si costrinse a fissare il rapinatore negli occhi,
che erano chiaramente visibili dietro i buchi del passamontagna:
azzurro pallido, cerchiati di rosso, infiammati. Gli batteva
la palpebra destra. L'uomo alitò una zaffata penetrante
come ammoniaca che sconvolse Anders più di tutto quanto
era successo fino a quel momento, e avvertì un acuto disagio
quando quello lo pungolò di nuovo con la pistola.
–
Ti piaccio, furbone? – gli disse. – Hai voglia di
ciucciarmi l'uccello?
–
No, – disse Anders.
–
Allora piantala di allumare.
Anders si mise a guardare le scarpe del rapinatore, erano lucide
con la mascherina lunga.
–
Non giù. Su! – Gli ficcò la pistola sotto
il mento e spinse verso l'alto finché Anders non ebbe
gli occhi rivolti al soffitto.
Anders non aveva mai prestato molta attenzione a quella parte
della banca, un vecchio pomposo salone coi pavimenti, gli sportelli
e i pilastri di marmo, e una decorazione di ricci dorati sopra
gli sportelli dei cassieri. Il soffitto a cupola era affrescato
con delle figure mitologiche alla cui bruttezza polputa e togata
Anders aveva rivolto un'occhiata molti anni prima e dopo di allora
aveva sempre evitato di osservare. Adesso non aveva altra scelta
che esaminare attentamente l'opera del pittore. Era persino peggiore
di quanto ricordasse, intrisa della solennità più falsa
e ridondante. L'artista conosceva due o tre trucchi del mestiere
e li usava e li riusava senza misura, il rosa della parte bassa
delle nuvole aveva una certa freschezza, amorini e fauni non
lesinavano sguardi schivi ed esitanti. Il soffitto era gremito
di scene drammatiche; quella che attirò l'attenzione di
Anders raffigurava Zeus ed Europa, che il pittore rappresentava
con un toro che adocchiava una giumenta di là da un mucchio
di fieno. Per rendere sensuale la giumenta, il pittore le aveva
smussato i fianchi in maniera suggestiva e aveva munito gli occhi
di lunghe ciglia socchiuse dalle quali essa contemplava il toro
con appassionato gradimento. Il toro aveva l'aria compiaciuta
e le sopracciglia inarcate. Se ci fosse stato un fumetto che
gli usciva dalla bocca, dentro ci sarebbe stato scritto: “Hurrah”.
—
Di che ghigni, furbone?
—
Di niente.
—
Pensi che sono comico? Pensi che sono una specie di pagliaccio?
—
No.
—
Pensi che mi puoi prendere per il culo?
—
No.
—
Tu prendimi per il culo, e diventi storia. Capischi?
Anders scoppiò a ridere. Si coprì la bocca con entrambe
le mani e disse: — Scusa, scusa, — e dopo sbuffò fra
le dita senza potersi più trattenere e ripeté: — Capischi!
Oh, Dio, capischi. — e fu a quel punto che l'uomo con
la pistola alzò l'arma e gli sparò dritto nella
testa.
La pallottola fracassò il cranio di Anders, attraversò il
cervello, e uscì dietro l'orecchio destro, spargendo scaglie
d'osso nella corteccia cerebrale, nel corpo calloso, indietro
verso i gangli basali, e in basso fino all'ipotalamo. Ma prima
che tutto ciò accadesse, l'ingresso della pallottola nel
cervello innescò una crepitante catena di trasferimenti
di ioni e di neurotrasmissioni. A causa della sua peculiare origine,
questo processo seguì un tracciato peculiare, riportando casualmente
in vita un pomeriggio estivo di circa quarant'anni prima, che
non era mai stato richiamato alla memoria. Penetrata nel cranio,
la pallottola continuò ad avanzare a una velocità inferiore
ai 300 metri al secondo, un ritmo pateticamente lento, degno
di un ghiacciaio, almeno rispetto all'attività frenetica
delle sinapsi attorno al proiettile. Una volta nel cervello,
cioè, la pallottola entrò nel tempo cerebrale,
il che diede ad Anders tutto l'agio di contemplare la scena che,
con una frase che lui avrebbe aborrito, “gli passò davanti
agli occhi”.
Stabilito che cosa Anders ricordò, occorre forse notare
tutto quello che invece non ricordò. Non si ricordò del
primo amore, Sherry, o di ciò che più di tutto
in lei lo aveva fatto impazzire, prima di piacere, poi di rabbia:
la sensualità totalmente disinibita e specialmente il
tono amichevole con cui alludeva al suo pene, da lei ribattezzato
Signor Talpa, snocciolando frasi come “Ohò, il signor
Talpa ha voglia di giocare”, o “Vediamo dove va a
nascondersi il signor Talpa!” Anders non si ricordò di
sua moglie, che pure aveva molto amato prima che lei lo sfinisse
con la sua prevedibilità, o di sua figlia, ormai una aggrondata
professoressa di Economia a Dartmouth. Non si ricordò di
quando restava dietro la porta della camera di sua figlia ad
ascoltarla mentre rimbrottava l'orsacchiotto dicendogli che era
stato cattivo e descrivendogli le punizioni davvero raccapriccianti
che avrebbe ricevuto se non si decideva a filare dritto. Non
si ricordò nemmeno uno delle centinaia di versi che aveva
imparato a memoria in gioventù, così da potersi
fare venire i brividi a comando: “Silenzioso, in cima a
una vetta nel Darien”, o “Mio Dio, ho sentito parlare
di questo giorno” o “Tutti i miei cari? Tutti, dici?
Oh, crudele! Tutti?” Non si ricordò di nessuno di
questi versi Anders. Non si ricordò della madre che in
punto di morte, parlando del padre, aveva detto: – Avrei
dovuto pugnalarlo nel sonno.
Non si ricordò del professor Josephs che raccontava ai
suoi studenti come i prigionieri ateniesi in Sicilia fossero
stati liberati se erano capaci di recitare Eschilo, e poi si
metteva li a recitare Eschilo lui stesso, in greco antico. Anders
non ricordò di come si era sentito pizzicare gli occhi
al suono di quelle parole. Non si ricordò della sorpresa
che aveva provato vedendo il nome di un ex compagno di università sulla
copertina di un romanzo, non molto tempo dopo che si erano laureati,
o il rispetto che aveva provato dopo aver letto quel libro. Non
si ricordò del piacere di provare rispetto per qualcuno.
E neanche si ricordò di una donna che aveva visto suicidarsi
buttandosi da una finestra del palazzo dirimpetto al suo pochi
giorni dopo la nascita di sua figlia. Non si ricordò di
avere gridato: “Signore, abbi pietà! ” Non
si ricordò di avere mandato a bella posta l'auto di suo
padre a sbattere contro un albero, o di essere stato preso a
calci nelle costole da tre poliziotti durante una manifestazione
contro la guerra, o di quella volta che si era svegliato ridendo.
Non si ricordò di quando aveva cominciato a guardare le
pile di libri sulla sua scrivania con un misto di noia e paura,
o di quando aveva cominciato a odiare coloro che li avevano scritti.
Non si ricordò di quando tutto quanto aveva cominciato
a ricordargli qualche altra cosa.
Ecco cosa ricordò Anders. Caldo. Un campo di baseball.
Dell'erba gialla, il ronzio degli insetti, lui appoggiato a un
albero mentre i ragazzi del quartiere si radunano per una partita.
Li guarda mentre litigano sulla superiorità del genio
di Mantle o di Mays. E' tutta l'estate che dibattono questo tema,
l'argomento è diventato noioso per Anders: opprimente,
come il caldo.
Poi arrivano gli ultimi due ragazzi, Coyle e un suo cugino arrivato
dal Mississippi. Anders non ha mai incontrato il cugino di Coyle
prima e non lo vedrà mai più. Gli dice ciao come
fanno tutti gli altri ma poi non fa più caso a lui almeno
finché non hanno diviso il campo e qualcuno chiede al
cugino di Coyle in quale posizione vuole giocare. – Interbase. – dice
il ragazzo. – Interbase è la posizione migliore
che ci sono. – Anders si gira a guardarlo. Vorrebbe sentire
il cugino di Coyle ripetere la frase che ha appena detto, ma è abbastanza
sveglio da capire che è meglio non chiederglielo. Gli
altri penserebbero che fa il cretino, che prende in giro il ragazzo
per il suo errore di grammatica. Ma non è questo, proprio
no. E' che Anders è stranamente eccitato, euforico, per
quelle tre parole finali, così totalmente inaspettate, così
musicali. Prende il suo posto in campo come in trance, ripetendole
fra
sé e sé.
La pallottola è già nel cervello; l'attività cerebrale
non potrà continuare in eterno a superarla in velocità,
e niente la fermerà per incanto. Essa deve seguire la
sua traiettoria e uscire dal cranio trascinando come una cometa
la sua coda di memorie, di speranze, di talento e di amore, nel
salone di marmo della banca. Non ci si può fare niente.
Ma per il momento Anders può ancora avere tempo. Tempo
per le ombre che si allungano sull'erba, tempo perché il
cane legato alla catena abbai alla palla che vola, tempo perché il
ragazzo nel campo di destra picchi la mano nel guanto da baseball
annerito dal sudore e ripeta sommessamente come una cantilena: “La
migliore posizione che ci sono, la migliore posizione che ci
sono”.
(Tratto
dalla raccolta Proprio quella notte, Einaudi, Torino, 2001, traduzione
di laura Noulian)
Tobias
Wolff
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