PICCOLO CESARE
Giorgio
Bocca
Dice
Fedele Confalonieri: “Quando Silvio decise di scendere
in campo con Forza Italia la nostra alternativa era di finire
in galera come ladri o come mafiosi”. Confalonieri era
contrario all’avventura politica, ma non poteva abbandonare
il compagno di una vita e uomo dei miracoli. Anche Marcello
Dell’Utri era contrario, “ma quando Silvio ha deciso
una cosa è decisa, tanto valeva dargli una mano. Del
resto la situazione per noi era oggettivamente disperata, democristiani
e socialisti si stavano disgregando, i comunisti sembravano
avviati all’egemonia”. “Che facciamo?” gli
chiesi. “Facciamo un partito,” disse. “Ma
come lo facciamo un partito?” “Lo fanno tutti,” disse, “lo
facciamo anche noi.” Qui c’è l’uomo
che si è improvvisato imprenditore edile e poi della
televisione, un uomo nuovo per la politica italiana, il primo
che pensi a un partito come a un’azienda. Nella rivincita
del denaro la politica si identifica con l’economia ma
sono in pochi a capirlo. Silvio l’ha capito, non ha inventato
niente ma ha intuito molto, è uno che si può detestare
ma non sottovalutare, può essere per i suoi concittadini
una iattura, ma c’è e siamo qui a parlarne.
Il telaio del partito c’era ed era Publitalia, la rete
del consenso pubblicitario, dell’informazione e dello spettacolo
che sostituiscono le utopie che si fanno economia, finanza, comun
sentire. Me ne ero accorto tardi in un viaggio negli Stati Uniti,
percorrevo in auto i rettifili interminabili delle terre di mezzo
e passavo da una stazione radio all’altra senza capire
tutte le parole, ma una era chiara e martellante, la parola dollaro,
una traduzione immediata della vita in denaro, una contabilità istantanea:
ecco, il tuo lavoro, le tue passioni, i tuoi errori, le tue virtù fanno
questo numero di dollari, tu sei moneta, non c’è altro
che la moneta. Silvio questa identità fra vita e moneta
l’aveva capita da molti anni, da quando vendeva i temi
ai compagni di scuola e magari da prima.
Silvio è un imprenditore sognatore, la specie più pericolosa,
quella che crea imperi privi di senso se non l’espansione
dell’ego. Tiranelli individualisti come lui ce ne sono
molti in tutte le imprese ma si accontentano di issare la bandiera
del presidente quando vi entrano e scrivere il loro nome su mura
e carte aziendali. Poi ci sono gli altri che pensano di cambiare
il mondo impadronendosene, convinti di appartenere a una specie
sociale salvifica. Al convegno degli industriali a Parma Silvio
dice “sono uno dei vostri” e non vuol dire uno come
voi che fate rubinetti, falsi in bilancio, lavastoviglie, evasioni
fiscali, telefonini ma uno della classe centrale, che comanda.
E siccome la democrazia viene affidata ai numeri noi ce la prendiamo.
La discussione in corso sul “conflitto d’interessi” è drammatica
ma in un certo senso fuorviante. Il suo conflitto di interessi è fra
i più sfacciati, ma fa parte del sistema vincente, della
rivincita del mercato, che i suoi interessi prima di imporli
li esercita naturalmente, come un fiume corre nel suo alveo.
Il conflitto di Silvio è così macroscopico da confondersi
con la normalità, la sua indifferenza ai “sacri
princìpi” del capitalismo è enorme, ma non
facciamo i finti tonti, è così in tutti i paesi
ricchi, i conflitti di interesse delle megaziende hanno fatto
scempio di ogni etica del capitalismo, la grande finanza è una
giungla che divora anche i suoi figli.
Il nostro Piccolo Cesare a volte dà nel comico ma quel
che lo preme alle spalle e su cui galleggia è una forza
enorme e dissennata. Ecco perché non ha senso dire che
il suo è un "regime che non c'è”. C'è eccome,
come progressiva liquidazione della democrazia, dei suoi diritti,
delle sue libertà e persino della nostra esistenza civile,
di cosa sarà delle generazioni future.
Dissennatezza e volgarità. Ha fatto il giro del mondo
una fotografia in cui il capo del nostro governo in una riunione
dei ministri degli Esteri europei fa le corna sulla testa del
collega spagnolo. “Per far ridere un bambino”, ha
detto, “per mettere un po’ di allegria nel cerimoniale”.
Ma non era un gesto casuale, era un gesto della volgarità del
mercato, per essere simpatici, alla maniera dei commessi viaggiatori,
volgari ma popolari. Un gesto che rappresenta un cambio di civiltà fra
coloro che governavano per il diritto divino di nascita o di
classe e quanti ora governano per la meritocrazia negli affari.
Le forme eleganti delle minoranze aristocratiche sono superate,
vince la marmellata erotica spalmata su ogni manifestazione,
la maleducazione di massa.
“
Mi consenta” è uno degli intercalari preferiti di
Silvio e tutti sanno che vuol dire “mi consenta di fare
e dire quello che voglio”. Irresponsabilità e volgarità.
In tutte le case del professionismo specializzato come unico
collante ci sono le barzellette sessuali, la ripetizione che
nei film americani popolari è ormai ossessiva, martellante,
i vaffan..., i fotti tua madre, tua sorella, tua figlia come
un suono di fondo, come il battito di un cuore violento e ottuso.
Silvio è eccezionale negli affari ad alto rischio, ma
comunissimo nei gusti. Adesso sembra attirato da un gallismo
goliardico, al congresso di AN loda le belle gambe delle delegate
di prima fila (“sono un intenditore”); se premia
il campione olimpico Rosolino sospira: “Ah, tu sei giovane
e bello, hai tutte le donne che vuoi”. Non ha bisogno di
imparare le pubbliche relazioni, è quel che è sempre
stato e che oggi è vincente. Non si vergogna dei suoi
vizi, che nel frattempo sono diventati virtù, modelli
per la massa. Va alla presentazione di un libro di Bruno Vespa,
uno che è diventato un modello di giornalismo per avere
detto che “la Democrazia cristiana era il suo punto di
riferimento” e dice con un sorriso splendente: “Anch’io
sto scrivendo un libro, si intitolerà: La forza di un
sogno”. “Titolo bellissimo”, dice il direttore
editoriale della Mondadori di cui Silvio è il padrone. “Quante
copie pensa di stamparne?” chiede il padrone al suo dipendente. “Almeno
mezzo milione, sarà un successo.” Al libro di Vespa,
che ha trovato il suo nuovo punto di riferimento, le televisioni
private e pubbliche ma a padrone unico hanno dedicato già una
quindicina di passaggi nelle ore di punta, quattro nelle giornate
precedente il Natale, sacra festività da tempo inglobata
nel commercio, una di quelle colossali sinergie che premiano
i già ricchi e potenti. Piove sul bagnato e Silvio è di
ottimo umore. Questo non è un regime?
I più fedeli cortigiano non lo nascondono. Scrive Paolo
Guzzanti: “Questo governo è sorretto non da una
banale maggioranza degli italiani, ma dall’assoluta maggioranza
di un crescente consenso elettorale, civile, di stima”.
Un plebiscito, la proclamazione dell’impero, l’acclamazione,
il popolo che stacca i cavali dalla sua carrozza e lo porta in
trionfo, i capi della claque che applaudono e si commuovono.
Costoro sono come gli alieni di Guerre stellari. Non sorridono
come gli umani, ma nei loro occhi friggono dei bagliori da contatti
elettronici. Il più alieno degli alieni è l’avvocato
Schifani, capogruppo al Senato. Enzo Biagi, candido di capelli
e gentile come un angelo di Frank Capra, lo intervista in televisione
e gli chiede: “Qual è il programma della televisione
che le sembra il peggiore?”. “Il suo,” risponde
con uno sfrigolio il senatore. Gli alieni arrivano puntuali a
tutti i talk show, a tutte le conferenze stampa. Gli spettatori
sono sempre in attesa che qualche cittadino della repubblica
perda la pazienza e gridi di brutto: “Faccia di bronzo,
ma vuoi anche sfottere? State impadronendovi dello stato, devastando
la giustizia e continuate a provocare?”. Tutti li scambiano
per umani con anima, cervello, nervi, tendini umani, e con cui
sia possibile una discussione normale, una normale incazzatura.
ma anche se nascondono la pelle verde degli alieni e la voce
rauca, anche se non si vede il groviglio di fili, valvole, transistor
che si portano in pancia si dovrebbe capire da quel che dicono
che arrivano da un altro pianeta, che quel che dicono è registrato
in pancia, dal complotto della magistratura comunista alle bellezze
della “democrazia chiave in mano” offerta dal signore
di Arcore.
Sono i buffoni di corte, contenti di esserlo. Hanno capito che
non funzionano più i buffoni shakespeariani o melodrammatici
alla Rigoletto, che non è più il tempo della buffoneria
tragica, dall’anima dolente dietro i lazzi e le deformità.
Il buffone di corte oggi dev’essere vestito come il padrone,
dev’essere puntuale, in servizio permanente, pronto a prendere
in contropiede i moralisti: “Ma che vuoi giudicare tu,
ti tagliamo l’erba sotto i piedi, ti anticipiamo, noi la
nostra abiezione la mettiamo in piazza, la esibiamo sui giornali,
ce ne facciamo un vanto”. la mattina che il bizzoso onorevole
Mancuso, mancato giudice costituzionale, rompeva con Berlusconi
e andava per sale e corridoi di Montecitorio insultandolo, i
buffoni di corte sembravano impazziti, lo rincorrevano, cercavano
di zittirlo, di intimidirlo. Nominate in loro presenza uno non
gradito al re e loro fanno una smorfia di ribrezzo, ti voltano
le spalle. Ma quanti sono i buffoni? A schiere, non solo negli
uffici del re, li riconosci da come ti guardano, da come ti evitano.
Il regime che ti imprigiona per ora non c’è, ma
c’è quello che ti emargina come persona non grata.
Nel regime che non c’è, gode di libera circolazione
solo il gossip, il pettegolezzo purché volgare. La parola è tanto
più libera quanto meno conta.
(Brano
tratto dal saggio politico Piccolo Cesare, Feltrinelli, Milano,
2003.)
Giorgio
Bocca
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