LA REGINA E IO

Jay McInerney

 

Mentre la luce stanca si ritira di là del fiume verso i sobborghi a ovest, il molo fatiscente alla fine di Gansevoort Street comincia a fremere e a gemere di vita. Dall’interno di un capanno col tetto di lamiera, esseri umani barcollano fuori nel crepuscolo nebbioso, simili a pipistrelli che escano da una spelonca. Dentro il capanno, affiora dall’oscurità una collina bianca, le cui pendici sono disseminate di materassi, coperte, sacchi a pelo, cartoni e fogli di compensato. Tra gli abitanti di questo luogo circola l’implausibile voce che la bianca mesa sia fatta di sale, quel sale che un tempo, quando ancora c’erano fondi per i servizi municipali, d’inverno veniva sparso sulle strade ghiacciate; attualmente il capanno arrugginito funge da dormitorio per uomini e da rifugio per ratti. Al tramonto gli ospiti del capanno si alzano per andare al lavoro, arrancano fuori, per vestirsi e truccarsi nell’ultima luce. Lungo la banchina, ai piedi della superstrada, le lustre macchine di protettori e clienti attendono accanto agli ammuffiti furgoni di organizzazioni filantropiche religiose o laiche, pronte a competere per i corpi e le anime del popolo del molo.
Osservo tre travestiti1 spartirsi i servizi di uno specchietto e di un rossetto cercando di sfruttare al meglio la luce obliqua. Uno dei tre si allontana di qualche passo creando un’intimità tutta simbolica per tirarsi pudicamente su la gonna e fare una pisciata torrenziale. Un altro accende la sigaretta e si raddrizza le calze a rete. Il terzo è il mio amico Marilyn, regina della Little West Twelfth Street. È il mio primo giorno di lavoro nel ramo.

 

Un paio di giorni prima mi ero imbattuto in Marylin al pronto soccorso del St. Vincent Hospital. Era lì per la gengivite – gengive sanguinanti e ritirate, conseguenza di malnutrizione e droga. È un malanno tipico di chi batte la strada, una nuova credenziale nella mia discesa verso l’autenticità. Marilyn aveva una frattura al setto nasale, tre costole rotte e vari ematomi, il tutto provocato da un cliente roso dai ripensamenti.
“ Credevo che avessi un protettore, Marilyn,” dissi, guardando la vittima di uno scontro a fuoco sanguinare copiosamente su una barella.
“ Il protettore me l’hanno ammazzato i colombiani,” disse Marilyn. “Comunque quel bastardo non proteggeva un cazzo di niente. Anzi, era il primo a pestarmi.” Marilyn rise soffiando col naso, poi strinse gli occhi per il dolore. Quando fu di nuovo in grado di parlare disse: “L’ultima volta me l’ha rotto mio padre. Mi pestò a sangue perché mi aveva beccato con addosso il vestito da sposa di mia madre. Aveva aperto la porta di camera mia mentre io ero lì che mi mettevo il rossetto. Mi pestò come una biscia, continuava a urlare che ero un lurido maricón e che lui non voleva un figlio maricón. Il ragazzo di ieri sera era grosso come lui, un ragazzone del New Jersey, tutto muscoli. Quando abbiamo finito ha cominciato a picchiarmi, gridando che ero un finocchio. Ce n’è un sacco che fanno così, che non gli piace quello che vogliono.” “Ehi, amico,” disse guardandomi con improvvisa curiosità, “perché non me lo fai tu il protettore? Ti do cinque dollari a cliente.”
Il fatto che quell’offerta suscitasse immediatamente la mia massima attenzione dovrebbe dare un’idea abbastanza fedele di quali fossero in quel periodo le mie prospettive. In sostanza ero stato appena reso disoccupato da un altro colombiano assassino, e dormivo nei giardinetti di Abingdon Square. Fino a un paio di giorni prima spacciavo coca davanti a un bar sulla Thirteenth, ma poi i colombiani mi avevano massacrato il fornitore, e mi ero ritrovato senza contatti. Prima ancora lavoravo in un complesso, ma il batterista era morto per overdose, e il bassista si era trasferito a Los Angeles.
Quando avevo conosciuto Marilyn abitavo in uno scantinato nel Meat District. Marilyn lavorava di notte, e io stavo alzato per spacciare coca o crack e cercando di scrivere. Di base io scrivo testi per canzoni, cioè sono un poeta. Dentro di me c’è sempre una splendida brutta musica, che echeggia su dal profondo della mia mente. Quando cammino per strada o quando spaccio davanti ai bar mi capita di sentire all’improvviso e come in lontananza dei brani di questa musica, che affiorano sulla base ritmica subliminale del pulsare urbano. Nei momenti di massimo trasporto, cioè quando sono bello carico di crack o anche solo di vino da quattro soldi, io e la mia musica siamo perfettamente sintonizzati. Certe volte ho la certezza assoluta che basterà un’altra boccata, un altro sorso, e ne afferrerò l’essenza per portarla con me sull’altra sponda. Esteta del brutto, come il Principe Hal2 mi rotolo nel fango aspettando il mio momento, in attesa di sorgere come un fottutissimo sole.
Profugo dei sobborghi a ovest del fiume, da ragazzo bigiavo la scuola per venirmene in città con l’autobus. Bazzicavo St. Mark’s Place e la Bowery, cercando di assumere atteggiamenti e pose da teppista, scoprendo Bukowski e i Beat nelle librerie. Tornare alla borghese mediocrità del New Jersey era imbarazzante. Lì il terreno era troppo sterile per l’arte. Concimata a bucce di pompelmo anziché a letame, lì non poteva allignare nessuna poesia. Confuso dalle mie origine né alte né basse, sognavo torbidi bassifondi e bar fumosi. Ero convinto che le brutture dell’infimo mi avrebbero condotto al culmine della consapevolezza, ero convinto che per concepire la bellezza fosse necessario giacere con la bruttezza. Ormai sono anni che ci giaccio. E finora non ne è nato un accidente di niente. Come dice Dylan: Un giorno tutto sarà diverso, / Quando avrò dipinto il mio capolavoro. sarò ricco e famoso, mi immortaleranno accanto a modelle che improvvisamente mi avranno scoperto incredibilmente attraente – Dio santo, ma dove ti sei nascosto per tutta la nostra breve e sciocca vita da bipedi dalle lunghe gambe? – e mi farò un sacco di droghe da ricchi e mi comporterò malissimo e rovinerò la mia promettente carriera e finirò daccapo qui nella fogna. E su tutto ciò scriverò un ciclo di canzoni struggenti. Versi di straordinaria sensibilità, talora tragici.
Marilyn è cresciuto nella Harlem latino-americana; si chiamava Jesus ed era un delicato bimbo i cui lineamenti fini avevano tutto il potenziale per farne un gran pezzo di fica. Sogna di sposarsi e di vivere il tipo di vita che ho avuto io da piccolo. Solo che vuole farlo da donna. La notte lo vedo lanciare al di là dell’Hudson e verso le fioche luci del New Jersey suburbano quegli stessi sguardi sognanti che lanciavo io dalla sponda opposta verso le luci di Manhattan. Sogna un trivani da pulire e lustrare, aspettando il ritorno a casa di un marito che lavori in città. Sull’altra sponda del fiume, di rimpetto al molo di Gansevoort, si staglia un enorme manifesto della Maxwell House,3 e Marilyn una volta mi ha detto che quando si sveglia, cioè alla fine della giornata di lavoro dell’americano medio, gli tornano in mente le canzoncine delle pubblicità della Maxwell House che vedeva da bambino, e sogna di preparare una tazza di caffè per un maritino ancora assonnato.
Il medico che gli pratica le iniezioni di ormoni sostiene che più della metà dei – come chiamarli? – delle persone che si sottopongono all’operazione riesce a sposarsi, e che più della metà di quella metà riesce a tenere nascosta al marito la propria precedente esistenza da maschio. Personalmente lo trovo un filino difficile da credere. Invece Marilyn ci crede, e fa economie per potersi permettere l’operazione.
Il povero Marilyn, con il suo muso pesto. Nel suo lavoro è fondamentale poter respirare col naso. Decido di accettare la sua proposta. Chissà, magari ci esce una canzone. E tra l’altro sono in bolletta.
Sicché quando il sole sparisce dietro il fiume mentre le mucche ritornano nella stalla e gli uomini si trascinano verso casa dalle loro mogli, eccomi arrancare verso il Meat District in compagnia di un Marilyn in calze a rete e minigonna in vinile verde e arioso top nero. La regina e io.
“ Come mi trovi, tesoro?” mi chiede Marilyn.
“ Uno splendore,” rispondo.
“ Questo è il mio look Madonna. Con i giovanotti del New Jersey va alla grande.”
A questo punto avrete senz’altro capito che attualmente Marilyn è biondo.
Il tanfo si fa più intenso a mano a mano che ci avviciniamo a Washington e Gansevoort, cioè alla zona operativa di Marilyn – magazzini pieni di carne di ogni tipo, il cui predominante tanto di putrefazione è inestricabilmente collegato nella mia mente alla puzza di urina ed escrementi e sperma. Su un’insegna leggo: SPECIALISTI IN CARNI DI VITELLO – AGNELLINI DA LATTE, LATTONZOLI DI MAIALE, CAPRETTI. Ehi! Suona leggermente illegale, non so se mi spiego.4
Con l’avanzare del buio sta avendo luogo una lenta e sinistra metamorfosi. Camion refrigerati si staccano dai ponti di carico mentre uomini sgraziati in grembiuli insanguinati tirano giù saracinesche catarrose e sbarrano porte scorrevoli. L’opprimente lezzo della carne aleggia sul quartiere e, quando la brezza soffia verso est dal Hudson, si infiltra negli appartamenti alla moda e nei bar del Greenwich Village – che poi è l’unica cosa di buono che si possa dire di quel tanfo. Mentre i camion scompaiono verso il New Jersey e poi su a nord, strane creature vanno materializzandosi sui marciapiedi usurati, quasi che fossero spontaneamente generate dalla carne putrescente. Il bilico su tacchi a spillo, ancheggiante nelle movenze esagerate del corteggiamento, una razza di bipedi dinoccolati e stilizzati si impadronisce degli angoli delle strade. Esibiscono labbra e lombi a qualsiasi macchina passi a qualsiasi ora della notte – poiché la zona non si trova su nessuna rotta precisa, tranne quella per l’inferno o per Hoboken. I guidatori che arrivano sin qui lo fanno solo per poi rallentare lungo le strade semibuie e acciottolate, avanti e indietro per scrutare le sirene del marciapiede. Di tanto in tanto una macchina si ferma accanto a una delle figure in posa, che a quel punto si china sul finestrino per rispondere a domande, per civettare e mercanteggiare, e talvolta passa dall’altro lato e monta in macchina, per poi riapparire qualche minuto più tardi.
Le “ragazze” di Washington Street sono di tutte le taglie, di tutti i colori e di tutte le forme di naso; e con questa luce ce n’è di non del tutto inguardabili. Una, mentre una Toyota targata Connecticut le scivola davanti, si solleva il top per mettere in mostra un paio di sodi seni candidi. È difficile credere che qualcuno di questi tizi che contrattano per cinque minuti di sesso siano e rimangano convinti che si tratti di sesso normale. Se fossi in voi, gentili amiche, non ci conterei molto. Se oggi o domani il vostro fidanzato venisse beccato dalla polizia in questa zona, fareste bene a pensare di disdire banda, rinfresco e dolce. Probabilmente questi signori sono bravi ragazzi, se non tutti, la maggior parte. E finché indumenti e trucco restano al loro posto, nessuno è tenuto a interrogarsi sulle proprie reali inclinazioni. Di tanto in tanto la polizia fa una retata, per onorare la quota prestabilita di arresti; quasi sempre i clienti i cui piacere venga interrotto da un improvviso e ufficiale bussare al finestrino affettano stupore e sdegno quando gli agenti sottolineano il sesso dei loro partner con una scherzosa pacca all’inguine o con un non tanto scherzoso strattone alla gonna.
La clientela è quantomeno varia. C’è chi arriva in limousine e chi in Chevrolet, chi in Jaguar e chi in Toyota. Ogni volta che un certo omofobico e superfamoso attore di Hollywood viene a New York – trattasi di comico noto per le sue tirate oscene contro le comunità gay e femministe – la sua limousine bianca non manca mai di fare una capatina in Washington Street nelle prime ore del giorno.
Prendo posizione sotto una tettoia metallica semidistrutta, mezzo nascosto nell’ombra, mentre Marilyn tira fuori il portacipria per controllare la mercanzia. Aggrotta la fronte. “Quel maledetto sale mi rovina la pelle. A furia di dormire ogni notte su una montagna di sale ho la pelle tutta secca. Persino ai topi non gli va di dormire sul sale.” Mi chiedo se i topi si preoccupino per la propria pelle. Nel frattempo, sul ciglio della strada, Marilyn adotta una posa mutuata da un video di Madonna. Poco più in là c’è Randi, che dice di aver fatto parte degli Harlen Globetrotters. Top di pelle nera, minigonna delle nera, tacchi a spillo, il metro e novanta di Randi si staglia sotto un’insegna che recita: FRANKS SALAME MORTADELLA SALSICCE DI FEGATO & BISTECCHE DI SOCCOSCIO.5 Verità della pubblicità.
In fondo alla Gansevoort, alla fine del Meat District, l’insegna di un ristorantino alla moda diffonde un alone rosa. Quanto mi è remoto quel posto dove le teste di cazzo con cui ho fatto l’università si scolano cocktail colorati e discutono di titoli e di maneggi aziendali! Gente tipo il mio ex-migliore amico George Bing, che sognava di diventare poeta e adesso lavora per un’agenzia pubblicitaria in centro. Alla New York University dormivamo nella stessa stanza, prima che alla fine del secondo anno piantassi gli studi perché non li ritenevo alla mia altezza. Dopo la laurea di George siamo andati spesso a bere al Lion’s Head o al Whitehorse, dove lui si sentiva scendere di livello e io invece un intruso tra le alte sfere. La prima volta che ci era entrato – da matricola, barando sugli anni grazie a una tessera fasulla di un emporio sulla Forty-second Street – non aveva fatto altro che dirmi quant’era eccitato per il fatto che fossimo seduti praticamente nello stesso posto dov’era morto Dylan Thomas; ma poi, gradualmente, con l’andar del tempo aveva deciso che il bardo gallese aveva sprecato in maniera ignobile il proprio talento. “Cioè, con questo non voglio dire”, concedeva George, “che non fosse un grande, ma che c’è di male a badare alla propria salute, ad avere una bella casa, a mangiar bene e, mettiamo, a scrivere slogan per la Procter & Gamble tra un tormento poetico e l’altro?” E io, che cercavo di comportarmi bene, annuivo come un deficiente mentre smaltivo qualcosa che avevo appena fumato o tirato e speravo che il barman non si ricordasse di quando mi aveva sbattuto fuori tre mesi prima. Poi credo proprio che la cosa fosse diventata imbarazzante per entrambi. Sicché avevo smesso di telefonargli – non avendo telefono usavo come derivazione personale la cabina tra la Hudson e la Twelfth. E smettere di fingere era stato un gran sollievo.
Poco più avanti in Washington Street un trio di barboni sta accendendo un fuoco in un bidone della spazzatura, nonostante sia una notte calda e afosa, con l’asfalto e il cemento che sprigionano tutto il caldo immagazzinato durante il giorno, arrostendoci tutti come se fossimo ulteriori quarti di carne. Dopo qualche anno di vita in strada, diventa impossibile liberarsi dal freddo accumulato: l’inverno ti resta nelle ossa anche durante l’estate più rovente, e ci resta per sempre, come una cicatrice. Tant’è che i barboni indossano cappotto e scarponi anche in pieno agosto. Così non gli tocca cambiare guardaroba per l’inverno. Ne basta uno per tutte le stagioni.
Per conto mio, grazie mille, ma sto benissimo con la mia maglietta nera e il giubbotto jeans, che tra l’altro mi fa anche da coperta. Tanto, me ne sarò andato dalla strada ben prima che il freddo fotta pure me. Cioè quando avrò dipinto il mio capolavoro. Franks salame mortadella.
Una Nissan rossa rallenta e si ferma. Marilyn si avvicina al finestrino e scambia qualche parola con il guidatore, poi si volta e mi fa segno di uscire dalla mia tana. Sbuco dall’ombra in tutta la minacciosità del mio aspetto lugubre ed emaciato, faccia bianca come la luna e capelli tinti di nero corvino, denti giallastri e gengive sanguinolente. Marilyn fa il giro e monta in macchina dal lato passeggero. La Nissan va a fermarsi a mezzo isolato da lì, dove io possa tenerla d’occhio. Poco più in là, un barbone parcheggia sul marciapiede il suo straripante carrello da supermercato e sbircia dalla vetrata del ristorantino i ricchi che si abbuffano di bistecca e patatine fritte.
Dopo qualche minuto, Marilyn torna dal suo appuntamento, rassettandosi la minigonna e controllandosi nello specchio del portacipria, come un’indossatrice. È così che li chiama: i suoi appuntamenti. Mi spiaccica nel palmo della mano una banconota da cinque dollari, bagnata. Vorrei scollarmela dalla mano, appallottarla e scagliarla nella cunetta fetida, ma offenderei Marilyn, che è tutto eccitato per esser tornato al lavoro e sta facendo programmi per il futuro. Parla di quando si sarà operato, parla di quando si sposerà e si trasferirà nel New Jersey. Avrei una gran voglia di prenderlo a schiaffi e fargli capire che il New Jersey è la patria dei morti viventi, che non è un posto reale, come invece è reale la fiabesca vita che stiamo vivendo qui in Gansevoort Street, che la carne delle loro allegre grigliate a Morristown viene dritta dai magazzini tra i quali impavidamente ci aggiriamo.
Per fortuna che almeno si risparmierà il dramma di avere uno di quei figli sedicenti alternativi che crescono odiando e disprezzando la propria madre perché la accusano di essere una moglie noiosa e sottomessa al marito.
A mano a mano che la notte avanza, il lavoro aumenta, e io comincio quasi ad abituarmi alla stratificazione del tanfo, alle varie ottave di putrefazione. I barboni che trincavano intorno al falò si sono sbronzati fino a svenire, e il fuoco langue un po’ e poi si spegne del tutto. Faccio un salto nella Hudson e compro una bottiglia di brandy di more per mantenermi acceso il motore. Incrocio uno spacciatore che mi offre coca, crack e fumo. Dapprima penso: No, sono in servizio; ma poi, la seconda volta che mi passa davanti, ho in tasca venti dollari di provvigioni di Marilyn, sicché compro una pietruzza e la accendo, e la pietruzza mi sgranchisce il cervello, mi fa sentire virtuoso e potente – eccomi qua, mi sento un dio, sono di nuovo in piedi e il futuro è mio, se soltanto potessi farmi un’altra fumatina di questa roba eviterei di scivolare indietro , mi basterebbe una boccata, giusto per fermare questo dissolvimento, questo cader giù dall’istante perfetto che era proprio qui neanche un minuto fa, per cogliere quella perfetta melodia nel profondo del mio cervello, quel capolavoro.
Franks mortadella ecc. La botta è filata via come un bel ficone che al bar ti dice: Torno subito, giuro. Lasciandomi solo, terribilmente solo e a pezzi. Dove cazzo è finito il pusher? Verso le quattro si accentua l’affluenza al ristorantino: i locali chiudono, e taxi gialli arrivano e scaricano lì davanti vagonate do mondanoni nerovestiti, bambocci e fighette alla moda che non sono ancora pronti per la ninna. Mi procuro un cosiddetto quartino di presunta coca e me lo tiro tutto in una volta augurandomi che mi porti più in là e più lentamente delle pietre fumanti.
Fin qui gli appuntamenti di Marilyn sono già undici, una sfilata di pervertiti in rappresentanza di svariate classi ed etnie – compresi: un gioielliere hasidico, le cui trecce ritorte dondolano avanti e indietro mentre sgroppa verso l’orgasmo sul sedile anteriore della sua Lincoln nera, un operaio edile in Subaru targata New Jersey e con ancora l’elmetto protettivo in testa, un tizio in limousine che dichiara a Marilyn di lavorare nel cinema e gli dà una mancia di venti dollari.
Il furgone dei Lambs of God6 si avvicina e ci si ferma accanto. Il prete al volante guarda Marilyn e gli dice: “Buongiorno, Marilyn.” Poi mi vede sbucare dalla mia ombra vampiresca; sembra stupito, e non necessariamente contento.
“ Salve, Padre,” dice Marilyn. “È in cerca di un po’ di spasso?”
“ No, volevo solo accertarmi che tu... che non ti servisse niente.”
“ Tutto a posto, grazie, Padre. E a lei, serve qualcosa?2
“ Che Dio ti benedica, figliolo, e fa’ attenzione.” Il prete accelera e va via.
“È proprio carino quel prete, peccato che sia timido,” dice Marilyn con tono di disappunto. “Mi sa che l’hai spaventato.”
“ Il buon pastore,” dico io.
“ Una volta ho passato la notte all’ostello del Lambs of God, e lui non mi ha chiesto niente,” dice Marilyn – e lo dice come se descrivesse un’eroica dimostrazione di abnegazione sacerdotale. “E l’indomani mattina si è limitato a darmi un pizzicotto mentre uscivo. Tra l’altro in quel posto si mangia benissimo.” Guardiamo una macchina che passa lentamente, con il guidatore che ci scruta dietro gli occhiale da sole. Sembra che si voglia fermare, ma poi sgomma e sfreccia verso il fiume. Dopo una lunga pausa, Marilyn dice: “Il mio primo cavaliere è stato un prete, tanto tempo fa, quando facevo il chierichetto. Mi diede da bere del vino della messa.”
“ Che cosa romantica,” dico io, e nel frattempo ripenso ai miei trascorsi da chierichetto, in un’altra vita. Terrorizzato dalla quotidiana prossimità ai sacri riti, non fumavo, non dicevo cattive parole e confessavo tutti i miei pensieri impuri al prete in fervida attesa dietro la grata, finché quei pensieri si trasformarono in atti, un pomeriggio sul divano di Mary Linch, atti che trascurai di menzionare in occasione della mia successiva confessione. Allontanandomi dal confessionale mi sentii gravato dalla colpa dei dannati, ma, quando nei giorni e nelle settimane che seguirono vidi che il fulmine divino non mi inceneriva, cominciai a sospettare dell’entità del mio peccato, poi a dubitare di quella fede che era così violentemente in contrasto con la mia natura segreta, e infine mi esaltai nella ribellione. E quando mi staccai della mia famiglia e dalla Chiesa creai il mio culto personale, quello dell’adorazione dei tabù. Fede perversa che mi ritrovo a praticare con accanimento qui e adesso, alle cinque del mattino all’angolo tra Gansevoort e Washington.
Un’altra macchina transita lentamente, una Buick cadente con dentro due tizi. Quando sono in due il rischio aumenta, sicché decido di trattare direttamente io. Dico a Marilyn di restarsene dov’è, e mi avvicino alla macchina, che nel frattempo s’è fermata. A quanto pare il finestrino non funziona, sicché il guidatore deve aprire lo sportello. Sono due latino-americani sulla cinquantina. “Venticinque a testa,” dico, accennando col capo a Marilyn. “E senza allontanarsi da quest’isolato.” Dopo una breve trattativa ci accordiamo per trentacinque in due.
Faccio segno a Marilyn, che si avvicina e sale dietro, e nell’istante preciso in cui, tornato ad appoggiarmi al mio muro preferito, mi sto accendendo una sigaretta, Marilyn schizza fuori dalla macchina urlando e incespicando, mentre la Buick sgomma stridendo sul selciato. Marilyn si butta tra le mie braccia, in lacrime.
Es mi padre,” singhiozza. “Mi padre.
“ Padre nel senso di prete?” chiedo io, speranzoso.
Lui scuote il capo contro la mia spalla, e improvvisamente si stacca e comincia a scusarsi per avermi sporcato di trucco il giubbotto, e si mette a sfregare la stoffa, senza smettere di piangere. “Ti ho rovinato il giubbotto,” dice singhiozzando istericamente. Cerco di convincerlo che del giubbotto non me ne frega un cazzo e che comunque era già sporco di suo.
“ Sei sicuro che fosse... lui?” gli chiedo.
Cercando di riprendere fiato, Marilyn annuisce con forza. “Non lo vedevo da tre anni,” dice. Sta piangendo e tremando, e io stesso sono alquanto sconvolto. Cioè, porca puttana.
Poi, quando finalmente si calma, gli suggerisco di fare una sosta. Gli faccio bere il brandy che è rimasto, e poi, con lui sottobraccio, mi incammino verso il molo nella grana grigiastra dell’alba. Quando il sole sorge alle nostre spalle ci trova immobili in fondo al molo, che guardiamo l’insegna della Maxwell House al di là del fiume. Non riesco a trovare niente da dire. Gli passo un braccio in torno alla vita, e lui mi appoggia la testa sulla spalla e tira su col naso. Visti da lontano potremmo sembrare una coppietta come tante. Dopo un po’ gli consiglio di dormirci su, e lui si allontana verso la montagna di sale. Fine della mia carriera di protettore.

 

Un anno dopo tornai lì a cercare Marilyn. La maggior parte delle ragazze che trovai non le conoscevo, ma poi vidi Randi, l’ex Globetrotter, che dapprima non mi riconobbe. Ero cambiato parecchio. Pensava che fossi un piedipiatti, poi pensò che fossi un giornalista. Disse che avrebbe risposto in cambio di un regalino, sicché gli diede dieci dollari, e a quel punto disse: “Io lo so chi sei, tu sei quello che si faceva di crack.” Gran bel modo di essere ricordato. Gli chiesi dove fosse Marilyn e lui rispose che Marilyn era scomparso di punto in bianco: “Tipo, cioè, tipo già da un anno.” Non sapeva altro, e non gliene fregava niente.
Dopo circa un anno vidi un annuncio di nozze sul New York Times. Ammetto che quegli annunci – quelle che un tempo venivano chiamate le pagine sportive per signora – li setacciavano continuamente, e fin lì il massimo che avevo scoperto era la foto di qualche mio compagno di liceo o di università; finché un bel giorno vidi una foto che mi colpì. In realtà credo che a colpirmi, prima di tutto fu il nome – altrimenti penso proprio che la foto non mi avrebbe detto niente. MARILYN BERGDORF SPOSA RONALD DUBOWSKI. Sarebbe stato degno di Marilyn adottare come cognome il nome di un negozio chic. Guardai a lungo la foto, e, anche se non ci avrei giurato, pensai che la promessa sposa di Ronald Dubowski, dentista, do Oyster Bay, Long Island, fosse proprio il mio Marilyn – chirurgicamente rettificato, si presume. Avrei potuto telefonare, ma non lo feci.
Sicché non posso esattamente dire come quella notte abbia influito su Marilyn, se gli abbia cambiato la vita, se oggi Marilyn sia ufficialmente e anatomicamente donna, e neanche se sia ancora vivo. Quello che so è che una vita può cambiare nel volgere di una notte, anche se in genere ci vuole molto più di una notte per capire cosa sia successo, per avvertire il mutamento di direzione. Una settimana dopo che Marilyn aveva quasi fatto sesso con il padre mi ricoverai alla Phoenix House.7 Telefonai ai miei genitori per la prima volta da quasi un anno. Oggi, due anni dopo, ho un lavoro noioso e un appartamentino di quattro soldi e una fidanzata che mi fa sembrare tutto il resto quasi OK. Mentirei se dicessi che certe volte non ho nostalgia dei vecchi tempi, o che non tiro un lungo respiro di sollievo quando salgo sulla metropolitana dopo essere andato a fare una visita di qualche ora ai miei genitori, o che rigare dritto sia sempre uno splendore – ma comunque sono contento.
Credi di vivere una vita segreta e provvisoria, nascosta, immersa nel buio. Non immagini che prima o poi ci sarà qualcuno che ti si fermerà accanto con la macchina, o varcherà la soglia di casa tua, o si affaccerà al tuo finestrino – qualcuno che ti rivelerà a te stesso non come speri di essere in una metamorfosi futura e trionfale, bensì come sei davvero in quel preciso momento. E allora, qualunque cosa tu stia facendo ti conviene smettere e dire: “Sì, questo sono io.”


Note:
1 – Nell’originale queen, che significa anche “regina”, da cui il titolo che gioca su quello del famoso musical Il re e io. (N.d.T.)
2 – Il dissoluto erede di Enrico IV nell’omonimo dramma di Shakespeare. (N.d.T.)
3 – Uno dei maggiori distributori di caffè degli USA. (N.d.T.)
4 – Nell’originale – baby lambs, suckling pigs & kid goats – la corrispondenza con termini che evocano l’infanzia è decisamente più evidente, e quindi scabrosa. (N.d.T.)
5 – Nell’originale skirt steaks, che nell’accezione letterale puù valere anche come “filetto nella gonna”, da cui la battuta seguente. (N.d.T.)
6 – Letteralmente “Agnelli di Dio”. (N.d.T.)
7 – Uno dei più rinomati centri di recupero per tossicodipendenti. (N.d.T.)


(Tratto dalla raccolta Com’è finita, Bompiani, Torino, 2002, traduzione di Alberto Pezzotta)


Jay McInerney ha scritto il bestseller Le mille luci di New York (1986), cui hanno fatto seguito Riscatto (1987), Tanto per cambiare (1989), Si spengono le luci (1992), L’ultimo dei Savage (1996), Professione: Modella (1999), e Nudi sull’erba (2000), tutti pubblicati in Italia da Bompiani.



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