LA
REGINA E IO
Jay
McInerney
Mentre
la luce stanca si ritira di là del fiume verso i sobborghi
a ovest, il molo fatiscente alla fine di Gansevoort Street
comincia a fremere e a gemere di vita. Dall’interno di
un capanno col tetto di lamiera, esseri umani barcollano fuori
nel crepuscolo nebbioso, simili a pipistrelli che escano da
una spelonca. Dentro il capanno, affiora dall’oscurità una
collina bianca, le cui pendici sono disseminate di materassi,
coperte, sacchi a pelo, cartoni e fogli di compensato. Tra
gli abitanti di questo luogo circola l’implausibile
voce che la bianca mesa sia fatta di sale, quel
sale che un tempo, quando ancora c’erano fondi per i servizi municipali,
d’inverno veniva sparso sulle strade ghiacciate; attualmente
il capanno arrugginito funge da dormitorio per uomini e da
rifugio per ratti. Al tramonto gli ospiti del capanno si alzano
per andare al lavoro, arrancano fuori, per vestirsi e truccarsi
nell’ultima luce. Lungo la banchina, ai piedi della
superstrada, le lustre macchine di protettori e clienti attendono
accanto
agli ammuffiti furgoni di organizzazioni filantropiche religiose
o laiche, pronte a competere per i corpi e le anime del popolo
del molo.
Osservo tre travestiti1 spartirsi i servizi di uno
specchietto e di un rossetto cercando di sfruttare al meglio
la luce obliqua.
Uno dei tre si allontana di qualche passo creando un’intimità tutta
simbolica per tirarsi pudicamente su la gonna e fare una pisciata
torrenziale. Un altro accende la sigaretta e si raddrizza le
calze a rete. Il terzo è il mio amico Marilyn, regina
della Little West Twelfth Street. È il mio primo giorno
di lavoro nel ramo.
Un
paio di giorni prima mi ero imbattuto in Marylin al pronto
soccorso del St. Vincent Hospital. Era lì per la gengivite – gengive
sanguinanti e ritirate, conseguenza di malnutrizione e droga. È un
malanno tipico di chi batte la strada, una nuova credenziale
nella mia discesa verso l’autenticità. Marilyn
aveva una frattura al setto nasale, tre costole rotte e vari
ematomi, il tutto provocato da un cliente roso dai ripensamenti.
“
Credevo che avessi un protettore, Marilyn,” dissi, guardando
la vittima di uno scontro a fuoco sanguinare copiosamente su
una barella.
“
Il protettore me l’hanno ammazzato i colombiani,” disse
Marilyn. “Comunque quel bastardo non proteggeva un cazzo
di niente. Anzi, era il primo a pestarmi.” Marilyn rise
soffiando col naso, poi strinse gli occhi per il dolore. Quando
fu di nuovo in grado di parlare disse: “L’ultima
volta me l’ha rotto mio padre. Mi pestò a sangue
perché mi aveva beccato con addosso il vestito da sposa
di mia madre. Aveva aperto la porta di camera mia mentre io ero
lì che mi mettevo il rossetto. Mi pestò come una
biscia, continuava a urlare che ero un lurido maricón
e che lui non voleva un figlio maricón. Il ragazzo di
ieri sera era grosso come lui, un ragazzone del New Jersey, tutto
muscoli. Quando abbiamo finito ha cominciato a picchiarmi, gridando
che ero un finocchio. Ce n’è un sacco che fanno
così, che non gli piace quello che vogliono.” “Ehi,
amico,” disse guardandomi con improvvisa curiosità, “perché non
me lo fai tu il protettore? Ti do cinque dollari a cliente.”
Il fatto che quell’offerta suscitasse immediatamente la
mia massima attenzione dovrebbe dare un’idea abbastanza
fedele di quali fossero in quel periodo le mie prospettive. In
sostanza ero stato appena reso disoccupato da un altro colombiano
assassino, e dormivo nei giardinetti di Abingdon Square. Fino
a un paio di giorni prima spacciavo coca davanti a un bar sulla
Thirteenth, ma poi i colombiani mi avevano massacrato il fornitore,
e mi ero ritrovato senza contatti. Prima ancora lavoravo in un
complesso, ma il batterista era morto per overdose, e il bassista
si era trasferito a Los Angeles.
Quando avevo conosciuto Marilyn abitavo in uno scantinato nel
Meat District. Marilyn lavorava di notte, e io stavo alzato per
spacciare coca o crack e cercando di scrivere. Di base io scrivo
testi per canzoni, cioè sono un poeta. Dentro di me c’è sempre
una splendida brutta musica, che echeggia su dal profondo della
mia mente. Quando cammino per strada o quando spaccio davanti
ai bar mi capita di sentire all’improvviso e come in lontananza
dei brani di questa musica, che affiorano sulla base ritmica
subliminale del pulsare urbano. Nei momenti di massimo trasporto,
cioè quando sono bello carico di crack o anche solo di
vino da quattro soldi, io e la mia musica siamo perfettamente
sintonizzati. Certe volte ho la certezza assoluta che basterà un’altra
boccata, un altro sorso, e ne afferrerò l’essenza
per portarla con me sull’altra sponda. Esteta del brutto,
come il Principe Hal2 mi rotolo nel fango aspettando il mio momento,
in attesa di sorgere come un fottutissimo sole.
Profugo dei sobborghi a ovest del fiume, da ragazzo bigiavo la
scuola per venirmene in città con l’autobus. Bazzicavo
St. Mark’s Place e la Bowery, cercando di assumere atteggiamenti
e pose da teppista, scoprendo Bukowski e i Beat nelle librerie.
Tornare alla borghese mediocrità del New Jersey era imbarazzante.
Lì il terreno era troppo sterile per l’arte. Concimata
a bucce di pompelmo anziché a letame, lì non poteva
allignare nessuna poesia. Confuso dalle mie origine né alte
né basse, sognavo torbidi bassifondi e bar fumosi. Ero
convinto che le brutture dell’infimo mi avrebbero condotto
al culmine della consapevolezza, ero convinto che per concepire
la bellezza fosse necessario giacere con la bruttezza. Ormai
sono anni che ci giaccio. E finora non ne è nato un accidente
di niente. Come dice Dylan: Un giorno tutto sarà diverso,
/ Quando avrò dipinto il mio capolavoro. sarò ricco
e famoso, mi immortaleranno accanto a modelle che improvvisamente
mi avranno scoperto incredibilmente attraente – Dio
santo, ma dove ti sei nascosto per tutta la nostra breve e sciocca
vita
da bipedi dalle lunghe gambe? – e mi farò un sacco
di droghe da ricchi e mi comporterò malissimo e rovinerò la
mia promettente carriera e finirò daccapo qui nella fogna.
E su tutto ciò scriverò un ciclo di canzoni struggenti.
Versi di straordinaria sensibilità, talora tragici.
Marilyn è cresciuto nella Harlem latino-americana; si
chiamava Jesus ed era un delicato bimbo i cui lineamenti fini
avevano tutto il potenziale per farne un gran pezzo di fica.
Sogna di sposarsi e di vivere il tipo di vita che ho avuto io
da piccolo. Solo che vuole farlo da donna. La notte lo vedo lanciare
al di là dell’Hudson e verso le fioche luci del
New Jersey suburbano quegli stessi sguardi sognanti che lanciavo
io dalla sponda opposta verso le luci di Manhattan. Sogna un
trivani da pulire e lustrare, aspettando il ritorno a casa di
un marito che lavori in città. Sull’altra sponda
del fiume, di rimpetto al molo di Gansevoort, si staglia un enorme
manifesto della Maxwell House,3 e Marilyn una volta
mi ha detto che quando si sveglia, cioè alla fine della
giornata di lavoro dell’americano medio, gli tornano in
mente le canzoncine delle pubblicità della Maxwell House
che vedeva da bambino, e sogna di preparare una tazza di caffè per
un maritino ancora assonnato.
Il medico che gli pratica le iniezioni di ormoni sostiene che
più della metà dei – come chiamarli? – delle
persone che si sottopongono all’operazione riesce a sposarsi,
e che più della metà di quella metà riesce
a tenere nascosta al marito la propria precedente esistenza da
maschio. Personalmente lo trovo un filino difficile da credere.
Invece Marilyn ci crede, e fa economie per potersi permettere
l’operazione.
Il povero Marilyn, con il suo muso pesto. Nel suo lavoro è fondamentale
poter respirare col naso. Decido di accettare la sua proposta.
Chissà, magari ci esce una canzone. E tra l’altro
sono in bolletta.
Sicché quando il sole sparisce dietro il fiume mentre
le mucche ritornano nella stalla e gli uomini si trascinano verso
casa dalle loro mogli, eccomi arrancare verso il Meat District
in compagnia di un Marilyn in calze a rete e minigonna in vinile
verde e arioso top nero. La regina e io.
“
Come mi trovi, tesoro?” mi chiede Marilyn.
“
Uno splendore,” rispondo.
“
Questo è il mio look Madonna. Con i giovanotti del New
Jersey va alla grande.”
A questo punto avrete senz’altro capito che attualmente
Marilyn è biondo.
Il tanfo si fa più intenso a mano a mano che ci avviciniamo
a Washington e Gansevoort, cioè alla zona operativa di
Marilyn – magazzini pieni di carne di ogni tipo, il cui
predominante tanto di putrefazione è inestricabilmente
collegato nella mia mente alla puzza di urina ed escrementi e
sperma. Su un’insegna leggo: SPECIALISTI IN CARNI DI VITELLO – AGNELLINI
DA LATTE, LATTONZOLI DI MAIALE, CAPRETTI. Ehi! Suona leggermente
illegale, non so se mi spiego.4
Con l’avanzare del buio sta avendo luogo una lenta e sinistra
metamorfosi. Camion refrigerati si staccano dai ponti di carico
mentre uomini sgraziati in grembiuli insanguinati tirano giù saracinesche
catarrose e sbarrano porte scorrevoli. L’opprimente lezzo
della carne aleggia sul quartiere e, quando la brezza soffia
verso est dal Hudson, si infiltra negli appartamenti alla moda
e nei bar del Greenwich Village – che poi è l’unica
cosa di buono che si possa dire di quel tanfo. Mentre i camion
scompaiono verso il New Jersey e poi su a nord, strane creature
vanno materializzandosi sui marciapiedi usurati, quasi che fossero
spontaneamente generate dalla carne putrescente. Il bilico su
tacchi a spillo, ancheggiante nelle movenze esagerate del corteggiamento,
una razza di bipedi dinoccolati e stilizzati si impadronisce
degli angoli delle strade. Esibiscono labbra e lombi a qualsiasi
macchina passi a qualsiasi ora della notte – poiché la
zona non si trova su nessuna rotta precisa, tranne quella per
l’inferno o per Hoboken. I guidatori che arrivano sin qui
lo fanno solo per poi rallentare lungo le strade semibuie e acciottolate,
avanti e indietro per scrutare le sirene del marciapiede. Di
tanto in tanto una macchina si ferma accanto a una delle figure
in posa, che a quel punto si china sul finestrino per rispondere
a domande, per civettare e mercanteggiare, e talvolta passa dall’altro
lato e monta in macchina, per poi riapparire qualche minuto più tardi.
Le “ragazze” di Washington Street sono di tutte le
taglie, di tutti i colori e di tutte le forme di naso; e con
questa luce ce n’è di non del tutto inguardabili.
Una, mentre una Toyota targata Connecticut le scivola davanti,
si solleva il top per mettere in mostra un paio di sodi seni
candidi. È difficile credere che qualcuno di questi tizi
che contrattano per cinque minuti di sesso siano e rimangano
convinti che si tratti di sesso normale. Se fossi in voi, gentili
amiche, non ci conterei molto. Se oggi o domani il vostro fidanzato
venisse beccato dalla polizia in questa zona, fareste bene a
pensare di disdire banda, rinfresco e dolce. Probabilmente questi
signori sono bravi ragazzi, se non tutti, la maggior parte. E
finché indumenti e trucco restano al loro posto, nessuno è tenuto
a interrogarsi sulle proprie reali inclinazioni. Di tanto in
tanto la polizia fa una retata, per onorare la quota prestabilita
di arresti; quasi sempre i clienti i cui piacere venga interrotto
da un improvviso e ufficiale bussare al finestrino affettano
stupore e sdegno quando gli agenti sottolineano il sesso dei
loro partner con una scherzosa pacca all’inguine o con
un non tanto scherzoso strattone alla gonna.
La clientela è quantomeno varia. C’è chi
arriva in limousine e chi in Chevrolet, chi in Jaguar e chi in
Toyota. Ogni volta che un certo omofobico e superfamoso attore
di Hollywood viene a New York – trattasi di comico noto
per le sue tirate oscene contro le comunità gay e femministe – la
sua limousine bianca non manca mai di fare una capatina in Washington
Street nelle prime ore del giorno.
Prendo posizione sotto una tettoia metallica semidistrutta, mezzo
nascosto nell’ombra, mentre Marilyn tira fuori il portacipria
per controllare la mercanzia. Aggrotta la fronte. “Quel
maledetto sale mi rovina la pelle. A furia di dormire ogni notte
su una montagna di sale ho la pelle tutta secca. Persino ai topi
non gli va di dormire sul sale.” Mi chiedo se i topi si
preoccupino per la propria pelle. Nel frattempo, sul ciglio della
strada, Marilyn adotta una posa mutuata da un video di Madonna.
Poco più in là c’è Randi, che dice
di aver fatto parte degli Harlen Globetrotters. Top di pelle
nera, minigonna delle nera, tacchi a spillo, il metro e novanta
di Randi si staglia sotto un’insegna che recita: FRANKS
SALAME MORTADELLA SALSICCE DI FEGATO & BISTECCHE DI SOCCOSCIO.5 Verità della pubblicità.
In fondo alla Gansevoort, alla fine del Meat District, l’insegna
di un ristorantino alla moda diffonde un alone rosa. Quanto mi è remoto
quel posto dove le teste di cazzo con cui ho fatto l’università si
scolano cocktail colorati e discutono di titoli e di maneggi
aziendali! Gente tipo il mio ex-migliore amico George Bing, che
sognava di diventare poeta e adesso lavora per un’agenzia
pubblicitaria in centro. Alla New York University dormivamo nella
stessa stanza, prima che alla fine del secondo anno piantassi
gli studi perché non li ritenevo alla mia altezza. Dopo
la laurea di George siamo andati spesso a bere al Lion’s
Head o al Whitehorse, dove lui si sentiva scendere di livello
e io invece un intruso tra le alte sfere. La prima volta che
ci era entrato – da matricola, barando sugli anni grazie
a una tessera fasulla di un emporio sulla Forty-second Street – non
aveva fatto altro che dirmi quant’era eccitato per il fatto
che fossimo seduti praticamente nello stesso posto dov’era
morto Dylan Thomas; ma poi, gradualmente, con l’andar del
tempo aveva deciso che il bardo gallese aveva sprecato in maniera
ignobile il proprio talento. “Cioè, con questo non
voglio dire”, concedeva George, “che non fosse un
grande, ma che c’è di male a badare alla propria
salute, ad avere una bella casa, a mangiar bene e, mettiamo,
a scrivere slogan per la Procter & Gamble tra un tormento
poetico e l’altro?” E io, che cercavo di comportarmi
bene, annuivo come un deficiente mentre smaltivo qualcosa che
avevo appena fumato o tirato e speravo che il barman non si ricordasse
di quando mi aveva sbattuto fuori tre mesi prima. Poi credo proprio
che la cosa fosse diventata imbarazzante per entrambi. Sicché avevo
smesso di telefonargli – non avendo telefono usavo come
derivazione personale la cabina tra la Hudson e la Twelfth. E
smettere di fingere era stato un gran sollievo.
Poco più avanti in Washington Street un trio di barboni
sta accendendo un fuoco in un bidone della spazzatura, nonostante
sia una notte calda e afosa, con l’asfalto e il cemento
che sprigionano tutto il caldo immagazzinato durante il giorno,
arrostendoci tutti come se fossimo ulteriori quarti di carne.
Dopo qualche anno di vita in strada, diventa impossibile liberarsi
dal freddo accumulato: l’inverno ti resta nelle ossa anche
durante l’estate più rovente, e ci resta per sempre,
come una cicatrice. Tant’è che i barboni indossano
cappotto e scarponi anche in pieno agosto. Così non gli
tocca cambiare guardaroba per l’inverno. Ne basta uno per
tutte le stagioni.
Per conto mio, grazie mille, ma sto benissimo con la mia maglietta
nera e il giubbotto jeans, che tra l’altro mi fa anche
da coperta. Tanto, me ne sarò andato dalla strada ben
prima che il freddo fotta pure me. Cioè quando avrò dipinto
il mio capolavoro. Franks salame mortadella.
Una Nissan rossa rallenta e si ferma. Marilyn si avvicina al
finestrino e scambia qualche parola con il guidatore, poi si
volta e mi fa segno di uscire dalla mia tana. Sbuco dall’ombra
in tutta la minacciosità del mio aspetto lugubre ed emaciato,
faccia bianca come la luna e capelli tinti di nero corvino, denti
giallastri e gengive sanguinolente. Marilyn fa il giro e monta
in macchina dal lato passeggero. La Nissan va a fermarsi a mezzo
isolato da lì, dove io possa tenerla d’occhio. Poco
più in là, un barbone parcheggia sul marciapiede
il suo straripante carrello da supermercato e sbircia dalla vetrata
del ristorantino i ricchi che si abbuffano di bistecca e patatine
fritte.
Dopo qualche minuto, Marilyn torna dal suo appuntamento, rassettandosi
la minigonna e controllandosi nello specchio del portacipria,
come un’indossatrice. È così che li chiama:
i suoi appuntamenti. Mi spiaccica nel palmo della mano una banconota
da cinque dollari, bagnata. Vorrei scollarmela dalla mano, appallottarla
e scagliarla nella cunetta fetida, ma offenderei Marilyn, che è tutto
eccitato per esser tornato al lavoro e sta facendo programmi
per il futuro. Parla di quando si sarà operato, parla
di quando si sposerà e si trasferirà nel New Jersey.
Avrei una gran voglia di prenderlo a schiaffi e fargli capire
che il New Jersey è la patria dei morti viventi, che non è un
posto reale, come invece è reale la fiabesca vita che
stiamo vivendo qui in Gansevoort Street, che la carne delle loro
allegre grigliate a Morristown viene dritta dai magazzini tra
i quali impavidamente ci aggiriamo.
Per fortuna che almeno si risparmierà il dramma di avere
uno di quei figli sedicenti alternativi che crescono odiando
e disprezzando la propria madre perché la accusano di
essere una moglie noiosa e sottomessa al marito.
A mano a mano che la notte avanza, il lavoro aumenta, e io comincio
quasi ad abituarmi alla stratificazione del tanfo, alle varie
ottave di putrefazione. I barboni che trincavano intorno al falò si
sono sbronzati fino a svenire, e il fuoco langue un po’ e
poi si spegne del tutto. Faccio un salto nella Hudson e compro
una bottiglia di brandy di more per mantenermi acceso il motore.
Incrocio uno spacciatore che mi offre coca, crack e fumo. Dapprima
penso: No, sono in servizio; ma poi, la seconda volta che mi
passa davanti, ho in tasca venti dollari di provvigioni di Marilyn,
sicché compro una pietruzza e la accendo, e la pietruzza
mi sgranchisce il cervello, mi fa sentire virtuoso e potente – eccomi
qua, mi sento un dio, sono di nuovo in piedi e il futuro è mio,
se soltanto potessi farmi un’altra fumatina di questa roba
eviterei di scivolare indietro , mi basterebbe una boccata, giusto
per fermare questo dissolvimento, questo cader giù dall’istante
perfetto che era proprio qui neanche un minuto fa, per cogliere
quella perfetta melodia nel profondo del mio cervello, quel capolavoro.
Franks mortadella ecc. La botta è filata via come un bel
ficone che al bar ti dice: Torno subito, giuro. Lasciandomi solo,
terribilmente solo e a pezzi. Dove cazzo è finito il pusher?
Verso le quattro si accentua l’affluenza al ristorantino:
i locali chiudono, e taxi gialli arrivano e scaricano lì davanti
vagonate do mondanoni nerovestiti, bambocci e fighette alla moda
che non sono ancora pronti per la ninna. Mi procuro un cosiddetto
quartino di presunta coca e me lo tiro tutto in una volta augurandomi
che mi porti più in là e più lentamente
delle pietre fumanti.
Fin qui gli appuntamenti di Marilyn sono già undici, una
sfilata di pervertiti in rappresentanza di svariate classi ed
etnie – compresi: un gioielliere hasidico, le cui trecce
ritorte dondolano avanti e indietro mentre sgroppa verso l’orgasmo
sul sedile anteriore della sua Lincoln nera, un operaio edile
in Subaru targata New Jersey e con ancora l’elmetto protettivo
in testa, un tizio in limousine che dichiara a Marilyn di lavorare
nel cinema e gli dà una mancia di venti dollari.
Il furgone dei Lambs of God6 si avvicina e ci si ferma accanto.
Il prete al volante guarda Marilyn e gli dice: “Buongiorno,
Marilyn.” Poi mi vede sbucare dalla mia ombra vampiresca;
sembra stupito, e non necessariamente contento.
“
Salve, Padre,” dice Marilyn. “È in cerca di
un po’ di spasso?”
“
No, volevo solo accertarmi che tu... che non ti servisse niente.”
“
Tutto a posto, grazie, Padre. E a lei, serve qualcosa?2
“
Che Dio ti benedica, figliolo, e fa’ attenzione.” Il
prete accelera e va via.
“È
proprio carino quel prete, peccato che sia timido,” dice
Marilyn con tono di disappunto. “Mi sa che l’hai
spaventato.”
“
Il buon pastore,” dico io.
“
Una volta ho passato la notte all’ostello del Lambs of
God, e lui non mi ha chiesto niente,” dice Marilyn – e
lo dice come se descrivesse un’eroica dimostrazione di
abnegazione sacerdotale. “E l’indomani mattina si è limitato
a darmi un pizzicotto mentre uscivo. Tra l’altro in quel
posto si mangia benissimo.” Guardiamo una macchina che
passa lentamente, con il guidatore che ci scruta dietro gli occhiale
da sole. Sembra che si voglia fermare, ma poi sgomma e sfreccia
verso il fiume. Dopo una lunga pausa, Marilyn dice: “Il
mio primo cavaliere è stato un prete, tanto tempo fa,
quando facevo il chierichetto. Mi diede da bere del vino della
messa.”
“
Che cosa romantica,” dico io, e nel frattempo ripenso ai
miei trascorsi da chierichetto, in un’altra vita. Terrorizzato
dalla quotidiana prossimità ai sacri riti, non fumavo,
non dicevo cattive parole e confessavo tutti i miei pensieri
impuri al prete in fervida attesa dietro la grata, finché quei
pensieri si trasformarono in atti, un pomeriggio sul divano di
Mary Linch, atti che trascurai di menzionare in occasione della
mia successiva confessione. Allontanandomi dal confessionale
mi sentii gravato dalla colpa dei dannati, ma, quando nei giorni
e nelle settimane che seguirono vidi che il fulmine divino non
mi inceneriva, cominciai a sospettare dell’entità del
mio peccato, poi a dubitare di quella fede che era così violentemente
in contrasto con la mia natura segreta, e infine mi esaltai nella
ribellione. E quando mi staccai della mia famiglia e dalla Chiesa
creai il mio culto personale, quello dell’adorazione dei
tabù. Fede perversa che mi ritrovo a praticare con accanimento
qui e adesso, alle cinque del mattino all’angolo tra Gansevoort
e Washington.
Un’altra macchina transita lentamente, una Buick cadente
con dentro due tizi. Quando sono in due il rischio aumenta, sicché decido
di trattare direttamente io. Dico a Marilyn di restarsene dov’è,
e mi avvicino alla macchina, che nel frattempo s’è fermata.
A quanto pare il finestrino non funziona, sicché il guidatore
deve aprire lo sportello. Sono due latino-americani sulla cinquantina. “Venticinque
a testa,” dico, accennando col capo a Marilyn. “E
senza allontanarsi da quest’isolato.” Dopo una breve
trattativa ci accordiamo per trentacinque in due.
Faccio segno a Marilyn, che si avvicina e sale dietro, e nell’istante
preciso in cui, tornato ad appoggiarmi al mio muro preferito,
mi sto accendendo una sigaretta, Marilyn schizza fuori dalla
macchina urlando e incespicando, mentre la Buick sgomma stridendo
sul selciato. Marilyn si butta tra le mie braccia, in lacrime.
“
Es mi padre,” singhiozza. “Mi padre.”
“
Padre nel senso di prete?” chiedo io, speranzoso.
Lui scuote il capo contro la mia spalla, e improvvisamente si
stacca e comincia a scusarsi per avermi sporcato di trucco il
giubbotto, e si mette a sfregare la stoffa, senza smettere di
piangere. “Ti ho rovinato il giubbotto,” dice singhiozzando
istericamente. Cerco di convincerlo che del giubbotto non me
ne frega un cazzo e che comunque era già sporco di suo.
“
Sei sicuro che fosse... lui?” gli chiedo.
Cercando di riprendere fiato, Marilyn annuisce con forza. “Non
lo vedevo da tre anni,” dice. Sta piangendo e tremando,
e io stesso sono alquanto sconvolto. Cioè, porca puttana.
Poi, quando finalmente si calma, gli suggerisco di fare una sosta.
Gli faccio bere il brandy che è rimasto, e poi, con lui
sottobraccio, mi incammino verso il molo nella grana grigiastra
dell’alba. Quando il sole sorge alle nostre spalle ci trova
immobili in fondo al molo, che guardiamo l’insegna della
Maxwell House al di là del fiume. Non riesco a trovare
niente da dire. Gli passo un braccio in torno alla vita, e lui
mi appoggia la testa sulla spalla e tira su col naso. Visti da
lontano potremmo sembrare una coppietta come tante. Dopo un po’ gli
consiglio di dormirci su, e lui si allontana verso la montagna
di sale. Fine della mia carriera di protettore.
Un
anno dopo tornai lì a cercare Marilyn. La maggior parte
delle ragazze che trovai non le conoscevo, ma poi vidi Randi,
l’ex Globetrotter, che dapprima non mi riconobbe. Ero
cambiato parecchio. Pensava che fossi un piedipiatti, poi pensò che
fossi un giornalista. Disse che avrebbe risposto in cambio
di un regalino, sicché gli diede dieci dollari, e a
quel punto disse: “Io lo so chi sei, tu sei quello che
si faceva di crack.” Gran bel modo di essere ricordato.
Gli chiesi dove fosse Marilyn e lui rispose che Marilyn era
scomparso di punto in bianco: “Tipo, cioè, tipo
già da un anno.” Non sapeva altro, e non gliene
fregava niente.
Dopo circa un anno vidi un annuncio di nozze sul New York Times.
Ammetto che quegli annunci – quelle che un tempo venivano
chiamate le pagine sportive per signora – li setacciavano
continuamente, e fin lì il massimo che avevo scoperto
era la foto di qualche mio compagno di liceo o di università;
finché un bel giorno vidi una foto che mi colpì.
In realtà credo che a colpirmi, prima di tutto fu il nome – altrimenti
penso proprio che la foto non mi avrebbe detto niente. MARILYN
BERGDORF SPOSA RONALD DUBOWSKI. Sarebbe stato degno di Marilyn
adottare come cognome il nome di un negozio chic. Guardai a lungo
la foto, e, anche se non ci avrei giurato, pensai che la promessa
sposa di Ronald Dubowski, dentista, do Oyster Bay, Long Island,
fosse proprio il mio Marilyn – chirurgicamente rettificato,
si presume. Avrei potuto telefonare, ma non lo feci.
Sicché non posso esattamente dire come quella notte abbia
influito su Marilyn, se gli abbia cambiato la vita, se oggi Marilyn
sia ufficialmente e anatomicamente donna, e neanche se sia ancora
vivo. Quello che so è che una vita può cambiare
nel volgere di una notte, anche se in genere ci vuole molto più di
una notte per capire cosa sia successo, per avvertire il mutamento
di direzione. Una settimana dopo che Marilyn aveva quasi fatto
sesso con il padre mi ricoverai alla Phoenix House.7 Telefonai
ai miei genitori per la prima volta da quasi un anno. Oggi, due
anni dopo, ho un lavoro noioso e un appartamentino di quattro
soldi e una fidanzata che mi fa sembrare tutto il resto quasi
OK. Mentirei se dicessi che certe volte non ho nostalgia dei
vecchi tempi, o che non tiro un lungo respiro di sollievo quando
salgo sulla metropolitana dopo essere andato a fare una visita
di qualche ora ai miei genitori, o che rigare dritto sia sempre
uno splendore – ma comunque sono contento.
Credi di vivere una vita segreta e provvisoria, nascosta, immersa
nel buio. Non immagini che prima o poi ci sarà qualcuno
che ti si fermerà accanto con la macchina, o varcherà la
soglia di casa tua, o si affaccerà al tuo finestrino – qualcuno
che ti rivelerà a te stesso non come speri di essere in
una metamorfosi futura e trionfale, bensì come sei davvero
in quel preciso momento. E allora, qualunque cosa tu stia facendo
ti conviene smettere e dire: “Sì, questo sono io.”
Note:
1 – Nell’originale queen, che significa anche “regina”,
da cui il titolo che gioca su quello del famoso musical Il
re e io. (N.d.T.)
2 – Il dissoluto erede di Enrico IV nell’omonimo
dramma di Shakespeare. (N.d.T.)
3 – Uno dei maggiori distributori di caffè degli
USA. (N.d.T.)
4 – Nell’originale – baby lambs, suckling pigs & kid goats – la corrispondenza con termini che evocano l’infanzia è decisamente
più evidente, e quindi scabrosa. (N.d.T.)
5 – Nell’originale skirt steaks, che nell’accezione
letterale puù valere anche come “filetto nella gonna”,
da cui la battuta seguente. (N.d.T.)
6 – Letteralmente “Agnelli di Dio”. (N.d.T.)
7 – Uno dei più rinomati centri di recupero per
tossicodipendenti. (N.d.T.)
(Tratto
dalla raccolta Com’è finita, Bompiani, Torino,
2002, traduzione di Alberto Pezzotta)
Jay
McInerney ha scritto il bestseller Le mille
luci di New York (1986), cui hanno fatto seguito Riscatto (1987), Tanto
per cambiare (1989), Si spengono le luci (1992), L’ultimo dei Savage (1996), Professione:
Modella (1999),
e Nudi sull’erba (2000), tutti pubblicati in Italia
da Bompiani.
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