I
RITI DI UNA MADRE
Polly
Tropos
Questo è il
diario della mia vita in questo momento. Non è niente
di speciale, davvero, niente di cui scrivere a casa o a nessun
altro se è per questo. Perché si sta svolgendo
ovunque, letteralmente in ogni borgo, ogni paese, ogni città,
in ogni angolo del globo. Conoscete quei video amatoriali di
cinque minuti real TV fatti da gente comune sulla propria vita?
Bene, questo è uno di quelli, solo che è fatto
di parole, così dovete metterci voi le immagini e il
mio aspetto. Sono esattamente come chiunque, o più precisamente,
come la madre di chiunque.
Ho appena intravisto una gazza spiccare il volo da un albero
mentre passo attraverso i campi da gioco, e trattengo il respiro,
e poi ne arriva dietro un’altra più piccola, e mi
si apre il cuore – ‘due porta bene’, il primo
verso è troppo sinistro (1) da dire a voce alta. Non ero
superstiziosa prima di avere figli. Mentre cresceva la mia fiducia
nel mio istinto e nel mio intuito, cresceva anche la consapevolezza
del mondo occulto dei simboli e delle coincidenze. Quell’altro
mondo è sempre lì, a disposizione di coloro che
ascoltano, ma è solo dopo che hai un figlio che l’ascolto
diventa una cosa seria.
Questa passeggiata quotidiana tra i campi da gioco per andare
alla loro scuola in effetti è parte integrante del viaggio
della mia vita. Mi è così familiare che potrei
farla ad occhi chiusi, e la farò due volte al giorno,
cinque giorni alla settimana, per trentasei settimane all’anno,
prendere o lasciare, per i sette anni fino a che non andranno
alla scuola secondaria. Ho calcolato che farò questo percorso
avanti e indietro tra casa e scuola duemilacinquecentoventi volte.
Ogni viaggio dura approssimativamente venti minuti, per un totale
di 840 ore di andare a portare e a riprendere. Solo la danza
circolare delle stagioni e delle ricorrenze di Halloween, Guy
Fawkes (2), Natale, Pasqua e ultimo giorno di scuola segnano
i piccoli passi nel ripetersi del rituale sulla strada della
separazione. È un rito d’amore e al tempo stesso
un sacrificio umano, e a volte mi sento santa, martire e vittima
insieme.
Ricordo un altro viaggio simile. Era circa sei anni fa, prima
di imparare a guidare, e così portavo la mia bambina di
due anni e mezzo sul passeggino e la piccolina, ma ben piantata,
nello zaino. Dovevo essere proprio ridicola da vedere allora – una
donna alta, magra, dall’aria stanca, curvata in avanti
per spingere ma contemporaneamente con la testa piegata all’indietro
mentre la piccola di sei mesi mi tirava con forza i capelli.
In questo modo partivo due volte al giorno dalla casa a schiera
vittoriana alta e stretta, su una via di case tutte molto simili.
Alcune case tentavano delle lievi differenze che denunciavano
la contemporaneità degli individui a un’antenna
satellitare, un tetto con tegole spagnole rosse, un giardino
pavimentato. Andavamo all’asilo di mia figlia, in un istituto
vittoriano che era precedentemente stato una scuola maschile,
ed è ora una scuola d’arte per adulti.
Ricordo l’itinerario come se l’avessi fatto soltanto
ieri, mentre in realtà sono molti anni che noi tre lo
ripercorriamo. Oggi siamo abituati all’assenza di fatica
dei viaggi in auto – oltrepassare odori, gente, luoghi
in una remota dimensione priva di coinvolgimento, così da
sembrare un film sulla strada proiettato troppo in fretta per
capire tutta la storia che viene messa in scena là fuori.
Com’è diverso da allora, quando ogni viaggio era
un’avventura, una possibilità e una riscoperta delle
cose piacevolmente familiari: il maialino di pietra rosa in Montpelier
Grove, lo splendore gotico delle guglie appuntite di Nostra Signora
Soccorso dei Cristiani in Lady Margaret Road. Di quando in quando
la mia bambina più grande s’incantava a guardare
un corteo di carri funebri all’ingresso decorato della
chiesa. Assaporando il terrore, indicava solennemente e diceva
ad alta voce “morto”. E poi via in Leverton Street
con i suoi piccoli cottage dipinti in una sinfonia di colori
pastello, viola, verde menta, azzurro cielo e rosa, a evocare
quello che dovrebbero essere – anche se non lo sono – le
vie acciottolate di pittoresche città di mare come Mousehole.
Fanno comunque allegria, come se da un momento all’altro
si vedesse volteggiare l’ombra curva di un gabbiano su
questa via stretta verso il mare di traffico all’intersezione
di Leighton Road e Kentish Town Road.
Poi attraversavamo il ponte della ferrovia dove io non le prendevo
su per far loro vedere i grandi treni che rombavano via in direzione
degli squallidi sobborghi. Le paure notturne di una madre erano
troppo forti anche alla luce del giorno, di cadute e distanze,
e metallo e velocità e inarrestabile fragore e dolore.
Tuttora mi sveglio sudata, ascelle, collo, seni madidi di angoscia.
Passavamo in fretta oltre i barboni sulle panchine. Ci sorridevano,
chiamavano a gran voce le bambine, si mettevano in piedi barcollando,
e puzzavano di whisky e urina, e avvicinavano troppo le facce,
rese gommose dall’alcool e dal catarro e dalla vita dura.
Non era una vista per bambini. E poi si passava il Caffè italiano,
dove sentivo lo stomaco stringersi in risposta al caldo triangolo
dell’aroma del cappuccino e dell’attesa di una difficile
separazione dalla mia primogenita. Lei a questo punto si sedeva
ben indietro nel suo passeggino, consapevole del suo stesso timore
misto al piacere di ciò che l’aspettava. Braccia
aggrappate, lacrime di separazione, l’eccitazione di colore,
sabbia, gioco, poesia, altre persone di cui fidarsi. Sentivo
il suo piccolo corpo riluttante eppure desideroso contro il mio
braccio che la spingeva. Infine oltrepassavamo un campo giochi
in cemento con bambini di scuola elementare che gridavano – che
grandi e diversi dalla mie due tenere creature – ed arrivavamo
al cancello dell’asilo.
Ora sono entrambe bambine di scuola elementare che gridano, e
io sono diventata una di quelle madri nel campo giochi che guarda
le madri dei neonati e dei piccoli con uno strano miscuglio di
invidia e compassione. Ci sono passata anch’io, so quanto
può essere odioso, ma voglio dire loro quanto gli mancherà tutto
questo quando sarà finito, e i loro figli diventeranno
troppo grandi da portare in braccio e troppo indifferenti alle
coccole. Ma non lo faccio non volendo essere la messaggera del
destino che sento di essere diventata dentro di me.
Farina di grano, olio vegetale e olio idrogenato, zucchero, latte
biologico scremato, sciroppo di zucchero parzialmente invertito…tiro
su col naso. Ora scorro il pacchetto alla ricerca di tracce di
cibo geneticamente modificato, ora piango in silenzio sulla mia
lista della spesa accartocciata, così piano che soltanto
un bambino su un passeggino se ne accorge e mi scocca un’occhiata
di penetrante riconoscimento. Che cosa riconosce, il dolore o
gli inizi della frammentazione? Rabbia infantile repressa o avanzata
angoscia da separazione? Gli scaffali dei cereali e biscotti
al Waitrose sono un improbabile scenario per una donna di trentanove
anni che mette in scena la sua tragedia privata. Ma nel mio caso è il
posto ovvio, la mise en scène per il mio dramma. I miei
vari ruoli di madre, moglie, donna delle pulizie, giardiniera,
cuoca, lavandaia, infermiera, addetta agli animali domestici,
tuttofare e assistente nei casi di necessità (per non
parlare dei ruoli meno concreti ma ugualmente vitali di educatrice,
narratrice di storie, cronista di famiglia, segretaria sociale,
litografa) richiedono una visita settimanale a questo immenso
magazzino di materiale di sostegno, e le ore che passo a curiosare
tra le scaffalature piacevoli e pulite sono tra le più appaganti
e dense di riflessioni tra le mie repliche pomeridiane e serali.
Qual è il mio problema, comunque? Stavo bene stamattina,
gestendo la solita mezz’ora caotica della colazione con
calma e allegra rassegnazione, perdendo la pazienza solo quando
eravamo quasi fuori dalla porta e dovemmo aspettare che Mona
andasse a prendere la spugna naturale in bagno per ‘mostra
e racconta’. Soltanto al ritorno da scuola, dopo aver salutato
con un bacio due tenere bocche, ebbi l’improvvisa certezza
che dovevano esserci dei peli pubici sulla spugna – non
la usava forse mio marito Sam di fretta nella doccia tutte le
mattine? – e mi sono maledetta per non aver pensato di
controllare. Forse questo si è aggiunto alla mia depressione – certamente
la telefonata di un ricercatore di Amici animali mezz’ora
dopo non ha giovato. Anche se vedevo il lato comico, una volta
che li ho convinti che c’era stato un errore e che non
potevamo assolutamente offrire una casa adatta a Ben, il cavallo
da tiro della puntata della scorsa settimana, non in una casa
a schiera a Tufnell Park con giardino interno. Dovrò chiarire
la cosa con Amy stasera. Forse dovremmo riprendere in considerazione
le lezioni di equitazione, anche se la spesa e il viaggio ci
hanno scoraggiato l’ultima volta che ne abbiamo discusso.
Tuttavia mi sento assolutamente fragile e non posso incolpare
nessuno dei soliti sospetti: il marito all'estero per affari,
sindrome premestruale, montagne di rinunce al divertimento, affaticamento
da monotonia domestica lobotomizzante. Le cose non vanno male
al momento, i postumi di una settimana di oziose vacanze pasquali
sono ancora relativamente freschi, e la lunga estate di vacanze
con le sue promesse di mare è alle porte.
Nonostante scolasticamente siamo a metà del trimestre
estivo, per me Londra in maggio è nel pieno rigoglio della
primavera, la mia stagione preferita, piena di anticipazioni
e promesse. Nonostante ricordi bene le parole “maggio va
adagio”, la scorsa settimana scovai in fondo all’armadio
un paio di gonne di cotone, e una sera in bagno, buttando l’occhio
sul rasoio di Sam sulla mensola, sentii il bisogno urgente di
ascelle e polpacci senza peli. L’articolo di una rivista
sosteneva che il germe di grano è ottimo per la pulizia
a fondo del viso e, nonostante mi sentissi stupida a portare
il barattolo dalla cucina al bagno, sembrò rendere la
pelle morbida e i pori detersi, come promesso. Mi sentivo purificata
e, nonostante non potessi giurare di sembrare più giovane
di anni, mi sentivo più leggera e in un certo modo meno
complicata, come se la complicatezza della mia vita si accumulasse
in un certo modo nelle rughe del viso. Probabilmente la complessità e
la mia carnagione avevano qualche radice comune, oltre ad averne
una etimologicamente oscura. (3)
Avevo amato il latino a scuola, mi appassionava il semplice lavoro
investigativo che svelava l’origine e il significato più profondo
di parole comuni, ci avevo fatto la mano allo stesso modo in
cui alcuni bambini riescono a ricordare un’infinità di
barzellette, o di limerick (4), o di indovinelli. Ma come tutto
il resto, l’ho lasciato perdere, ho lasciato che anch’esso
andasse alla deriva in un angolo polveroso della mia vita dove
tutti gli altri interessi coltivati solo in parte, o appena accennati
o abbandonati se ne stavano a raccogliere polvere e rimpianto.
Forse una delle mie figlie farà studi classici, se troveranno
spazio per queste cose nei coraggiosi nuovi curricoli scolastici
ridotti, e non glieli lascerò abbandonare tanto facilmente,
insisterò perché riesca a venirne a capo.
La primavera, con le lunghe serate di luce, le bambine che corrono
su e giù per le strade con i figli dei vicini, è diventata
il periodo per la mia cernita annuale. La soffitta della nostra
stretta casa vittoriana è già piena degli entusiasmi
degli anni passati: una cyclette, una macchina da cucire Singer,
barattoli mezzo pieni di pittura, vecchie tende che hanno una
storia familiare e che non possono essere donate alla Caritas,
e polverosi sacchi neri della spazzatura i cui contenuti dimenticati
non servono ovviamente più. Faccio la Grande Cernita e
infine il corridoio finisce per essere zeppo di sacchi di vestiti,
giocattoli e libri da portare a scuola per la fiera estiva.
È
un compito dolceamaro, affrontare il tempo passato e rendersi
perfettamente conto che non tornerà mai più, che
mettere nel sacco nero di plastica i pantaloni rosso sbiadito
con Babar di mia figlia è un riconoscimento che una particolare
epoca se n’è andata per sempre – il pancino
tondo da bimbetta, i boccoli in cui si poteva infilare il dito,
la dolce sospirosa concentrazione che la bambina metteva in tutto.
Ma tenere i pantaloni è addirittura più triste,
e sono sicura mi distruggerebbe se li riscoprissi da vecchia.
No, meglio dir loro addio adesso, che ho le bambine a casa con
me ancora per un po’ di anni.
L’intensità della loro infanzia mi colpisce ancora
e sempre durante queste giornate di cernita, cosicché ho
bisogno di sedermi e tranquillizzarmi, fare dei lunghi respiri
profondi e lasciare che la sensazione cresca dentro di me per
poi passare. Riuscirò ad affrontare gli album delle foto
un giorno. Metto la data ai pacchetti e poi li archivio in scatole
da scarpe. Non ce l’ho fatta a visionare le videocassette
di loro da neonate e poi ai primi passi, e ora sento che dovranno
aspettare finché sarò vecchia e avrò dei
nipotini in braccio con cui vederle.
Nove anni fa, maestosa e sempre più grossa all’ottavo
mese di gravidanza della prima bambina, non avevo di certo intenzione
di fare la mamma a tempo pieno – quella razza vituperata
di donne dall’aria tormentata in calze cadenti che vedevo
dall’autobus o notavo, da dietro il giornale, nell’ambulatorio
del medico, le labbra contratte nel minacciare o soffocare la
rabbia mentre i bambini si arrampicavano su tutte le sedie. Il
mio piano di gioco era chiaro: marito (uno a disposizione), due
figli (uno già in cantiere, il secondo tre anni più tardi
per evitare la gelosia tra fratelli, preferibilmente una coppietta),
costante progressione di carriera.
Doveva essere una cosa tranquilla per i primissimi anni finché i
bambini erano piccoli, poi via a tutta forza, e CRASH! Attenzione
alle schegge di vetro volanti mentre sfondavo il soffitto invisibile
lassù in alto. Era per questo che ero andata all’università dopo
tutto, il diritto di una donna di Riuscire. Così avevo
pianificato un congedo per maternità di sei mesi (ma con
regolari contatti con l’ufficio), io, bambinaia di prim’ordine,
assicurata contro ogni rischio, deliziati o rimborsati, donna
delle pulizie, giardiniera occasionale, e poi – o dopo
aver ravviato l’organizzazione domestica – via di
nuovo alla mia vera vita, con in più il premio extra di
un adorabile piccolino profumato con cui non veder l’ora
di giocare alla sera.
Quello era stato il piano. Invece, con l’arrivo di Amy
e poi, due anni dopo, di Mona, la mia vita fu scaraventata in
un altro sistema solare in cui queste due piccole aliene divennero
le mie padrone e io fui programmata per servire le loro necessità e
i loro desideri. Cosa che sto tuttora facendo. Anche se ora il
polverone si è abbassato, io mi sono riadattata alla schiavitù e
ho perfino le notti e una serata ogni tanto libera. Ho addirittura
cominciato a scrivere, a tenere un diario, ho pensato di frequentare
un corso di scrittura creativa.
Perché sono solo i genitori a parlare di maternità o
paternità come cose creative? Perché la maternità in
se stessa non viene vista mai come il traguardo? Chi ci loda
perché abbiamo preparato i pranzi al sacco in tempo, ricordando
chi vuole che cosa?, i premi per il Traguardo di una Vita per
aver dato approvazione e non critiche?, il Premio Nobel per la
Pace per non aver urlato in risposta “Chi l’ha detto
che la Vita dev’essere giusta per forza?”
Oggi immagino la tappezzeria della Vita – l’Universo
e il Tutto – tutti con la maiuscola, e anche le vite individuali,
come una realtà multicolore, una cosa meravigliosa, disseminata
di fili d’oro e d’argento, e stupendi colori esotici
come il turchese e il Magenta che hanno perfino un suono che
magnifica la vita, e poi i rossi, i verdi e i blu che costituiscono
la vita di tutti. E ogni colore ha il suo significato: il rosso,
passione forte; il turchese, grande amore romantico; l’oro,
genio o fama o qualcosa del genere. Ma l’essere madre non è un
filo colorato ma la comune corda beige che è l’ordito
stesso del tessuto, quella che non si deve mai vedere, ma è la
base della tappezzeria. E’ una metafora bella e azzeccata
e nonostante mi senta vagamente arrabbiata a nome dell’ordito,
mi sento anche altera e sentimentale all’idea. Come potrebbe
l’ordito ribellarsi, pretendere di alzarsi ed essere preso
in considerazione?! Sconvolgerebbe completamente la trama, potrebbe
mettere in ombra persino lo stesso telaio – e nonostante
non abbia molto chiaro che cosa sia questo nella mia analogia,
so istintivamente che sarebbe catastrofico.
Quali sono i riti di una madre comunque? Partorirai con dolore,
sii devota, ama l’altro più di te stessa, impara
queste cose: la colpa che paralizza, la verità sulla tua
infanzia, quanto danno puoi fare, quanto responsabile sei, quanto
impossibile è farlo nel modo giusto, e che l’amore
e la biancheria pulita non bastano, non bastano proprio. E che
niente ma niente ti preparerà per quello che proverai
quando li perderai in un negozio per tre minuti, o la prima volta
che andranno a scuola da soli, o torneranno a casa più tardi
del previsto. Tutto in cambio di quei sentimenti occasionali
di una gioia che non sapevi esistesse e di un appagamento sensuale
che sorpassa qualsiasi piacere tu abbia mai provato a letto con
chicchessia. E proprio quando hai fatto totalmente tua la lezione
e accettato la figura ombra, il ruolo secondario, la miglior
spalla, la scrittrice fantasma, il gruppo supporter per la band
più importante, proprio quando ti senti bene ad avere
una piccola parte nella tua stessa vita, è ora di separarsi
e lo devi fare con grazia e generosità - senza mostrare
la confusione e il panico e la perdita che senti.
Maternità, ala materna, com’è fatta, a proposito?
In ogni caso, me ne serve una – un’ala scura pesante
abbastanza grande e abbastanza forte per assorbire tutto il sangue,
muco e lacrime che gli si possono versare sopra senza tuttavia
darlo a vedere – questo è l’importante. Perché far
vedere le macchie, e ammettere quanto l’intera faccenda
sia dura e penosa e maledettamente viscerale, beh, questo non
andrebbe bene, vero? Qualcuno ha dovuto rispondere al richiamo
dell’imperativo biologico, non è così? Qualcuno
come me.
Qualcuno come te. Ogni minuto ne nasce uno.
Improvvisamente è tutto chiaro come il giorno. Ricordo
quel bimbetto al supermercato. Lo sguardo dei suoi occhi me l’ha
reso cristallino. I biscotti, i cereali, quel bambino, io. Siamo
tutti geneticamente modificati. Io ho ereditato il naso di mio
papà, il senso dell’umorismo di mia mamma, e il
loro istinto di dare il meglio per le cose migliori della vita.
E quella lotta è la gioia stessa della vita. Mi soffio
il naso, prendo quattro pacchi di biscotti e mi avvio veloce
alla cassa. E’ quasi ora di andare a prendere le bambine.
NOTE:
1) “One
for sorrow”, (una per il dolore) è il primo, infausto
verso di questa filastrocca.
2) Guy Fawkes tentò di dare fuoco al Parlamento inglese,
senza riuscirvi, nel 1601; ogni 5 Novembre l’impresa viene
ricordata in Inghilterra con festeggiamenti popolari. [N.d.T.]
3) Complexity (complessità) e complexion (carnagione)
hanno una struttura morfologica somigliante che non è stato
possibile rendere nella traduzione italiana [N.d.T.].
4) Composizione poetica scherzosa in cinque versi [N.d.T.].
(Racconto
tratto dalla raccolta Riti di primavera, Centroscuola edizioni,
Mantova, 2000, tradotto da Antonella Lovato)
L’autrice,
Polly Tropos, vive con la sua famiglia nel Nord di Londra, dove è un’aspirante
madre e una scrittrice battagliera.
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