CITTÀ DI
DIO
Paulo
Lins
(...)
–
Tutti buoni e zitti, ochei? Tirate fuori tutto o sono cazzi!
I tre uomini che stavano bevendo birra non ubbidirono immediatamente.
Cercarono di ragionare con il bandito. Cabeleira, a cui piaceva
che gli dessero retta subito, colpì con un pugno in faccia
quello che gli stava più vicino e ordinò che mettessero
sul bancone tutto ciò che avevano. Una vecchia si strinse
al petto un bambino, implorando per l’amor di Dio, che
non commettesse nulla di male. Il rapinatore ripulì la
cassa del bar, prese il denaro degli uomini, orologi, la catenina
d’oro del bambino e se ne andò senza fretta. Camminava
per rua do Meio con la rivoltella nella mano destra, osservando
la gente, le case, le bettole. Rapinava le persone che gli sembravano
ben messe, sparò a un ragazzo che aveva abbozzato una
reazione.
Era un bandito che aveva bisogno di soldi alla svelta, in quelle
circostanze avrebbe rapinato chiunque, dovunque e a qualunque
ora, era disposto ad affrontare chi faceva lo stronzo, la polizia,
chiunque. Tutto ciò che desiderava nella vita, l’avrebbe
ottenuto un giorno, con le proprie mani e perché aveva
i coglioni, coglioni per davvero, mica per scherzo. Contava anche
sulla forza della pombagira, che lo proteggeva e che avrebbe
fatto un sortilegio potente affinché la fortuna gli fosse
propizia al momento opportuno. A tasche piene, la vita è una
meraviglia, la vita è piena di donne, la vita è fatta
come si deve: ti puoi far vedere in giro con un vestito fico,
con le scarpe fiche, offrire la birra agli amici, comprare un
casino di bianca e andartela a tirare in compagnia, e regalare
spinelli a chi vuoi, puoi fare gli occhi dolci alla negra più bella
e invitarla a bere un whisky, ordinare un piatto di patatine
fritte, mettere sul tavolino un pacchetto di sigarette col filtro
bianco, giocherellare con il portachiavi della macchina, per
farle vedere, alla fica, che non dovrà tornare a casa
con l’autobus, comprare un appartamento a Copacabana, fotterti
una fichetta ricca, avere il telefono, la televisione, ogni tanto
fare un salto negli States, come il padrone di sua zia. Un giorno,
al momento opportuno, la botta di fortuna sarebbe arrivata.
Accese solo la luce del bagno, contò i soldi, verificò gli
orologi, le catenine, i braccialetti, ne impacchettò una
parte, che lasciò lì per quel disgraziato di Arí,
il resto lo nascose sotto il letto. Aveva fame, ma aspettò che
fosse mezzanotte, mica voleva farsi arrestare all’ora di
cena. Accese una sigaretta, si ricordò che aveva dell’erba
inguattata in cortile, si fece una canna formato gigante e si
mise a fumare, con l’aria felice e soddisfatta di chi ha
compiuto il proprio dovere.
A
São Carlos, Cabeleira era abituato, fin dall’infanzia,
a frequentare i gruppi di banditi; gli piaceva ascoltare storie
di rapine, di furti e omicidi. Avrebbe potuto girare alla larga
dei balordi, ma ci teneva a farsi benvolere. Non gli negava
mai un favore, poteva fare sega a scuola per dare una mano:
puliva le armi, preparava le stecche d’erba; a volte,
per aumentare la propria reputazione, comprava il cherosene
che serviva a pulire le pistole con i suoi soldi. Quando fosse
diventato grande, si sarebbe procurato un ferro per far soldi
sulla strada, ma finché era un bambino avrebbe continuato
a rubare gli spiccioli di suo padre, che non se ne accorgeva
mai, ubriaco com’era. Sua madre, invece, teneva sempre
gli occhi aperti. Si sentì felice e baldanzoso quando
Charrão gli chiese di nascondergli in casa la sua pistola,
ancor di più quando Charrão venne assassinato
e quel ferro bello e luccicante gli rimase come inaspettata
eredità. Quella trentotto rappresentava la soluzione
di tutti i suoi problemi, il toccasana che palpava e sfiorava
e carezzava, trattato a cherosene, in attesa della botta di
fortuna.
Una sera, durante i mondiali, decise di pagare la birra agli
amici, che si sarebbero riuniti per vedere in televisione il
Brasile che avrebbe fatto il culo a qualche nazionale gringa.
Scese dal morro, fece un giro a Estácio e si diresse verso
Catumbí, deciso a trovare un bonzo da spennare. Ebbe fortuna,
più del previsto, quando mise la rivoltella in bocca a
un tipo con la faccia danarosa. Tirò su tanti di quei
soldi che oltre a pagare la birra a tutti, comprò anche
dieci grammi d’erba e diede un po’ di grana a sua
madre. Le voleva bene, anche se era una battona pettegola e linguacciuta,
le voleva bene. Gli chiese dove avesse preso tutti quei soldi
e si accontentò della bugia del figlio. Pensò di
darne un po’ anche a suo padre, ma non ne valeva la pena,
perché se li sarebbe bevuti, letteralmente. Il Brasile
vinse la partita, un’altra bella notizia.
Dopo la morte della nonna, Cabeleira decise che era finita l’epoca
in cui andava sempre in giro senza un soldo, non avrebbe più lavorato
come uno schiavo, mangiato intrugli freddi, preso ordini da bianchi
di merda, per essere costretto ad alzarsi all’alba, a fare
sempre il lavoro più pesante, e senza avere la minima
possibilità di cambiar vita, o di migliorarla un po’,
guadagnando sempre quello schifo di stipendio. In realtà,
la morte di sua nonna era solo una scusa, perché i suoi
piedi avevano già deciso quale strada prendere, anzi,
si erano già incamminati. Anche se la nonna non fosse
morta, avrebbe voltato comunque le spalle alla schiavitù.
No, non sarebbe stato un bonzo in un cantiere: lasciava di buon
grado questo compito ai paraíbas, ai coglioni
che venivano a Rio morti di sete. Alla terza rapina, ci fu una
sparatoria
con la polizia, ma per sua fortuna ne uscì illeso; gli
viene voglia di ammazzarsi di lavoro in cantiere insieme ai morti
di sete... macché, bandito, bandito doveva essere, e fortunato
come tutti i banditi, un giorno sarebbe venuta la botta di fortuna.
Nessuna
vittima delle rapine di Cabeleira lo denunciò, solo
il ragazzo che era rimasto ferito fu obbligato a fare il verbale
per via del poliziotto di guardia al pronto soccorso. Un altro,
invece, che giocava nell’Unidos, conosceva Alicate, era
uno di quelli che si fanno rispettare. Aluísio era venuto
da Irajá, suonava nella escola de samba di Cidade de
Deus, era compagno di scuola di Laranjinha. Umiliato, andò a
cercare qualcuno che gli offrisse comprensione o, almeno, solidarietà.
Però avrebbe reagito. Altrimenti che figura avrebbe
fatto? Potevano pensare che non valesse niente, e la cosa si
sarebbe ripetuta. No, non poteva proprio far finta di nulla.
Erano ormai le due del mattino quando Cabeleira vide Arí,
da uno spiraglio della finestra. Aprì la porta senza far
rumore e con un cenno ordinò al fratello di entrare in
silenzio.
–
Ecco, soldi, orologi e catenine che ti puoi rivendere a Estácio,
ochei? E dì a mamma che se vuole venire può venire
anche oggi, tanto io mi tolgo dai coglioni. Ma le devi dire che
non mi stia a cercare che io sto bene, ochei?
Arí rimase in silenzio, guardandosi in giro mentre suo
fratello parlava. Era convinto che era tutto colpa sua. Se non
fosse stato frocio, Cabeleira avrebbe abitato con loro. Quando
aveva cominciato a travestirsi, il fratello era andato via di
casa. Gli voleva bene, però, e ogni tanto pensava che
anche lui gliene volesse. Ora, attribuiva tutte le sue disgrazie
al sesso, cazzo, il sesso, che merda... Per qualche istante regnò tra
i due fratelli un silenzio che equivaleva a un abbraccio, o a
una stretta di mano, finché Cabeleira lo mandò via:
–
Ehi, sta’ attento, ochei? E riga dritto!
Arí si infilò nella notte di Cidade de Deus, in
cui tanti altri silenzi si ammucchiavano a ogni vicolo. Le ore
buie gli accendevano lo sguardo. Doveva stare attento alla polizia.
Qualsiasi cosa che non fosse simbolo assoluto della notte era
sospetta. Guardava a destra e a sinistra. Si tolse i tacchi alti
per mettersi a correre, quando notò un uomo fermo all’angolo.
Nascose meglio i soldi e gli oggetti, salì sul marciapiede
opposto a quello del suo possibile nemico, rallentò, si
concentrò sulla sua pombagira. L’uomo rimaneva
immobile, rendendo Arí ancor più apprensivo. Quando
fosse arrivato quasi all’angolo, si sarebbe messo a correre
all’impazzata.
Facendo finta di cercare qualcosa nella borsa a tracolla, tirò fuori
dalle mutandine il coltello a serramanico, lo aprì, se
lo passò sulla mano destra, sculettò più che
poté, per sembrare davvero una donna agli occhi del tizio.
Pensò di tornare indietro per chiedere aiuto a Cabeleira,
ma ebbe paura che il fratello lo accusasse di essere una donnetta.
Mancavano meno di dieci metri al punto in cui si trovava il suo
possibile aggressore, gli viene la tentazione di correre, era
il cuore, in quel momento, la cosa che faceva più rumore.
–
Non importa se la fica è gonfia o il culo è peloso,
perché il mio cazzo è glorioso! – disse l’uomo,
rivelandosi completamente ubriaco.
Arí svoltò l’ultimo angolo, camminò fino
alla fine della strada, entrò nel bar in cui Neide e Leite
lo aspettavano bevendo una birra. Il fratello di Cabeleira pagò il
conto alla svelta, aveva fretta di andar via. Entrarono nel Maggiolino
di Leite e presero la direzione di Estácio.
(...)
(Brano
tratto dal romanzo Città di Dio (Cidade de Deus), Einaudi,
Torino, 1999, traduzione di Andrea Ciacchi. Da questo libro è stata
tratta la sceneggiatura del noto film omonimo.)
Paulo
Lins è nato nel 1958
a Rio de Janeiro, dove ha studiato Letteratura presso l’Università Federale.
Poeta, ha pubblicato un volume dal titolo Sobre o Sol, e
negli anni Ottanta ha fatto parte del gruppo Cooperativa
dos Poetas. Ha poi partecipato a due ricerche antropologiche,
Crime e criminalidade nas classes populares e Justiça
e classes populares, e ha lavorato come insegnante. Città di
Dio è il suo primo romanzo.
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