DECOLONIZZAZIONE E OSPITALITÀ
Monica Francioso
Questo
saggio vuole riflettere su una situazione storico-letteraria
in continuo cambiamento, non solo dal punto di vista degli
avvenimenti politici, legislativi o di semplice cronaca, ma
soprattutto in riferimento a metodologie e classificazioni
letterarie. Si servirà di alcuni strumenti teorici forniti
da Armando Gnisci, professore di letteratura comparata all’Università ‘La
Sapienza’ di Roma. La situazione storico-letteraria è la
migrazione in Italia e la letteratura che essa sta producendo
in italiano. Attraverso il chiarimento di cosa Armando Gnisci
intende per decolonizzazione – solo uno degli elementi
del suo discorso – ci si vuole porre una domanda: come
può tale concetto contribuire a creare una nuova letteratura
che riconosca la propria identità non come identità di
patria, ma come incontri di identità molteplici?
Iniziata come testimonianza della difficoltà dell’immigrazione in
un paese storicamente caratterizzato dalla emigrazione, e generalmente scritto
a quattro mani con l’aiuto di giornalisti italiani, la letteratura italiana
della migrazione sta adesso lentamente e coscientemente trasformandosi in qualcosa
d’altro, in fiction ambientata in Italia, scritta direttamente in italiano
e senza aiuti esterni. Alcuni critici come Mia Lecomte e lo stesso Gnisci, rispondendo
alla volontà di alcuni scrittori come Julio Monteiro Martins, stanno cercando
di ridefinirne il ruolo, prendendo maggiormente coscienza del fatto che questo
tipo di letteratura potrebbe essere linfa vitale per la nostra letteratura e
per la nostra lingua.
Armando Gnisci è stato il primo teorico e storico della letteratura della
migrazione; è stato lui infatti a coniare la definizione “letteratura
italiana della migrazione”. Nel libro che porta questo titolo (1998), individua
in questo fenomeno non qualcosa a sé stante, ma più semplicemente
una “zona” della letteratura italiana così come esiste una
letteratura italiana dell’esilio, dialettale o di viaggio. Questo libro è stato
un primo passo verso una contestualizzazione di ciò che sembrava essere
semplicemente un fenomeno sociale e editoriale.
L’approccio di Gnisci è assai utile ai fini di questa riflessione,
specie in ciò che presuppone l’apertura reciproca. La sua poetica,
come lui ama definirla – respingendo con forza il termine teoria – si
intreccia con un discorso contro la globalizzazione ed è imbevuta di politica.
Nella presentazione di Creoli, meticci, migranti, clandestini e ribelli pubblicato
nel 1998, esordisce così: “una disciplina letteraria può (deve?)
diventare un discorso politico e addirittura un discorso a favore della ribellione?
Oggi sì – rispondo”1. Il suo linguaggio, dall’enfasi
polemica, è il frutto di questa ribellione. La disciplina letteraria a
cui si riferisce Gnisci in questo passaggio è la letteratura comparata,
all’interno della quale si muove e attraverso la quale si pone il suo richiamo
alla decolonizzazione e a un colloquio non gerarchico tra diverse culture.
Il termine decolonizzazione che Gnisci considera il nucleo del suo discorso politico-letterario
non è un termine da lui coniato, ma da lui è usato con nuovo impeto
nel panorama letterario italiano. Usato per la prima volta dal tedesco Moritz
Julius Bonn nel 1932 nel suo contributo all’Enciclopedia della scienze
sociali per la voce “imperialismo”, è poi diventato di uso
comune solo dopo la seconda guerra mondiale, specie tra gli anni ‘40 e ‘70,
quando gli imperi moderni europei venivano smantellati. Il termine chiaramente
indica il ritiro degli europei dalle colonie, ma può essere, e viene,
usato in senso più generale, come forma di resistenza / dissenso dall’ideologia
e dalla mentalità coloniale.
Nel libro Poetiche dei mondi pubblicato nel 1999, Gnisci spiega cosa
intende
per decolonizzarsi e attribuisce il suo uso all’espressione usata dallo
scrittore keniano Ngugi wa Thiong’o2 nel titolo di uno dei suoi
libri. “Un
europeo – scrive Gnisci – comincia a decolonizzarsi la mente […]
attaccando e scorticando la propria “natura” europea.”3 Bisogna
liberare la nostra mente, Gnisci continua, dall’idea eurocentrica e imperialistica
e tendere verso un colloquio paritario dei mondi “rieducando noi stessi,
attraverso l’imparare dagli altri, all’incontro ospitale e finalmente
felice”4.
Dal punto di vista letterario, se il critico vuole fare suo questo approccio
da “decolonizzato” ad una letteratura che sta al di fuori del canone
letterario italiano, deve dimenticare (o decostruire) quell’idea stessa
di canone e diventare parte integrante di un colloquio paritario e non egemonico,
di un colloquio ospitale con lo scrittore migrante.
Il migrante è per Armando Gnisci “l’unico vero avventuriero
del nostro tempo” perché parte da capo, si rimette in gioco e si
crea un altro destino; migrare, per lui, è l’atto di coraggio e
di dignità più estremo. Rimettendosi in gioco, il migrante si fa
ospite. La presenza dell’Altro, della faccia dell’altro, ci fa confrontare
e riconsiderare noi stessi, come afferma Tahar Ben Jelloun in Hospitalité française(1984) in cui lo scrittore sviluppa il concetto di ospitalità. Ospitalità è,
per Ben Jelloun, aprire le porte in maniera disinteressata all’altro, è dialogare
e ascoltare e nel dialogo e nell’ascolto imparare chi siamo e ridisegnare
non solo l’idea che avevamo dell’altro ma anche l’idea che
avevamo di noi. Così scrive Ben Jelloun nell’introduzione alla traduzione
inglese di Hospitalité française:
[a
guest] must be welcome, this other person who brings with him
a strangeness that speaks to me, that addresses me in my solitude;
for by the very fact that he comes from elsewhere […]
he reinforces my own being […] only a real stranger,
someone who doesn’t belong to the same biological family,
can bring me nourishment and teach me something about myself
and about other people5.
E’ evidente
che il concetto di ospitalità non può essere
un concetto univoco. Non basta la presenza dell’altro
a farci prendere coscienza e a insegnarci chi siamo. Ci vuole
da parte nostra una volontà all’ascolto e alla
risposta, una forma positiva di curiosità che ci permetta
di ascoltare e rispondere e di conseguenza capire e impare
reciprocamente.Ci vuole, da parte di noi europei, una volontà a “decolonizzarci”.
E’ evidente come i concetti di ospitalità e di decolonizzazione
fin qui presentati siano estremamente importanti per re-interpretare
l’idea di identità nazionale. Ma nessuno dei sue
termini sembra essere ancora stato interiorizzato. L’altro,
la faccia dell’altro minaccia la nostra identità con
una potenziale idea di contaminazione. Questo sembra esplicitarsi
nel modo politico di considerare la migrazione: come forma di
contaminazione negativa, come una malattia del corpo sociale.
Graziella Parati, nel definire le varie sanatorie degli
anni Novanta per regolarizzare gli immigrati clandestini, sottolinea
la valenza linguistica del termine sanatoria. Derivante
dal verbo sanare, la legge – dice la studiosa – sembra
mirare a curare il paese come se questo fosse un corpo malato,
contaminato: “this
terminology, borrowed from the rhetoric of sickness, is in this
context based on the assumption that becoming a country of immigration
involves a contamination of the body of the country. By calling
the law a sanatoria […] the nation is characterised […]
as a diseased body.”6 La letteratura deve porsi come forma
di resistenza all’equazione immigrazione=malattia, come
dialogo alla pari tra culture e memorie differenti che conduca
all’ abbandono di un’idea statica e monolitica di
identità e alla “costruzione” di una identità nuova,
ibrida, non solo di chi arriva e viene ospitato, ma anche di
chi ospita e si predispone favorevolmente all’ascolto.
In altri paesi europei, come la Francia e la Gran Bretagna, questa “costruzione” nonchè il
discorso sulla letteratura della migrazione è in uno stadio
molto più avanzato in cui gli scrittori migranti entrano
a far parte della tradizione letteraria nazionale, processo in
parte aiutato dalle teorie post-coloniali. In Italia la situazione è assai
diversa non fosse altro per il fatto che la migrazione dalle
ex-colonie è minore rispetto a quella da altri paesi e
quindi non sembra rientrare in un discorso strettamente post-coloniale.
Di conseguenza, non esiste quel collante tra ex-colonizzante
ed ex-colonizzato spiegato e teorizzato dagli studi di postcolonialismo.
Chi arriva in Italia viene da parti molto diverse del cosiddetto
Sud del mondo, con lingue e tradizioni diverse e molte volte
con nessun punto di contatto con l’Italia. Deve quindi
costruirsi da zero un idea del nostro paese e un bagaglio culturale
e linguistico, a differenza di ciò che avviene agli anglofoni
o francofoni che arrivano in Gran Bretagna o in Francia, e il
cui processo di acquisizione della lingua è meno elaborato
e l’utilizzo letterario molto meno problematico.
Come già accennato, ultimamente si sta assistendo al tentativo
di alcuni scrittori (come Salah Methnani, Ron Kubati o Julio
Monteiro Martins) e di alcuni critici (come per esempio Mia Lecomte)
di ridisegnare la mappatura di questa tipo di letteratura in
Italia e di trovare un nuova definizione che non sia emarginante
ma dialogante. La discussione è ancora molto aperta su
articoli teorici pubblicati su Kumà – una rivista
on line diretta da Gnisci stesso – o via email nei vari
newsgroups. Gnisci ha preso parte a questo tentativo, ma inserisce
il suo discorso in un’ottica più internazionalista
in cui considera la letteratura della migrazione come prodotta
da quegli scrittori “che cambiano vita e lingua, che girano
il tempo e lo spazio, che trapassano i mondi. Essi accrescono
la presenza del letterato nel mondo e creolizzano le contrade
dove si fermano”7. Lui stesso sottolinea
la diversità rispetto
agli italianisti nello sguardo sul migrante: “se guardati
dagli italiani/italianisti essi vengono visti e denominati “scrittori
immigrati”. Se si ha una prassi mondialistica essi appaiono,
invece, come la manifestazione locale dei migrant writers.”8 Quale
dovrebbe essere allora il ruolo degli italianisti che si interessano
alla letteratura della migrazione?
Anche il critico italianista si dovrebbe “decolonizzare” e
contribuire all’apertura di uno spazio ibrido all’interno
della letteratura italiana che rappresenti il punto di incontro
e di colloquio tra le due “alterità/identità”.
In senso reciproco. La letteratura prodotta da questi nuovi scrittori è già in
se stessa manifestazione della volontà da parte loro di
questo incontro. Lo scrivere in Italiano storie ambientate in
Italia con personaggi italiani e comunque con una “atmosfera
italiana” dimostra la loro aperta disponibilità all’incontro
con la nostra lingua, la nostra cultura e le nostre tradizioni
gettando su di esse nuova luce.
La letteratura italiana della migrazione, o letteratura italofona
(come preferisce definirla Graziella Parati) purtroppo non sembra
ancora essersi inserita – o non sembra ancora essere stata
inserita – in un dialogo vero e proprio con la letteratura
italiana tradizionale. Nel 1995 Mario Fortunato aveva dichiarato
nell’articolo di Adriana Poveroni “L’immigrato
racconta in Italiano,”9 che questo dialogo non potrà avvenire
ora con la prima generazione di migranti, le cui espressioni
letterarie vengono da lui considerate esperienze pre-letterarie
con valore prevalentemente sociologico e che non toccano la nostra
lingua e la letteratura. I fatti non gli hanno dato ragione.
Di recente, infatti, esattamente nel 1997, Gezim Hajdari, un
poeta albanese, ha vinto il premio Montale e Visar Zhiti, anche
lui albanese, ha vinto il premio Ada Negri. Questi due autori
italofoni, sono riusciti a sfondare con la qualità delle
loro poesie le porte dei premi letterari italiani e ad uscire
da una spirale che aveva limitato le loro voci a concorsi e convegni
per scrittori immigrati, come quello di Eks&Tra del quale
parlerò più avanti. Questo fa senz’altro
pensare che il colloquio non solo sia possibile, ma sia già iniziato,
e si può pensare di spingerlo oltre.
Un modo per mettere in evidenza lo spazio ibrido, di identità allargata
e modificata dal cosiddetto altro, da diverse alterità,
sarebbe quella di considerare queste espressioni letterarie come
fenomeno in qualche modo interno alla nostra letteratura nazionale,
come propone Gnisci, e farla colloquiare con essa. Che non sia
però un colloquio tra letteratura dominante e dominata.
Che non sia la rivendicazione della letteratura italiana, delle
sue influenze tematiche e linguistiche su di loro, ma un’apertura,
una curiosità verso quello che queste espressioni letterarie
(narrative e poetiche) ci possono dare per far sì che
se ne esca più forti e rinvigoriti. Forse un passo in
questa direzione sarebbe quella di guardare nella ‘valigia’ di
questi scrittori e capire cosa portano con se.
Una prima indicazione in questa direzione la si può trovare
in Mosaici d’inchiostro, un’antologia di
racconti in italiano scritti da immigrati nata dal concorso letterario
Eks&Tra. Il primo concorso letterario per immigrati nasce
nel 1995, e ogni anno pubblica i racconti e le poesie lì presentate.
Oggi, visto lo sviluppo che questa letteratura ha subito, un
concorso del genere potrebbe essere visto e percepito come ghettizzante,
ma quando l’idea è nata rispondeva al bisogno di
capire e soprattutto di dare voce a scrittori e scritti che sarebbero
stati altrimenti ignorati. Armando Gnisci, insieme a Graziella
Parati (i cui approcci sono ora diversi) sono stati tra gli organizzatori.
Nell’introduzione a Mosaici d’inchiostro,
l’antologia
del concorso del 1996, Graziella Parati nel fare una panoramica
di quella esperienza letteraria scrive che La promessa di
Hammad,
uno dei primi libri di testimonianza scritto da Saidou Moussa
Ba e Alessandro Micheletti è introdotto da un canto che
traduce e presenta in italiano la tradizione orale senegalese
dei Griot o cantastorie. Anche il racconto del Senegale Madou
Gueye “Storia di Gora, il sarto di Ndiobenne”, inserita
nella stessa antologia riprende una delle storie Griot costruendo “un
personaggio che si muove agilmente come mediatore tra culture:
quella del villaggio senegalese, quella della periferia di Dakar
e quella del “profondo Nord” lombardo”.10 Questo
potrebbe essere uno dei tanti esempi di ciò che questi
scrittori si portano in ‘valigia’ e nascondono fra
le righe. L’esempio dei Griot serve semplicemente per limitare
il campo, con la certezza che la varietà dei luoghi di
provenienza corrisponde ad una variegata tradizione letteraria
che si nasconde tra le pieghe dei racconti, dei romanzi e delle
poesie.
Ma può l’approfondimento, la conoscenza e la divulgazione
di queste tradizioni letterarie, di queste valigie fatte di parole,
contribuire da parte nostra al reciproco ascolto e arricchimento
offerto dall’ospitalità? Può questo interesse
alle tradizioni letterarie ‘nella valigia’ contribuire
a formare uno spazio ibrido di scambi paritari, dialogici, senza
cadere in una qualsiasi forma di neo-colonizzazione?
Navigando su internet si fanno a volte scoperte illuminanti.
Cercando la parola Griot, per capire quanto interesse c’è nei
confronti della tradizione orale africana, sono capitata nel
sito di un gruppo musicale di Rieti, I Novalia, che nel 1996
ha pubblicato un CD proprio dal titolo Griot, che viene così presentato: “Come
novelli griot, i musicisti del gruppo raccontano storie di emarginazione,
di rabbia sociale, di povertà e follia. Temi cari alla
tradizione narrativa popolare di tutto il mondo – orale
e scritta – che vengono riproposti con la loro carica di
fascino e sentimento.”11 Ispirandosi a una tradizione “altra”,
appoggiandosi al concetto di oralità in via di estinzione,
cercano di interpretare l’emarginazione in senso più generale.
Ma ancora più interessante è il fatto che nel 1996,
i fondatori del Gruppo (Raffaele Simeoni e Stefano Saletti) abbiano
creato l’Associazione Griot che, riprendendo l’idea
di base dei cantastorie senegalesi, si propone di recuperare
e valorizzare la tradizione dell’Italia Centrale. Mi sembra
questo un esempio convincente di spazio ibrido, di scambio in
cui le gerarchie sembrano scomparire, in cui l’ospitalità porta
alla conoscenza dell’altro e di se. Mostra la volontà,
attraverso un processo di “decolonizzazione” e di
ospitalità, di arrivare a formare un’identità letteraria
aperta a scambi e dialoghi con chi è già pronto
- e lo ha dimostrato – a dialogare e a scambiare. Volontà che,
ci si augura, sempre più italianisti vorranno dimostrare.
Note:
1 Armando Gnisci, Creoli, meticci, migranti, clandestini
e ribelli (Roma: Meltemi; 1998) p. 7
2 Vive e insegna a New York
3 Armando Gnisci, Poetiche del mondo (Roma: Meltemi, 1999), p. 10
4 Armando Gnisci, “Decolonizzazione”, Kuma, Aprile 2001 (www.disp.let.uniroma1.it/kuma).
L’enfasi è mia.
5 Tahar Ben Jelloun, “Introduction”, French Hospitality (New York:
Columbia University Press, 1999) p. 4.
6 Graziella Parati, “Looking through Non-Western Eyes. Immigrant Women’s
Autobiographical Narratives in Italian”, in Writing New Identities.
Gender,
Nation, and Immigration in Contemporary Europe ed. by Gisela Brinker-Gabler and
Simonie Smith (Minneapolis – London: University Minnesota Press, 1997),
pp. 118 – 142, (p. 119)
7 Armando Gnisci, “Lettere Migranti” in Creolizzare l’Europa (Rome: Meltemi, 2003), p. 172
8 Ibid., p. 174
9 L’Unità, 26 Aprile 1995
10 Memorie in Valigia (Rimini: Fara, 1996), p. 7
11 Dalla rassegna stampa nel sito: http://www.novalia.it/novahome.htm
Monica
Francioso è laureata a Padova
in lingue (inglese e russo) e poi ha fatto un
MA in inglese (all'università di Londra) dove si è occupata
soprattutto di postmodernismo anglosassone e italiano.
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